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Full text of "Gli Scrittori Del Giuoco Della Palla"

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A . JT. Vho 

Puoi-'. A. BONGIOANNI 


GLI SCRITTORI 
DEL GIUOCO DELLA PALLA 


RICERCHE E DISCUSSIONI LETTERARIE 




TORINO 

Casa FCciitrice 

ERMANNO LOESOIJER 
1907 


PUOFRIKTÀ LETTERARIA 







% 




PREFAZIONE. 


Nell’ accingermi a questo lavoro, io in’ ero 
proposto di contenerlo nel campo puramente lette- 
rario, studiando specialmente l’arte degli scrittori, 
com’essa si manifestava nei passi die trattavano 
del giuoco della palla ; ma presto m’avvidi che 
per l’intelligenza stessa di questi passi e per com- 
prendere come il nobile esercizio abbia potuto 
fornire materia e forme d’arte originali ai più 
svariati argomenti, eran necessarie alcune ricerche 
intorno alle varie forme di esso, alle sue vicende 
storiche e alla sua maggiore o minore frequenza 
nei diversi tempi. Queste ricerche dovettero essere 
più copiose nella prima parte, elio riguarda le let- 
terature classiche; nella quale mi accadde di do- 
vermi indugiare alquanto a ricercar le fonti delle 
notizie intorno al giuoco e a distinguere e deter- 
minar con precisione le forme di esso, sia per 
rettificare parecchie inesattezze che si leggono 
nei trattatisti che si copiali l’un dall’altro sia per 
proporre di certi passi d’autore una più probabile 
interpretazione o per risolvere le questioni a cui 


questi potevan dar luogo. Alla seconda parte in- 
vece potei dare, secondo il mio intendimento, 
carattere più letterario ; poiché, senza troppo oc- 
cuparmi di ricerche storiche, prese le mosse dal 
passo d’uno scrittore, m’estesi a esaminar l’arte 
sua, o particolare di quel passo o generale di 
tutta la sua opera letteraria, a delineare la sua 
fisionomia individuale o l’indole di tutto un pe- 
riodo letterario, a far raffronti con altri scrittori, 
a notar derivazioni, a dimostrar rassomiglianze, 
a rilevar pregi e difetti, eco. 

Non tutti gli scrittori , che han parlato del 
giuoco, io ho tratto sotto il mio esame: d’alcuni 
pochissimi non potei avere visione; altri omisi, 
perchè troppo poveri d’arte o di notizie o di signi- 
ficazione ; i più trattai più o meno diffusamente 
secondo la loro importanza; se bene o male vedrà 
chi avrà pazienza di leggere. 






PARTE PRIMA 


IL GIUOCO DELLA PALLA 
nella vita e nella letteratura dei popoli classici 



CAPITOLO I. 


Diversi periodi nella storia della ginnastica presso i Greci e forme 
maggiori e minori di essa. — Carattere del giuoco della palla, 
sue funzioni e suo sviluppo. — Le notizie più antiche del 
giuoco ( Odissea , VI), origine di esso, i trattatisti (Ateneo, 
Erodoto, Plinio e Saverio Quadrio; Caristio Pergameno). 
— Le varie forme del giuoco: la /'eninda e l ’ ar pasto (Ate- 
neo, Polluce e Marziale); Varpasto e l’epiaehiro (Ateneo, 
Polluce, Marziale e Antonio Scaino; Luciano, Ovidio e 
Properzio); l' Urania (Odissea, Vili e Polluce); V A porr assi 
(Polluce e Platone); le palle variopinte ( Odissea , Antillo, 
Platone e Ovidio). 

La ginnastica in uso presso i Greci ci si presenta 
sotto due forme: Luna, maggiore, più grandiosa, più 
fastosa, composta d’esercizi più violenti, per lo più mar- 
ziali, esclusivamente pubblici, solenni per il numero degli 
spettatori che vi partecipavano e per lo scopo a cui eran 
diretti; l’altra, minore, più umile, più mite e tranquilla, 
più familiare e fatta, sia in pubblico sia in privato, per 
sollazzo e passatempo. 

Ora, dallo scopo diverso che ciascuna delle due forme 
si prefiggeva e dal posto che l’una prendeva di fronte 
all’altra e anche dagli stessi generi letterari ne’ quali 
ciascuna trovava la sua espressione, mi par di poter di- 
videre la storia della ginnastica in tre periodi ben di- 
stinti tra loro. 


— 4 — 


Nel primo periodo la forma maggiore della ginnastica 
conserva il suo primitivo carattere religioso: consiste 
cioè in giuochi solenni diretti a onorare gli Dei, gli 
Eroi, i Defunti; la troviamo quindi nella grande poesia 
epica, che è appunto l’esaltazione di Uomini e di Numi: 
n eWIliaile e nei poemi che ne derivano. Achille infatti 
indice giuochi funebri per l’amico Patroclo (1) ed Enea 
per il padre Anchise (2) e i Troiani, arrivati al capo 
d’Azio, lieti d’esser sfuggiti alle crociere dei Greci, sa- 
grifìcano a Giove e celebrano Actia Iliacis... littora 
ludis (3). 

La forma minore invece ha per unico scopo il diletto 
ed è l’occupazione amena d’una gente che goda i be- 
nefìzi della pace: la si trova quindi specialmente nella 
letteratura idillica e pastorale: nnW Odissea (4) pressoi 
Feaci, che rappresentano appunto una società pacifica 
o gioconda (5); in Virgilio (6), dove enumera i vantaggi 
della vita dei campi; nel Sannazzaro (7), dove descrive i 
giuochi dei pastori, ecc. ecc. 

11 secondo è il periodo più glorioso della ginnastica 
e coincide precisamente col periodo più glorioso della 
storia greca. La forma maggiore della ginnastica è an- 
cora in esso, almeno esteriormente, un’istituzione reli- 
giosa; ma ha assunto insieme una funzione altamente 
civile: è divenuta uno dei fattori principali del carattere 
civile e della coscienza nazionale; la forma minore ha 
bensì ancora per scopo il diletto, ma è diventata coeffi- 


(1) Iliade, XXIII. 

(2) Eneide, V. 

(3) Eneide, III, vv. 278 e segg. 

(4) Odissea, VI e Vili. 

(5) Cfr. in proposito: Athai^ei Xaucratidis, Deipnosophi- 
starum Libri XV, in latinum versi a Jacopo Dai.eciiampio Ca- 
donensi. Lugduni, apud Antonimi) De Ilarsy, MDLXXXII1, lib. I, 
pag. 14 in fine. 

(6) Georchicbe, II, in fine. 

(7) Arcadia, Prosa XI. 


— 5 — 


cicute attivo dell’educazione della gioventù. È questo il 
tempo in cui è concetto comune allo spirito greco che 
è solo buon soldato o buon cittadino chi è sano e bello 
e forte, e solo è tale chi esercita il corpo con assiduità 
e perseveranza; è questo il tempo in cui ai giuochi pub- 
blici, olimpici o istillici o pitici o nemei, accorrevano 
spettatori da ogni parte della Grecia, e il vincitore in 
essi aveva onori maggiori che il trionfatore in Roma 
e la vittoria era registrata tra i fasti della patria. 

Ma mentre allora la ginnastica maggiore ebbe una 
glorificazione letteraria quale non aveva avuta mai nè 
più doveva avere, poiché l’inno di Pindaro (2), lanciando 
i suoi voli trionfali attraverso gli azzurri del cielo greco 
e inalzandosi fino al seggio degli Dei, poneva l’Olimpio- 
nice nel novero degli Eroi; la forma minore della gin 
mistica entrava nella letteratura solo indirettamente, 
raccomandata da' filosofi e da’ moralisti come elemento 
necessario dell’educazione d’ogni buon cittadino. Anzi già 
nei dialoghi di Platone la ginnastica accenna a congiun- 
gersi con la medicina, avviandosi così ad assumere quel 
carattere che le è più manifesto nel terzo periodo, il quale 
corrisponde a quello della decadenza della bella civiltà 
greca. I corpi si sono indeboliti, le fibre infralite; le 
formo violento e faticose della ginnastica maggiore non 
sono più sopportabili, se non dagli organismi più forti 
che sono i meno; prevalgono quindi le forme minori e 
s’accentua il loro carattere educativo non solo, ma 
anche, e più, quello igienico e terapeutico, sicché alcuni 
esercizi diventano perfino rimedi della farmacopea usuale 
contro malattie specifiche. 


(1) Cfr. tutta l’opera poetica ili Pindauo. Ma Pindaro è un 
solitario che non fa scuola. 

(2) 1 Greci di quest’epoca, Plinio Secondo li chiama col di- 
spregiativo di graeculi: « Graeeuli indulgent Gtjmnasiis » (Punii 
Secondi, Kpislulae , lib. X, 49. 


• « 


Ora, il giuoco della palla, il quale fu degli esercizi 
ginnastici uno dei più cari agli antichi Greci o Romani, 
perchè, adunando in sè varietà d’altre esercitazioni come 
il salto, la corsa, il lancio, ecc., e occupando tutte le 
membra del corpo, serviva mirabilmente a sviluppare la 
vigoria delle forze, l'elasticità dei muscoli, l’eleganza dei 
movimenti; segue, storicamente e letterariamente, le vi- 
cende delle forme minori della ginnastica. Lo vediamo, 
per conseguenza, escluso dalla poesia epica e dalla lirica 
corale di Pindaro; ma viceversa lo troviamo esistere già 
in due forme diverse, nell’età eroica, presso il popolo 
beato del magnanimo Alcinoo; e se, quando la ginnastica 
maggiore trova la sua apoteosi nelle liriche del poeta 
Tebano, esso modestamente si raccoglie nei trattati etico- 
morali e nella letteratura aneddotica e in alcune simi- 
litudini e immagini retoriche, quelli dimostrano la sua 
nobile funzione educativa e queste l’immensa sua diffu- 
sione per tutto il mondo antico, diffusione provata anche 
dal fatto che una parte dello stesso Ginnasio era — pol- 
lo più, se non esclusivamente — riservata ai giuochi con 
la palla; e appunto dal nome greco di questa sferisterio 
era chiamata. 

E quando, ammorbiditasi la ginnastica per adattarsi 
alle forze infiacchite dei decadenti, vennero a cessare 
tanti esercizi violenti e faticosi, il giuoco della palla, che 
aveva nella sua stessa natura trovate tante varietà da 
poterli sostituire, acquistò sempre maggior sviluppo e 
importanza, tanto da meritare da Galeno l’onore d’una 
trattazione speciale. E^?n verità la ragione della durata 
di quest’esercizio, attraverso a tutta la storia greca, dal- 
l’età eroica alla decadenza, e la sua frequenza presso 
tutte le classi di persone e la sopravvivenza a molti altri 
esercizi, consiste appunto nella sua naturai virtù di va- 
riarsi e di adattarsi. Mutate infatti le dimensioni e la 


materia della palla, mutato il numero dei giocatori e la 
distanza tra di essi, mutate le regole o solo qualche par- 
ticolarità sostanziale o accessoria del giuoco, ecco tante 
nuove varietà di esso, quali più semplici, quali più com- 
plicate; le line più facili, le altre più faticose; quelle rii 
carattere fanciullesco e trastullevole, queste grandiose 
e interessanti. 

1 teneri fanciulli quindi e le vergini delicate e i vecchi 
deboli trovavano in esso il diletto d’ un piacevole pas- 
satempo; i validi efebi invece e gli adulti robusti un 
esercizio che ritemprava e ringargliardiva le loro forze. 
Gli sfaccendati ingannavano con esso le ore tediose 
dell’ozio; la gente del volgo si sollevava con esso dalle 
fatiche del suo mestiere; uomini di studio e uomini di 
stato e uomini di spada si distraevano con esso dalle 
applicazioni e dalle cure della milizia e della repubblica. 
Vi giocavano gli Spartani rudi e forti, gli Ateniesi snelli 
e aggraziati, i Greci d’Asia e di Sicilia molli ed effeminati. 
Se ne dilettavano insomma persone d’ogni sesso, d'ogni 
età, d’ogni classe, d’ogni stirpe, trovando ognuno in esso 
una forma a sè adatta. 

Per corrispondere dunque a tanti scopi e per conve- 
venire a tanta gente e cosi diversa, l’arte della sferi- 
stica assunse a poco a poco grande varietà e numerose 
specie di giuoco si vennero a formare in essa. Di queste 
diverse specie, delle principali almeno, gli scrittori ce 
ne hanno conservati i nomi; ma le notizie intorno al 
modo con cui ciascuna di esse era fatta sono in verità 
vaghe e incomplete nei trattatisti più antichi, confuse 
e talora contradditorie nei più recenti; di guisa che non 
riesce sempre facile districarsi dalla seira selvaggia 
delle incertezze e delle contraddizioni. 

Ma considerando che queste incertezze e queste con- 
traddizioni sono derivate per lo più da differenti e non 
sempre rette interpretazioni che i trattatisti han fatto 
dei passi di quegli scrittori classici che, pur parlandone 
indirettamente, ci han lasciato della sferistiea le mag- 


— 8 — 


giori notizie, panni miglior cosa risalire a essi, come 
alle fonti più pure e genuine, per attingere intorno al 
nostro argomento le notizie più chiare e sicure. 


* 

* # 

Il primo accenno al giuoco della palla nella lette- 
ratura greca si ha nel canto VI dell'Odissea. Chi non 
ricorda il bellissimo episodio di Nausicaa pien di tanta 
vera e soave poesia? Per suggerimento di Minerva, che 
protegge Ulisse, la bella figlia del re Alcinoo se n'è ita 
di buon mattino con le ancelle ai lavatoi marini, non 
lontani dal luogo, ove giace addormentato l’esimio Ulisse, 
oppresso dalla stanchezza della lunga traversata; .Nau- 
sicaa, per volere della Dea, die benevoli cose pensa per 
l'eroe, dovrà servirgli di guida alla città dei magnanimi 
Feaci. Ila dunque (dia risciacquati i suoi panni e scio- 
rinatili; s'è bagnata con le ancelle e unta di grasso 
olio; ha preso con esse il cibo apprestato dalla saggia 
madre Arete; poscia, dopoché far sazie di cibo essa e 
le ancelle, giocarono dunque con la palla, avendo de- 
posti i celi del capo, e fra loro cominciò il gioco Nau- 
sicaa dulie belle braccia Ma quando appunto essa 

già aveva in /nenie di ritornare a casa, dopoché avesse 
aggiogati i muli e piegate le belle vesti, un’altra cosa 
pensò una Dea, Minerva dagli occhi lucenti : come Ulisse 
si svegliasse e vedesse la donzella dai begli occhi, la 
quale alla città dei Feaci lo guidasse. Allora dunque 
la regai fanciulla gettò la palla a un’ancella; ma 
sbagliò VanceMa e la palla andò a cadere in un vor- 
tice profondo; gridarono esse forte e l’esimio Ulisse 
si svegliò (1). 

E svegliato, è vestilo e rifocillato dalla gentil fanciulla 
e condotto alla città. 


(1) Odissea, VI, vv. 99-101 e 110-117. 


— 9 — 


Il passo, tradotto letteralmente, ci consentirà in se- 
guito alcune osservazioni importanti. 

Per intanto se ne può dedurre che in tempi antichis- 
simi il giuoco della palla era già assai comune, almeno 
nelle società pacifiche e tranquille come quella dei Feaci. 
A che prò' infatti Nausicaa sarebbe venuta ai lavatoi, 
se Plissé non si svegliava e si presentava a lei? Il giuoco 
dunque e il grido sollevato dalle ancelle all’error della 
loro compagna, è il mezzo al quale il poeta ricorre per 
risvegliar l’eroe. Bisogna dunque che quello fosse ben 
comune a tutte le classi di persone e assai frequente ai 
tempi dell'autor dell 'Odissea, perchè questi lo introdu- 
cesse nell’episodio come elemento d’arte e come mezzo 
naturale e verosimile dello svolgimento dell’azione. E 
come ogni usanza, per divenir popolare, ha bisogno di 
un periodo di precedente sviluppo nel quale metta ra- 
dice e si diffonda, così si può ritenere che il giuoco della 
palla già fosse in uso ai tempi anteriori agli omerici e 
probabilmente dunque già nell’età eroica (1). 

Gli eruditi anche s’esercitarono a ricercare chi no 
sia stato l’inventore o almeno presso quale popolo esso 
abbia avuto origine; ma le loro notizie ci paion piuttosto 
desunte da circostanze esterne di fatti o da caratteri 
particolari di persone e di città, clic non da dati intrin- 
seci e positivi. 

Ateneo, per esempio, ci riferisce che Agalli (2), nella 
sua grammatica Corcirea, fa Nausicaa inventrice del 
giuoco (3); ma è troppo evidente che quell’antico grani- 


ti) Bel resto l’antichità degli esercizi ginnastici — e non c’è 
ragione d’escludere da essi il giuoco della palla — è attestata dalla 
loro origine mitica. Platone però ne dà un'origine naturale; in- 
cominciarono i primi uomini a saltare; l’arte che ne ordinò i 
movimenti fu la Ginnastica (Leggi, VII). 

(2) Suida ha Anaijalli. — Cfr. SuidaE, Lexicon graece et 
latine. — Cantabrigiae, Typis Academicis, MDOCV. Tom. Ili, 
pag. 415 sotto s/ihaira. 

(3) Ateneo, fìeipnosoplt., lib. I, pag. 11. 


— 10 — 


malico di Coreica fu indotto nella sua opinione dalla 
lettura dell’ Odissea e dal desiderio di onorare la sua 
concittadina, come osserva lo stesso Ateneo (1); e così 
Dicearco che dà il merito di quest’invenzione ai Sicionii (1) 
e Ippaso che lo dà agli Spartani (1), furon senza dubbio 
tratti a farlo, l’uno dalla fama di quelli che furon popolo 
industrioso e attivo e fecondo d'invenzioni nelle arti, 
nella scienza e nelle manifatture; l’altro dalla fama di 
questi, primi sempre in ogni esercizio del corpo (1). 

Contrariamente a questi, Erodoto ci informa che i 
Lidi si vantavano d’aver trovato tutti i giuochi in uso 
presso di loro e presso i Greci. Ciò sarebbe avvenuto 
al tempo del re Albi, quando, essendo il paese tormen- 
tato dalla carestia, per ingannar la fame, inventarono il 
giuoco delle tessere ( cijboi ) dei dadi (rìsi ràgaloi), della 
/mila e tutti gli altri, tranne gli scacchi (2). 

Certo, chi abbia solo mente ai vari giuochi che og- 
gidì si fanno con la palla, più atti tutti a destar l’ap- 
petito che a calmarlo, farà le meraviglie di questa loro 
strana origine nata dal bisogno di smorzar gli stimoli 
della fame; e mostra infatti di meravigliarsene perfino 
il dotto Houlenger (3), versatissimo nella conoscenza dei 
costumi dei popoli antichi. 

Ma tra le forme antiche del giuoco con la palla, al- 
cune ve n’erano tranquille e senza grande movimento e 
tale era, per esempio, quella che si faceva con la 1." specie 
della piccola palla, cioè con la palla inolio piccola (sfódra 
micrà), nella quale, quelli che vi si esercitavano, movevano 
solo le mani le line assai vicine alle altre (4). In questa 


(1) Ibidem. 

(2) Erodoto, Istorie, I, 94. 

(3) Caius Julius Boulengerus, De Lndis apud reteres nel 
Thesaurus reterum anliquitatum Greciae ah Jacopo Gkonovio 
contextus et designatus, Y'enetiis, Pasquali, MDCCXXXV, vo- 
lume VII, cap. I, De ludorum orinine, col. 907, F. 

(4) Oribasii, Medieinalium coltectorum Libri XVII , in Me- 
ri tene artis prineipes post llippocratem et Galenum. Excudebat 


— 11 — 


(brina di giuoco, conio la descrivo Oribasio, si doveva 
ancora star ben ritti sul corpo; nelle pitture invece dei 
vasi, che son poi le testimonianze più sicure e fedeli, 
si vedono spesso fanciulle sedute che si gettano e ri- 
gettano la palla (1). 

Con queste forine, le quali, essendo statarie e alcune 
anche sedentarie, stavan benissimo in compagnia degli 
astragali e dei dadi, l'origine riferita da Erodoto cessa 
di essere assurda e diviene assai meno improbabile: 
sull'autorità infatti di Erodoto, mostrano di accettarla 
tutti gli scrittori che direttamente o indirettamente han 
trattato del giuoco della palla. 

E tra gli altri l’abate Saverio Quadrio (2); il quale però, 
insieme con la notizia di Erodoto, accoglie anche quella 
di Plinio, che fa inventore del giuoco della palla un tal 
Pithus (3); e cerca di metterle d’accordo. Ma nel farlo, 
dimostra il buon abate in quali traviamenti può cadere un 
uomo, anche di vero ingegno e di solida coltura, quando 
nei suoi ragionamenti parte da un’idea preconcetta. Nella 
sua Storia e ragion (Vogai poesia (1) aveva egli scritto 
che infinite cose s'erano propagate dall’ Egitto ad altre 
arnioni. Anche il giuoco della palla doveva a suo parere 
esser venuto alle nazioni occidentali dall’Egitto. Comincia 


Jlenricus Stephanus, MDLXVII, lib. VI, cap. XXXII, col. 298: 
« Pila ralde parrà; qui in ea exercentar carpare maxim eelato 
/aduni et colludenles manna mandata proxime admarent ». 

(1) Gulu e Kònkr, nella traduzione francese La eie des Greca 
et des Itomains, Paris, I. Kodtschild, éditeur, 1884, pag. 268. 

(2) Francesco Saverio Quadrio, Lettera intorno alla Sfe- 
ristica, ossia Giuoco della Palla degli antichi al marchese Teodoro 
Alessandro Trivulzio indiritta. Milano, Stamperia di A. Agnelli, 
1751, pag. 22 e anche pag. 9. 

(3) llistor. Naturalis , VII, 56-57: « Pilarn lusoriam invenit 
Pithus ». 

(4) Quadrio, Storia e ragion d’ogni poesia. Bologna, 1739, 
voi. 1, pag. 36; voi. Il, pag. 17 e 737: voi. IV, pag. 20, 32, 34 
e 109 e seguenti. 


— 12 — 


dunque ad asserire (1) che il Pithus di Plinio era figlio 
del re Athi, ricordato da Erodoto e anche da Plutarco (2). 
Ma Pythus, per una serie di variazioni fonetiche che 
sembrano salti e piroette d’un acrobata, si viene a iden- 
tificare con Phot, nato da Chain, figlio di Noè. E come da 
questo Pbut, secondo Giuseppe Ebreo, discesero i Libii, 
cosi la palla inventata da Pbut o Pythus, re di questi, 
viene a nascere nella Libia (la Lidia di Athi scompare) 
non tu senso stretto, sì quella parte della Libia infe- 
riore, che riguarda l'Egitto (3), cioè a dire nell'Egitto, 
come il buon abate voleva dimostrare (4). 

Ma tornando alle forme quiete del giuoco della palla, 
è tutt al più con esse che giocando si poteva cantare, 
se si vuol credere a Caristio Pergameno (5), il quale 
asserisce che ancora ai suoi tempi questo si faceva dalle 
donne di Corcira. Per quanto riguarda le donne dei suoi 
tempi, noi non abbiamo dati sufficienti per mettere in 
dubbio 1 asserzione di Caristio; e può darsi benissimo 
che le giocatrici di queste forme piane e statarie con 
una cantilena lene lene regolassero ritmicamente il get 
tare e il rigettar della palla. Ma poiché l’accenno a 
Nausicaa è evidente ed è evidente la sua derivazione 
dall’ Or/ òssea (0), fa d’uopo subito stabilire che la natura 


(1) Lettera intorno alla ‘eristica , ecc., pag. 22. 

(2) De Viriate morali, cap. XX in principio. 

(8) Lag. 27. 

(4) l’agg. 26-29. 

(5) Frammenti di Storici Greci, raccolti da C. Mùller. Pa- 
rigi, Didot, voi. I\ , pag. 369, lin. 14 e seguenti. 

(6) La notizia dataci da Caristio ha tutta l’apparenza d’essergli 
stata suggerita da una cattiva interpretazione del verso 100 del 
Canto \ 1 dell’ Odissea, dove Molpés non va preso nel senso di 
canto, ma in quello più largo di diletto, trastullo, giuoco. Non 
nego che alcuni, anche illustri, interpreti caddero nello stesso 
errore. Nella splendida edizione dei poeti epici greci antichi fatta 
a Colonia nel 1614 (Oi tés eroikes poéseos pAloioi poiètai pdntes, 
Colon iae Allobrogum ; Typis Petri De la Povere MDCX1V) con 


— 13 - 


e le circostanze del giuoco, quali noi le leggiam nel 
poema, escludono assolutamente che Nausicaa potesse 
giocando cantare. Il giuoco infatti richiedeva anzitutto 
grande attenzione; lo dimostra lo sbaglio fatto da Nau- 
sicaa nel gettar la palla all'ancella, causato appunto dalla 
disattenzione in cui Minerva, per i suoi ben noti fini, fa 
cadere la bella giocatrice (1). Richiedeva inoltre destrezza 
e forza: lo provano le varie circostanze di essa: le fan- 
ciulle depongono i veli del capo per esser più libero e 
sciolte nei movimenti; la palla lanciata con veemenza 
va a cader lontano nel gorgo profondo (2); Nausicaa è 
paragonata dal poeta a Diana che caccia su per le balze 
selvose delPErimanto e del Taigeto (3). 

Non è ammissibile quindi in modo alcuno che Nausicaa 
potesse cantare tra le fatiche e la tensione di un giuoco 
così difficile e faticoso; e cade l’asserzione di Caristio, 
per quanto si riferisce a quella Corcirese antica, e cade 
con essa la bella conclusione che ne vorrebbe trarre il 
Quadrio che si trattasse d’un giuoco a g rande perfezion 
condotto, perchè (Omero) lo descrive accompagnato da 
canto e da musica (4). 


la versione latina a fronte, il verso in questione è tradotto « Tuni 
Nausicaa pulchris tilnis incipit cantilenarli ». 

Ed il Pindemonte cosi lo riproduce: 

E il canto intonava alle compagne 
Nausicaa bella dalle bianche braccia. 

Ma l’edizione Didot ha invece: « Tum Nausicaa pulchris ulnis 
Indimi incepit» ed il Mazzoni: 

Con la palla giocavan i veli dal capo rimossi 
Davano il segno Nausicaa dalle candide braccia. 

E così va inteso. 

(1) Odissea, VI, vv. 112-117. 

(2) Ib., v. 116. 

(3) Ib., vv. 102 e segg. 

(4) Op. cit., pag. 26. 


— 14 — 


Ma a qual giuoco dunque s’esercitava Nausicaa? 

Ateneo, nominando prima Nausicaa e poi un giuoco 
detto phaùiinda (1), lascia capire die questo era il 
giuoco da essa fatto, sebbene poi dimostri di fare una 
cosa sola della feninda con l’arpasto contro ogni pro- 
babilità, come vedremo; Eustazio, commentatore antico 
e pregiato, dice apertamente essere il giuoco di Nau- 
sicaa la feninda (2); Polluce (3), che non ne dice nulla, 
è colui che implicitamente dà la prova maggiore che 
sia appunto dessa. Infatti le notizie, che ci dà delle varie 
specie di giuoco, egli le ricava dagli scrittori classici che 
ne han parlato: V Urania, per esempio, dall’ Vili del- 
V Odissea; l’ammenda cosidetta del Ile e dell'Asino dal 
Teeteto di Platone, ecc. E donde avrebbe desunto le no- 
tizie della feninda , se la descrizione, che ne fa, s’accorda 
così bene con quella del giuoco di Nausicaa? Ora la 
feninda (1) si faceva cosi: tra molti giocatori, chi era 
in possesso della palla, fingendo di gettarla a uno, la 
gettava invece a un altro, il quale doveva essere at- 
tento e pronto a prenderla, affinchè non giungesse a 
coloro, in mano dei quali si voleva evitar che venisse. 
La semplicità primitiva del giuoco e la circostanza 
che Nausicaa, tra tante compagne, a una sola in par- 
ticolare dirige la palla lasciati credere che si tratti pre- 
cisamente della feninda, nella forma semplice, piana e 
pur movimentata che troviamo ne\\' Odissea, non in quella 


(1) Op. cit., pag. 11. 

(2) IIiekonymus Mercurialis, De Arte Gymnastiea. Libro II, 
cap. IV. De sphaeristica in Utriusi/ue thesauri antiquitatum Grae- 
carum lìomanarumrjue nooa supplemento cont/esta a Johanne 
Polena. Venetiis, Pasquali MDCCXXXVII, voi. 111. col. 543, 1). 

(3) Polluce, op. cit., lib. IX, cap. VII, pag. 1091-1092. 

(4) Id. pag. 1092. 


(i in quelle più violente, scomposte e complicate che col- 
l’andar del tempo possono esser nate dalla forma antica 
o che con essa poi sono state confuse. 

Poiché a questo punto ci si presenta dinanzi una que- 
stione, la quale merita che ci soffermiamo a discuterla. 
Già abbiamo accennato come Ateneo, parlando della fe- 
rii nda, la identifichi con l'arpasto. Osserva egli infatti: 
Quel che nel giuoco della palla ora chiamano arpa- 
sto, una rotta lo chiamavano feninda(l). Polluce, più 
discretamente ma non meno chiaramente: Sembra poi 
che la feninda sia il giuoco con la palla minore ; il quale 
prende il suo nome, da rapire (2). Queste affermazioni 
valgono (pianto dire che arpasto e feninda erano la 
stessa cosa: il che contraddice a (pianto noi sappiamo 
dcll'arpasto. La fonte diretta delle notizie più genuine e 
sicure intorno a questo giuoco è ancora un poeta, ma sta- 
volta un poeta latino: Marziale. Nè deve stupire questo 
ricorrere a un poeta di Roma per risolvere una questione 
intorno a un giuoco di Grecia. Già prima assai del tempo 
in cui fiorirono i due scrittori alessandrini dai quali noi 
togliamo queste notizie, moltissime usanze e costumanze 
e molti spiriti e molte forme della civiltà greca erano co- 
minciate a penetrare tra i Romani; e accettate integral- 
mente e modificate secondo il carattere e i costumi del 
nuovo popolo, conservando o mutando il loro nome ori- 
ginario, s’erano poi di nuovo sparse per tutto il mondo con 
la dominazione romana: ed era cosi nata e s'era. sparsa, 
nel bacino del Moditerraneo specialmente, una civiltà 
che era la risultante della fusione della civiltà greca con 
la romana; più romana, per vero dire, in qualche centro, 
più greca in qualche altro; ma composta ovunque o nella 
sostanza o nella forma di elementi comuni, che quelle 


(1) Ateneo, loc. cit., pag. 11. 

(2) Polluce, loc. cit-, pag. 1902 «o eh tot) arpàzein ononui- 
xastai ». 


due civiltà, s'erano tra loro scambiati. Questa condizione 
di cose si riflette anche nella letteratura. Salvo la lingua, 
non si può quasi più parlare in questo tempo di lette- 
ratura esclusivamente greca o romana: poiché non v’è 
Corse scrittore greco, il contenuto delle cui opere non sia 
in qualche minima parte romano, come non v’è scrittore 
romano che non accolga in sé qualche po’ di contenuto 
greco: sicché in questo tempo servono tanto gli scrittori 
greci a illustrare le cose di Roma, quanto gli scrittori 
latini quelle di Grecia. Descrizioni infatti di usanze indi- 
gene e straniere; nomi propri, latini greci barbari orien- 
tali, di occupazioni, di fogge, di passatempi, d’oggetti 
d'ogni più estrania parte, si leggono in Marziale, che 
più al vivo e più fedelmente forse d'ogni altro scrittore 
ci rappresenta la società cosmopolita, varia, eterogenea 
dei suoi tempi. I suoi non sono quadri disegnati e dipinti 
con ampiezza di linee e. colori, ma piuttosto schizzi trat- 
teggiati a tocchi brevi semplici e (ini; scarni talvolta 
e compressi, ma nella loro nudità stessa più espressivi 
e vivaci. Spesso la linea s’accorcia o s’allunga, si drizza 
o si ricurva a segnare più visibile il difetto: lo schizzo 
allora si fa pupazzetto, e più acuta ne scatta la punta 
satirica; ma sempre l’essenza e il carattere della natura 
delle persone e delle cose è colto e riprodotto con im- 
peccabile precisione ed evidenza. Ora, se da mia parte 
lo stesso scopo satirico della sua poesia lo portava a 
osservare la vita a sé circostante e a spiare ogni più 
minuta abitudine e occupazione di tutte le classi di 
persone e a fermare nel conio dei suoi epigrammi 
quanto di notevole gli capitava sott’occhio; dall’altra 
la tendenza stessa del suo spirito e la qualità del genere 
letterario da lui trattato che lo portavano alla concisione 
e gli facevano aborrire le circonlocuzioni, il suo verismo 
audace e spudorato che non gli negava l’uso di nessuna 
espressione e lo tratteneva dall’eufemismo, l’esigenze 
delle frequenti antitesi che amano il senso proprio del vo- 
cabolo, gli fecero radunare nei suoi scritti tanta varietà 


— 17 - 


.li particolari intorno a usi, costumi, condizioni, profes- 
sioni, divertimenti, mode, ecc. ecc., tanta ricchezza di 
termini tecnici riguardanti gli oggetti della casa e dei 
templi, dei ginnasi, ecc. ecc., che un commento, appena 
sufficiente all’intelligenza delle sue poesie, basterebbe a 
formare, a mio parere, un quadro completo della vita 
del suo tempo. 

Nessuna meraviglia dunque se anche intorno al giuoco 
della palla è Marziale che ci fornisce le più copiose 
informazioni. 

Ecco Pepigrammà in cui egli definisce Yarpasto: 

Haec rapit Anthaei velox in pulvere draucus, 
grandia qui vano colla labore facit (1). 

Il rapit, in cui è accennata l’etimologia di arpa. s/o. 
contiene già in sé l'idea della violenza; chè ogni rapina 
6 lotta e ogni lotta è sempre più o meno violenta. 11 
giuoco inoltre, vuoi perchè spesso la palla cadeva a terra 
e i giocatori s’affollavano e s’avviluppavano nella lotta 
intorno a essa per carpirla, vuoi per il tramestio che 
d’ogni parte si faceva continuamente, sollevava gran 
polvere: il poeta questo, lo rileva col in pulrerp Anthei ; 
e vi insiste ogni qual volta ne ha da parlare in altri 
epigrammi. Così Yendromida servirà all’amico, quando 
si sarà fatto sudare a rapir Yarpasto marni pulve- 
rulenta{ 2); e l’altro amico farà bene a temprarsi in 
esercizi anche più energici che non sia il rapir l’arpa sto 
pulverulento (3). Inoltre questo giuoco era assai faticoso; 
e per questo e anche per la immoderata veemenza e 
per i movimenti scontorti e scomposti, riservato esclu- 
sivamente agli uomini. Lo stesso Marziale infatti volendo 
rappresentarci una virago che la vuol far da uomo, dice 
che non solo mangiava e beveva più che virilmente, ma 

• r 

(1) Edizione Teubneriana di Lipsia. Lib. XIV., Ep. 48. 

(2) IV, 19. 

(3) VII, 32. 


anche s’esercitava in tutti gli esercizi più faticosi e tra 
gli altri n e\V ai-pasto (1). 

Ciò considerato, chi legge con qualche attenzione 
l’episodio di Nausicaa gentile, può seriamente pensare 
eh 'essa giocasse al Var pasto ? N essa n accen no nel l’ Odissea, 
nessuna, anche lontana, allusione giustificherebbe una 
tale interpretazione. E poiché dalle medesime sue pa- 
role, non v’è dubbio che Ateneo parli AqW ai-pasto (2), non 
si può spiegare altrimenti la confusione che egli e Pol- 
luce, che forse lo copia, fanno della feninda collV/e- 
pasto, se non ammettendo una delle due seguenti ipotesi: 
l.° che i due scrittori siano stati tratti a identificare la 
feninda, giuoco al loro tempo già forse caduto in disuso, 
con Yarpasto da una certa quale apparenza di rapina 
che pur c’è nella feninda, tentando i giocatori, ora col 
chinarsi, or collo stendersi, or cól piegarsi, or col saltare 
qua e là, d’intercettare la palla ad altri diretta; 2." che 
la feninda, giuoco in origine semplice c interessante 
ma non soverchiamente faticoso e turbolento, si sia ve- 
nuto complicando e trasformando, fino a tramutarsi a 
poco a poco ue\V ai-pasto, tanto in voga ai tempi di 
Ateneo e Polluce da far dimenticare la feninda e il modo 
più calmo, più solazzevole, più fanciullesco con cui essa 
si faceva (3). 

Ma piuttosto che alla feninda mi par che Vai-pasto si 
possa avvicinare a un altro giuoco che Polluce chiama 


(1) VII, G7. 

(2) Loc. cit., pag. Il «quel ette nel giuoco della />alla era 
chiamato Arpasto un tempo chiamavano Feninda, anche a me (jrc- 
ditissimo per la fatica e l’ardor della lotta intorno alla palla». 

(3) Il (juAimio (loc. cit. pag. 47 e segg.), nega anche lui che 
la feninda possa essere l 'arpasto per tre ragioni : 1 .“ perchè Omero 
non potè rappresentarci donzelle che giocando facessero di sé si 
mal governo; 2." perchè \s.faininda consisteva in infingimenti e 
inganni; 1‘ arpasto in combattimenti e gare, cioè non era giuoco 
ingannatorio ma certatorio; 3.* perchè diversa era la maniera ili 
giocare. 


— 19 — 


epishyros o epikoinos o ephébiké, sebbene altri voglia 
mostrar di negarlo (1). 1 giocatori che dovevano essere 
molti ( epikoinos ), si dividevano in due schiere eguali di 
numero e si ponevano in distanza gli uni contro gli altri; 
si tirava in mezzo una linea (detta sckyros, onde eplshyi'os) 
e sopra di essa si poneva la palla; due altre linee a 
questa parallele e da questa equidistanti, limitavano lo 
spazio in cui le schiere si potevano muovere; vinceva chi 
mandava la palla oltre la linea segnata dietro la schiera 
avversaria. 

Il modo con cui Polluce descrive questo suo epishyros 
non lascia dubbio: il numero dei giocatori ( epikoinos ), 
la loro età e gargliardìa ( ephebihé ), la linea in mezzo, 
la palla collocata in principio su di essa, le due linee 
estreme limitanti lo spazio, le condizioni del vincere, tutto 
là pensare aWarpasto e al florentin giuoco del calcio, 
che dà questo, con ogni probabilità, per non interrotta 
tradizione ò derivato. 

Si mettano infatti insieme e si combinino e si com- 
pletino l’una coll’altra le indicazioni che ce ne lasciarono 
Marziale, Ateneo e Polluce; si paragonino con la descri- 
zione che del calcio fa Antonio Scaino nel suo trattalo 
del pallone; poi si giudichi, se non si tratta dello stesso 
giuoco: Si segna spazio entro al quale hanno a cacciar 
la palla quelli che voglion esser i vincitori della bat- 
taglia; si batte la palla con qual parte più piace della 
persona e sia ogni tempo a terra o in aria, ecc. ... (2). 
Si pone la palla in mezzo e, dato il segnale (con tromba 
o tamburo), uno colpisce la palla col piede — onde 
gioco del calcio — ; quindi si caccia e ricaccia (3), 11 


(1) Lo nega infatti il Jungermann alla nota 84, pag. 1092 
dell’opera citata di I’olluce : « Xec itaque rectum « harpastum» ad 
« cpiskgrou sphalras eidos » referri putant posse viri dodi ». 

(2) Antonio Scaino, Il giuoco della palla , Venezia, Giolito, 
1555, pag. 283. 

(3) 10., pag. 283. 


— 20 — 


giuoco è vera battaglia nella quale spessissime rotte 
quinci et quindi, ranno i giuncatovi con grandissima 

vitina sossopva e dove si scorge il valor dei 1>uoni 

corridori et di quelli che alfa fotta sono destri e pos- 
senti (1). 

L’idea della lotta, che compare, implicita o esplicita, 
in questi scrittori citati, fa pensare al dialogo di Luciano 
intitolato Anacarsi nel quale Solone, dopo aver lunga- 
mente esaltati i vantaggi della ginnastica, ammonisce il 
filosofo Scita: Poiché- tu dici, o Anacarsi, che visiterai 
anche il resto della Grecia, ricòrdo/ i, quando giungerai 
a Sparto, di non deridere quei cittadini né credere 
che essi facciano opera inutile, quando nel teatro sca- 
gliandosi l'un contro l’altro in lotta contro la polla- 
si percuotono; sicché , soggiunge, da questo e da altri 
esercizi escono tutti pesti e sanguinanti (2). E anche 
vi accenna Seneca, quando scrive a Lucilio suo di esser 
lieto che la sphaerornachia (3), cioè la lotta intorno alla 
palla, lo liberi per quel giorno dai molesti, attratti allo 
spettacolo; ma sentendo venir gran clamore dallo stadio, 
si domanda il filosofo perchè tanto pochi coltivino l’in- 
gegno si corpus perdaci exercitatìone ad lume pa- 
tientiam potest, qua et pugnos pariter et calces non 
unius hominis ferut, qua solem ardentissimum in fer- 
ventissimo polvere sustinens aliquis, et sanguine suo 
madens, diem ducat (3). 

Dove i tratti fondamentali del giuoco, che noi vedemmo 
in Marziale, in Ateneo, nello Scaino, sono quasi identi- 
camente, perfin cogli stessi vocaboli, riprodotti, esclu- 
dendo la descrizione evidentissima di Seneca ogni altro 
significato di sphaerornachia che non sia lotta intornio 
alla palla, come rescinde Stazio stesso, quando, sphae- 


(1) Ib., pag. 286. 

(2) Luciano, Dialogo XLIX, 'Andcharsis é peri gt/mnasion, 38. 

(3) Seneca, Episiulae Morales ad Lucilium, Epistola LXXX. 


— 21 — 


roinachia avvicinando a Insto pilaris, dà del suo signi- 
ficato non dubbia esplicazione (1). Ed è senza fallo questo 
giuoco deWar-pas/o che Ovidio sconsiglia alle donne come 
forma di giuoco troppo faticosa e turbolenta. Imparino 
esse gli scaccili, gli astragali, i dadi; mille fossero i 
giuochi, tutti gl'imparino (2): ma agli uomini Sun/ cele- 
resque pi lue (8), dove il celeres collima a puntino con 
il relax di Marziale, nè lascia dubbio sulla natura del 
giuoco. Ed è ancor questo il giuoco, a cui Properzio me- 
ravigliando e ammirando che s’esercitassero le fanciulle 
spartane, nega implicitamente che vi si esercitassero le 
romane (4). 

Da tutto questo si vede che Vai-pasto, per la sua stessa 
violenza e fatica, era piuttosto in uso presso la gente 
giovane e forte e tra i popoli era preferito dagli Spar- 
tani e dai Romani, di tutti più energici e robusti; e 
resta sempre più confermata la conclusione che esso non 
è il giuoco di Nausicaa. 

Ma oltre a questo, fatto dalla ‘figlia del re, ancora a 
un altro i Feaci si divertono nell’OdiSsm; e Polluce lo 
chiama Urania, dal gettar che si faceva la palla verso 
il cielo. Ecco il racconto dell’ Odissea: Ulisse, pervenuto 
ai palazzi del magnanimo Alcinoo, sebbene ancora sco- 
nosciuto, v’è ospitato regalmente con tutti gli onori che 
si dànno agli ospiti insigni. Il re lungi potente ha fatto 
approvar dall'assemblea l’allestimento d’una trireme per 
ricondurlo alla patria terra; ha invitato i nobili scettrati 
a un banchetto in suo onore; ha indetto finalmente 
pubblici giuochi per dilettarlo. Tra gli altri vi fu quello, 
in cui i Feaci erano più esperti, vale a dire la danza 
con la palla. Gareggiano Alio e Laodamante. Questi 


(1) Stazio, Epistula ad Marcellum, come prefazione al lib. VI, 
Bylcarum. 

(2) Ovidio, Ars Amatoria, lib. ni, v. 349 e segg. 

(3) Ovidio, Ars Amatoria, lib. Ili, v. 383. 

(4) Properzio, Elecjie, III, 14.“. 


dunque, dopoché ébbcr preso in mano la beila palla pur- 
purea, che per loro fece Polibo, l’uno la gettava verso 
le nubi ombrose, piegandosi all’ indietro; l’altro poi da 
terra in alto slanciandosi, abilmente V afferrava prima 
di laccar coi piedi la terra (1). 

Polluce, nel ripetere su per giù quel che di questo 
giuoco si legge nell* Orfi'ssm cade in un'inesattezza ripe- 
tuta poi da Mercuriale (2) c da altri trattatisti posteriori. 
Scrive egli infatti: Nell’ Urania poi uno. piegandosi, 
gettava la palla verso il cielo; gli allei saltando avevan 
cura di prenderla, prima eh' essa cadesse a terra ( prtn 
eis gdn autèn peschi) (3), mentre è chiaro il passo del- 
V Odissea: pàros poshi oùdas hihéstai (4) cioè: prima 
che (il giocatore) toccasse coi piedi la terra (5). In questo 
anzi consisteva tutta l’abilità.; misurare cioè con rocchio 
la distanza della palla e calcolarne la velocità, per esser 
pronti a spiccare il salto all’istante conveniente e affer- 
rarla, mentre s’era col corpo in aria. 

Ma in verità, tutte le notizie che Polluce ci dà in 
questo passo, oltre non essere esattissime, sono assai 
oscuro e disordinate. Ecco, per la chiarezza, la traduzione 
letterale del passo: AW/’apnrraxis bisognava gettar la 
palla contro il suolo, e aspettato il salto, ribatterla 
con la mano ; e si contava il numero dei salti. Nel- 
l’ Urania invece, l’uno, piegandosi, gettava la palla al 
cielo; gli altri poi avevan cura di prenderla, prima 
che cadesse in terra, il che par che voglia dire Omero 


(1) Odissea, Vili, vv. 372-377. 

(2) Mercuriale, loc. cit- , lib. II, cap. IV, col. 544, C. 

(3) Polluce, loc. cit., pag. 1093. 

(4) Odissea, Vili, v. 376. 

(5) Ben traduce il Pindemonte: 

L’un la palla gittava vèr le fosche 
Nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto 
Spiccando, riceveala, ed al compagno 
La respingea senza fatica o sforzo 
Pria che di nuovo il suol col piè toccasse. 


- 23 — 


dei Feaci. Quando però gettassero la patta contro il 
maro, computavano il numero dei sotti; il vinto era 
chiamato asino e faceva quel che gli si ordinasse; il 
vincitore invece era re e ordinava. Dunque egli parla 
prima di un certo giuoco che chiama Aporraxis e che si 
faceva scagliando la palla contro il suolo e poi colpen- 
dola nel salto colla mano; si contava quindi il numero 
dei salti e vinceva chi glie ne faceva far di più; poi 
passa a descrivere l’Urania, nella quale la vittoria non 
dipendeva affatto dal numero dei salti che si facessero 
fare alla palla; finalmente ritorna a parlar d’un giuoco 
in cui di nuovo si contava il numero dei salti, che eran 
quelli che appunto decidevan della vittoria; senonchò la 
palla, invece di battersi contro il suolo, si gettava contro 
il muro (1). Ora, l'Urania m'ha tutta l'apparenza di star 
li a dividere in due parti la descrizione d’un medesimo 
giuoco che si presentava sotto duo aspetti diversi se- 
condo che la palla si batteva contro terra o contro il 
muro; leggera differenza, messa benissimo in rilievo dalla 
tenue avversativa però , che sarebbe più che impro- 
pria, se fosse stata usata a far rilevare una differenza 
sostanziale quale sarebbe quella tra l’Urania e il giuoco 
che segue. Era questo necessario avvertire, perchè eb- 
bero di qui origine certe conclusioni inesatte che è bene 
rettificare. 

Polluce, infatti scrive: Il vinto poi veniva chia- 
mato asino ed eseguiva quel vite gli si ordinasse; il 
vincitore invece era re e dava l'ordine . Questa parti- 
colarità è evidentemente ricavata dal Teeteto di Platone; 
nel (piale si legge: Chi errerà , quando gli toccherà di 
parlare , segga, come dicono i fanciulli giocando alla 
palla, e sia asino; e chi riesca a non sbagliare, sarà 
nostro re, e ordinerà qualunque cosa voglia sia ris- 
posta (2). Appare dunque evidente che una maniera sif- 


(1) Polluce, loc. cit., lib. IX, cap. VII, pag. 1098-1094. 

(2) Platone, Teeteto, HI, 146. 


— 24 - 



fatta di premiare il vincitore e di dare una penitenza al 
vinto era comune a tutti i giuochi che i ragazzi facevan 
con la palla. 

E questa medesima cosa afferma Eustazio nel com- 
mentare il passo dell’Orftssra, dove i due giovani Feaci 
gareggiano all’Urania; poiché egli non parla nè di un 
giuoco nò dell’altro in particolare, ma dice semplicemente 
che, giocando alla palla, chi vinceva era chiamato re 
e asino chi perdeva (1). Errano quindi tanto quei trat- 
tatisti e commentatori, i quali vorrebbero che questa 
usanza fosse particolare deH’Urania (della quale, ad ogni 
modo, meno particolare doveva essere che di qualunque 
altro giuoco, perchè questa esigeva grande abilità e di- 
ligenza e si faceva non tra i fanciulli, ma tra i torti 
efebi, assai, e forse unicamente, studiosi dell’onor della 
vittoria), quanto quelli che la dicono propria del Vapor- 
russi (alla quale però meglio parrebbe adatta, perchè 
giuoco e ammènda, per il loro carattere fanciullesco, 
sembrano ai ragazzi maggiormente convenire). 

Ma ritornando ai Feaci e alla loro Urania, la gran 
passione che essi avevano per questo e per tutti i giuochi 
con la palla — passione che ebbero poi dopo tutti i 
Greci — la si rivela anche nella cura che riponevano 
nel fare la palla e nel rivestirla di bei colori. La pre- 
para quindi ad Alio c a Laodamante l’industre Polibo 
e l’adorna d'un bel colore rosso ( spimi ra poì'phyrée) (2). 
Più tardi si dipinsero poi anche a più colori. Platone, 
nel descrivere la sua terra ideale, la paragona a una 
palla formata con dodici liste di pelle distinte da colori 


(1) Il passo di Kustazio (il quale a sua volta cita il Teeteto 
e un proverbio di Cratino) è riportato da Gotofrfdo Jungur- 
mann in una dotta nota a l’olluce, colla quale tenta di dar maggior 
assetto al disordine del testo, correggendo l’interpunzione. Ma 
ci riesce solo a mezzo. — (Vedi edizione citata dell’llemsterliuis, 
pag. 1903, nota 94). 

(2) Odissea, Vili, v. 373. 


— 25 — 


diversi, dei quali i colori di quaggiù, di cui fanno uso 
i pittori, sono le immagini (1). 

Più solitamente però erano dipinte lo palle che s’usa- 
van nei giuochi minori; probabilmente quelle che Antillo 
chiama piccole e grandi {non le piè grandi del giunto), 
le quali, fatte di polle fine e sottile e ripiene di piume 
o di lana o di grani di fico o anche di sabbia, erano 
usate più specialmente dai fanciulli e dalle fanciulle. Si 
trovano infatti disegnate sopra vasi fìttili palle colorate 
come accessorio nelle scene della vita del ginnasio e dei 
.divertimenti donneschi. Anzi se ne rinvennero, con di- 
versi altri balocchi e arnesi da lavoro, sospese alla pa- 
reti d’una tomba d’una greca donzella (2). 

E Ovidio, il fine interprete dei miti greci, ci rappre- 
senta P infelice Pigmalione, che, foggiatasi con le sue 
stesse mani la sua pena amorosa, spasima dinanzi al- 
l'insensibile statua eburnea. E arde e sospira e l’am- 
mira e le favella e l’accarezza e la bacia; poi, per cat- 
tivarsene l’amore, 

grata puellis 

Miniera fert illi conclias teretesque capillos 
Et parvas volucres et llores mille colorimi 
Liliaque pictasque pila» et ab arbore lapsas 
Heliadum lacryinas (3). 

Tra gli altri doni dunque anche le palle variopinte; 
prova evidente della loro frequenza nei trastulli d’una 
greca donzella. 


(1) Platone, Fedone, LIX ; in principio. 

(2) Dizionario delle antichità Greche e Romane di Antmones 
Ricii, tradotto sotto la direzione di R. Bonghi e G. Dei. Ri-: sotto 
Pila. 

(3) Ovidio, Metani., X, vv. 259-263. 


r 




CAPITOLO II. 

Te varie forme di giuoco presso i Romani: il trilione; alcune 
usanze di questa e di altre forme di giuoco (Marziale, Ma- 
crobio e Diogene); il folte e il follicolo (Marziale, Antillo, 
Svetonio, Flauto); la par/anica e alcune frasi tecniche del 
giuoco (Marziale, Varrone, Nonio, Plauto); congetture 
intorno all’interpretazione di <|ueste frasi ; l’opinione del Qua- 
drio; significato del vocabolo PiUerepus (Seneca, un’iscri- 
zione antica); una multa originale al vinto. 

La ginnastica presso i Romani non ebbe mai carattere 
religioso e quindi neppure l’onor d’una letteratura che 
fosse l’esaltazione di essa e insieme di miti religiosi e 
leggende eroiche, come fu in Grecia la lirica di Pindaro; 
salvo, per rillesso, qualche accenno fuggevole in Orazio. 
Essa, nè nella sua forma più importante, cioè in quella 
di carattere marziale che si faceva al campo di Marte 
per preparare alla patria buoni soldati, nè nella sua 
forma minore, cioè in quella fatta per diletto negli sfe- 
risteri pubblici e privati e un po’ dappertutto, non ebbe 
una letteratura sua propria: il giuoco della palla ne 
seguì naturalmente le sorti ed entrò indirettamente nella 
letteratura; ma più frequente in quella che chiamerei 
di costumi: nella satira, nella storia aneddotica, in certe 
immagini retoriche, ecc. Le notizie più ampie e più si- 
cure intorno alle varie specie di giuoco, noi le ricaviamo 
ancora da Marziale; oltre all ' arpaslo, di cui già ab- 


— 27 - 


biarao parlato, tre ne troviamo menzionate negli epi- 
grammi di lui: la pila (1) paganica, la pila trigonali s 
e il follis. 

La trigonale — per cominciare da essa — si chia- 
mava anche semplicemente trigone , dal greco trigóne o 
trigóno , perchè i giocatori, disposti in triangolo si get- 
tavano e rigettavano a vicenda la palla; ma se nel get- 
tarla è probabile che usassero la destra, è certo che 
nel rimandarla usavano la sola sinistra. 

Nel lemma, in cui definisce il trigone , Marziale mette 
in rilievo questa particolarità: 

Si me mobili bus nosti expulsare sinistris 
Suoi tua. Tu nescis? Rustice, reilde pilam (2). 

E la ripete in altri epigrammi. L’importuno Menogene, 
che insiste a seccarti a forza di gentilezze per l'arsi 
invitare a cena, 

Captabit dexlra laevaque trigonem, 
linputet acceptas ut tibisaepe pilas, 

vale a dire, ricevendo la palla rolla destra , commetterà 
un fallo che sarà contato a te come punto di vantaggio (3). 
E all’amico Paulo che lo difende ripetendo che non è 
lui l’autor degli epigrammi, tra gli altri auguri che gli fa, 
inette pur quello che la sua sinistra sia lodata pii'i di 
quella di Polibo, famoso giocator di trigone (4). 


(1) Son curiosi due epigrammi che il Du Change riporta nel 
suo Glossario sotto pila : 

Est pila pes pontis, pila ludus, pila taberna; 

Pila terit pultes, sed pila geruntur in liostes: 
e 

Ludum laudo pilae, plus laudo pocula pilae. 

( niossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, auctore 
Carolo Dufresne domino Du Chance, Venetiis, Sebastianus 
Coleti, MDCCXXXIX, tom. V, col. 452). 

(2) Marziale, XIV, 46. Altre edizioni (come p. e. Pomba, 
Torino, 1833) hanno nobilibus. 

(3) Marziale XII, 82, vv. 4-5. 

(4) Id. VII, 72, vv. 9-11. 


— 28 - 


E conferma l’uso della sinistra in questo giuoco e ne 
rimane a sua volta spiegato, l’aneddoto narrato da Ma- 
crob io. Avendo Cesare guadagnato a Cecilio cinquanta 
talenti, datine cento ai compagni: Vi pure, domandò, che 
io abbia giocato con una mano so/a? (1). 

Ma il medesimo epigramma (2) di Marziale è ancora 
importante per altre preziose informazioni: 

Sic palmam tibi de trigone nudo 
Unctae det favor arbiter coronae 
Nec laudet Polybi magis sinistras, ecc. (2). 

Nudo trigone, dice il poeta, perché nudi vi si solevano 
esercitare; nudi infatti si vedono i giocatori di esso nella 
moneta di M. Aurelio Antonino riportata da Mercuriale (3); 
anzi non solo al trigone, ma anche ad altri giuochi di 
palla giocavano nudi. Cosi infatti sono i giocatori di 
folte nella medaglia di Gordiano JII presso lo stesso 
Mercuriale (4); e Trimalcione (5), quel bel tipo che fa tutto 
alla rovescia, giuoca vestito nelle terme, probabilmente 
alla paganica, come vedremo (6). Per evitare poi i ma- 


fi) Poleno, Utriusque thesauri antii/uitatum romanarum 
grecarumgue nova supplemento congesta . Venetiis MDCCXXVI1, 
col. HI eoi. .'106' oppure : Fioritegli magni seti l’olganthea Jloribus 
novissimi^ sparsa. LLb. XXI11 Joseph: Laugii. Lugduni, Ravand, 
MDCXLVIII, sotto Ludus\ apoftegmata, col. 1621 ; o direttamente: 
Mackoiiio Saturnalium. Lib. Il, 6, 6. 

(2) VII, 72, vv. 9-11. 

(3) Loc. cit. coll. 551-552. 

(4) Coll. 547-548. 

(5) E. Petrosi: Arbitri, Salgricon, Lendini MDCCVII, p. 28. 

(6) Del resto non solo per giocare alla palla, ma per lare 
altri esercizi ginnastici si solevano gli antichi denudare. Dionigi 
d'Àlicarnasso (Antiquitates Romanae, VII) ci informa che primo 
a spogliarsi tutto fu Neante Spartano. Anche Tucidide (Istorie, I) 
dice che furono primi gli Spartani; anzi presso di loro si eser- 
citarono nude anche le donne (Properzio III, 12.*). 11 qual costume 
approvano Platone (Della Repubblica, V) e Plutarco (Licurgo, 
XIV), come quello che conferisce ai buoni costumi e dà alle donne 
una vereconda scioltezza e un’ingenua fiducia in se stesse. 


— 29 — 


i 


Ianni, che, accaldandosi nel giuoco, potevan loro venire 
da quell’abbigliamento un po’ leggero, giocavano nel 
tepidario: e appunto per questo e non perchè si riscal- 
dassero i giocatori o la palla o la mano come altri vor- 
rebbe spiegare, Marziale chiama altrove tepido il tri- 
gone (1). Anzi per maggior precauzione si ungevano di 
grasso olio: ed era anche comminata una multa a chi, 
untosi, non giocava. Lo si ricava da una lettera di un 
tal Diogene all’amico Sofolide. Il quale Diogene, essendo 
venuto a Mileto, entrò nel Ginnasio, e, visto nell’atrio 
un tale che giocava male alla palla, s’accostò al custode 
della palestra e gli domandò che multa era costituita 
contro colui che, unto, non giocava. Ed essendogli stato 
risposto: un obolo, egli mostrando l’amico : Quel gio- 
rnee, disse, non sentendosi minacciato da nessuna 
multa . svogliatamente giocando, ti froda (2). Quest’ul- 
tima notizia mi è parsa non inutile almeno per lo studio 
dei costumi antichi: le altre e del giocar nel tepidario 
e dell’ungersi prima dell’esercizio, le avrei benissimo 
omesse perchè notissime, se non mi servissero a dimo- 
strare come Marziale, con la scelta sempre felice del- 
l'epiteto, sa rilevare e definire le qualità intrinseche e 
sostanziali di ciò che descrive e illuminarci con una 
sola parola intorno a un intero sistema o usanza. 

# 

* * 

Il folle era una palla fatta di cuoio e piena d’aria, 
come dice il suo stesso nome, che in latino, chi non lo 
sapesse, significava originariamente sacco di cuoio, donde 
i sensi derivati di mantice e palla gonfiata. Dal verso 
di Marziale: 

Plumea seu laxi partiris pondera follis (3), 


(1) IV, v. 5 — XII, 83, v. 3. 

(2) Ledere di Diogene, XXXV, .4 Sofolide, nel volume Epi- 
stolografi greci, edito da Rodolfo IIf.rsgiier. Parigi, Didot, 1873. 

(3) IV, 19 v. 1. 


— 30 — 


alcuni ne vorrebbero dedurre che il folle poteva anche 
esser riempito di piume. Ma bene osserva Mercuriale 
che plutnea qui va inteso in senso figurato per leggera; 
si noti infatti che il poeta, non senza intenzione, riferisce 
plumea a pondera e non a folli s. 

Dall’atteggiamento dei giocatori nella moneta di Gor- 
diano III (1) appare che essi dovevano per lo più colpire 
il folle — più grosso della loro testa — con l’avambraccio, 
che si vede quasi tutto difeso da cinghie: ma può darsi 
che lo colpissero anche col pugno e colla testa, come 
in certi giuochi ancora oggidì si vede fare. Non era 
dunque un giuoco nè faticoso nò difficile e vi giocava 
l'età più mite: i fanciulli e i vecchi; onde a ragione 
Marziale nel lemma che gli si riferisce: 

Ite procul, iuvenes: mitis mihi convenit aetas, 

Folle decet pueros ludere, folle senes('2). 

Che poi il giuoco si facesse in luogo appositamente 
ricoperto di polvere, affinchè questi giocatori, poco saldi 
in gambe, cadendo non si facessero male, come arzi- 
gogola Mercuriale, non mi arrischio d’ ammettere (3). 
Evidentemente egli tolse l'idea della polvere cosparsa sul 
suolo per attutire il colpo della caduta, rial de polvere (4), 
donde l’importuno Menogene, che già conosciamo, rac- 
coglie e riporta il folle , che, sgonfiatosi ( laooum ), è ca- 
duto prima d’arrivare alla mèta. Ma qui il de polvere 
va inteso semplicemente nel senso di dal suolo e il con- 
cetto di polvere messo lì da Marziale non serve ad altro, 
a mio giudizio, che a dar maggior risalto alla servilità 
svenevole di Menogene. La conclusione, a cui si spinge 
Mercuriale, mi par che non abbia fondamento. 

Vi era ancora un’altra palla di cuoio che si gonfiava 
d’aria: ma era assai più piccola del folle e si chiamava 


(1) Mercuriale, Ioc. cit. 

(2) XIV, 47. 

(3) Mercuriale, loc. cit., lib. II, cap. V., col 548, A e 547, I?. 

(4) XII, 82 v. 5. 


— 31 — 


follicolo cioè piccolo folle. Ma Antillo presso Oribasio, 
nominando tra le altre la palla vuota (sphaira kéne), che 
chiama anche follicolo, la dice nè facile nè adatta e da 
omettersi (1). Il che combinerebbe con quanto ci dice Sve- 
tonio (2), il quale, parlando di Augusto, narra che dopo 
le guerre civili passò dalle esercitazioni militari con le 

armi e il cavallo ad pilara follimlumque : e infine 

tralasciò anche questi passatempi, per solo passeggiare 
e andare in lettiga. Io credo si possa stabilire che tra la 
palla gonfiata nella moneta di Gordiano III — palla che 
per la sua grossezza non poteva comportare se non un 
giuoco che si facesse da vicino — e il follicolo vi fossero 
tante dimensioni intermedie di palle, e che a mano a 
mano che la dimensione diminuiva, cresceva la distanza 
tra i giocatori e quindi la difficoltà del giuoco, sicché 
le partite col follicolo erano tra le più faticose e dif- 
ficili e richiedevano maggior forza e destrezza. Però 
come vi si giocasse non si sa. Mercuriale (3) crede di 
poter ricavare da Plauto che il follicolo si colpiva col 
pugno e Panvinio (4) aggiunge che per questo la mano 
veniva munita di cinghie. 

Il passo di Plauto, cui accenna Mercuriale è questo: 

« Il servo Trachalione minaccia il lenone Lambraee che 
si vuol ricondurre le suo ancelle: 


Traciiauo: Agedum ergo, tange utramvis digitulo minumo 

Lambrax : Quid si attigero? ^ 

Extemplo, hercle, ego te follem 

m „ . [pugillatorium. 

Traciialio : Faciam (5). 


(1) Oriuasio, loc. cit. cap. XXXII, col. 299: «Pila inanis, 
cui edam folliculo nomea cut , aeque exercet ac motoria, in qua 
curritur; nei/ue lanieri faci hs negue apta atrjue omittenda». 

(2) Svetonio, Vita d’ Augusto, cap. 83. 

(3) Loc. cit., lib. II, cap. V, col. 540, E. 

(4) De ludis Circensibua in Graevius, Thesaurus aniiquita- 
tum romanarum IX, col. 335, nota 3, a. 

(5) Plautus, Itudens, act. Ili, scen. IV, vv. 624-626. 


— 32 — 


La comica ed energica espressione te faciam fol- 
mel pugillatorium non lascia dubbio che non si tratti 
di un folle che si colpiva coi pugni, nudi o difesi da 
cinghie non importa. Errò dunque Oribasio il quale, tra- 
ducendo Antillo, chiama folle pugillatorio quel corico 
che consisteva nell'attaccarc al soffitto un grosso pallone 
e nel farlo ondulare con forza, cercando poi di fermarlo 
con il torso, senza toccarlo con le mani. Il quale eser- 
cizio, come si vede, non ha nulla a che fare con il fol- 
licolo, il quale, di tutti i giuochi antichi, è quello che 
sembra avere con il nostro pallone col bracciale la mag- 
gior rassomiglianza (1). 

Finalmente l’ultima specie di palla in uso presso i 
Latini era la pila paga)) ira, cosi detta perchè si giocava 
nei pagi (villaggi) dalla gente del contado; più tardi 
penetrò in città, ma fu sempre il gioco preferito dal 
popolo. Marziale ce ne fa una descrizione abbastanza 
particolareggiata : 

llaec quae ilitticili turget paganica piuma, 

Folle minus lava et minus arcta pila (2). 

Era dunque fatta di cuoio ma, a differenza del folle 
e del follicolo , infarcita di piume: del folle però era 
meno grossa e più dura; più grossa invece e meno dura 
del trigone, poiché in quest’epigramma per pila si deve 
intendere trigone. Ce lo spiega lo stesso Marziale: 

Non pila, non follis, non te paganica thermis 
l’raeparat, aut nudi stipitis ictus liebes; 

Vara nec in lento ceromate brachia tendis, 

Non harpasta vagus pulverulenta rapis... (3). 

Sono qui annoverate quelle quattro specie di palla 
delle quali Marziale ci dà in quattro epigrammi delle 


(1) Il Panvinio (loc. cit ) sembra essere della stessa opinione, 
quando aggiunge come da noi col bracciale. 

(2) Marziale, XIV, 45. 

(3) Marziale, VII, 32, vv. 7-10. 




— 33 — 

vere e proprie definizioni (1); ma tre sono indicate con 
il loro nome proprio: follia, paganica, harpasta; solo 
il trigone è designato col termine generale di pila. 
Dunque pila vale in questo e nell’epigramma sovracitato 
trigone; ed è presumibile che questa stessa forma di 
giuoco indichi, per lo più, presso tutti gli scrittori latini. 

E però da notare che si trovano non di rado in latino 
con i verbi di giocare taluni avverbi, che qualche trat- 
tatista vorrebbe intendere come designazioni dell'una o 
dell’altra forma ili giuoco: occorre invece subito avvertire 
che non solo non si hanno elementi per stabilire con 
certezza che quelle determinazioni avverbiali esprimes- 
sero maniere particolari di giocare, ma che anzi tutto dà 
a credere che piuttosto indicassero atti o momenti spe- 
ciali di tutte o di alcune forme di giuoco. Cito i tre passi 
di scrittori, donde i trattatisti han tolto le tre determina- 
zioni in questione. Leggesi in Varrone presso Nonio (2): 
Yidebis ante lanienas pueros pila expuhim liniere; e 
in Novio presso il medesimo (3): In molis ludunt rap/im 
pila; e in Plauto, là dove il parassita Cureulione, ritor- 
nando frettoloso dalla Caria, per farsi far largo per la 
via, comicamente apostrofa gli astanti: 

Date viam, noti ntiiue ignoti, dum ego hic otlicium ineum 
i’acio : fugite omnes, abite et de via secedite: 

Tum isti Graeci palliati 

Tum isti, qui ludunt datatilo servi scurrarum in via, 

Et datores et lactores, omnes subdam sub solum! 

Proinde se domi contineant, vitent infortunium (4). 

Da questi luoghi non si ha nessuna indicazione per 
dare ai tre vocaboli uno speciale significato: solo la loro 
etimologia e le cognizioni che abbiamo intorno ai giuochi 


(1) Sono gli epigrammi 45, 46, 47 e 48 del libro XIV. 

(2) Varrò apud Noniu.m II, 28. 

(8) Novius apud Nonium II, 213. 

(4) Pi. auto, Ci ir cui io, act. Il, scen. 1(1, vv. 286-296. 


— 34 — 


con la palla presso i Romani, ci possono in qualche modo 
guidare alla loro interpretazione. Colla loro guida dunque 
possiamo forse spingerci a congetturare che con da- 
ta tim ludere si indicasse l’atto dell’ inviar la palla al- 
l’avversario colpendola, e datar si chiamasse chi così la 
mandava: con ex pulsi in furiere ( 1) si designasse l’atto 
del rimandarla ribattendola, e factor fosse chi così la 
ricacciava: onde factiones si vennero a chiamare le parti 
avversarie (2); con raptim ludere, finalmente, si signifi- 
casse quel lottare accanito intorno alla palla per impos- 
sessarsene. Volendo quindi riferire i tre termini cosi 
intesi alle specie di giuoco che abbiamo nominate, sa- 
rebbe da attribuire il raptim ludere all 'arpasto; il da 
tati m e V expulsim più particolarmente al follicolo e 
alla paga) dea (3). 

Ciò ammesso, non mi pare esatto affermare, come 
fa Ausonio Popma, che qui dalaliui (ludebant) pili crepi 


(1) A <|uesta versione s’accosta il Panvinio (loc. cit., col. 335 
0 s egg.) traducendo exptdsfm con di rimando. Meno bene il Tuu- 
kigio che illustrando l’epigrufe d’ l'rsus Totjatus (Graevius XII, 
col. 396 e seggd spiega expulsim quando la palla x' aspettava dal 
tetto. 

(2) Factiones, vocabolo innocente dunque, e nato da padre 
piacente; corrottosi però inseguito e piegatosi a esprimere uno 
dei mali peggiori dell’umanità. 

(3) .Mi sono indotto a cosi interpretare il datatim, l'expulsim 
e il raptim liniere, e a riferire questi termini a quelle forme di 
giuoco, considerando anche le maniere moderne di giocare con 
la palla. Perché, sian sopravissuti ai secoli per non interrotta 
tradizione o siansi riprodotti per tarda imitazione o comunque 
siansi rinnovellati, è certo che Varpaxto è il giuoco del calcio, 
dove avviene, per rapir la palla, quella lotta a cui s’attaglia il 
raptim ludere; e che il follicolo assai s'assomiglia al giuoco col 
hracciale e la pat/anica alla piccola palla di cuoio, ancora in uso 
in qualche villaggio subalpino. Nei quali due ultimi giuochi v’è 
chi manda la palla e chi la ricaccia, cioè il dator e il factor, 
che rispettivamente datatim ed expulsim ludunt. Non è da tra- 
scurarsi però la spiegazione che il Quadrio dà delle tre frasi in 
questione. Secondo lui (op. cit., pag. 78 e segg.), raptim ludere 


vocantur a Latinis (1) per la ragione cbe, se stiamo al 
significato generale ed etimologico della parola pilicrepus 
significa un giocatore, che, a qualsiasi forma giocando, 
colpisca datatim o expulsim la palla, sicché il colpo ri- 
suoni secco e vibrato; ma se vogliamo interpretar quel 
vocabolo in senso antonomasiastico e considerarne i signi- 
ficali speciali nei vari passi latini in cui è a noi perve- 
nuto, lo dovremo riferire specialmente ai giocator di 
trigone. Due volte troviamo usato pilicrepus nella ci- 
tata inscrizione di Ursus Togatus 

ovantes convenite pilicrepi 
e sotto 

Ursumque canile voce concordi 

Senem Harem , Focosum , Pilicrepum,.SWm/n.s7 icum (2). 

Ricorre lo stesso vocabolo in un'inscrizione ripor- 
tata dal Dosino : iMicrepi fucile , li. e., qui pila, hic 
luditis, magno pilarurn strepita , plaudite (3). 


era mandar la palla e rimandarla quando già aveva toccato il 
suolo, cioè lasciandole fare il salto e Lucano (« Incerti auctoris 
ari Calpurnium Pisonem Poemation Lucano vulgo adscriptum, 
v. 174, Lipsiao, ex orticàia Datili Tauchnitii, 1834. — Ho corretto, 
come si può vedere, la citazione del Quadrio — ) avrebbe chiamato 
questa maniera Piloni cadentem renooare, oggidì giocare ai bal- 
betto. Datatim Indere (pag. 8(1) avveniva quando, fingendo di darla 
a uno, a un altro si dava, come da Knnio presso Isidoro (I, 25) 

guani in choro pila 
Ludens, datatila dot ne et communem facit, 

A tinnì tenet, ahi mutai, olii manun 
est occupata. 

Expulsim liniere era «piando, gittata la palla in alto, si sfor- 
zavano i giocatori, perchè altri non la buscasse, di tenerla con 
colpi in aria, replicandoli più che potevano (pag. 81), da che con 
simile forinola questa guisa di fare ulla palla espresse Lucano: 
Piloni geminare volanteni. ( Ad Pisonem, Poemation, v. 174). 

(1) Ausonii Po e. mai- Fkigii, De di (ferenti in rerborum a cura 
di T. Vai. lauri, Torino, Tipografia Salesiana, 1875, pag. 346. 

(2) Graevius, XII, col. 396 e segg. 

(3) Dinsertationen Isagogicae, pag. 66, A. 


— 36 - 


E finalmente Seneca, per dimostrare che il saggio, 
anche tra i rumori più assordanti, si sa concentrare 
e può quindi meditare e studiare, reca l’esempio di sè 
che, abitando a Baia sopra il bagno e pervenendogli 
d'ogni parte ogni sorta di fracassi, tuttavia non se ne 
sentiva disturbato. E tra i romori più insopportabili an- 
novera quello fatto dai pili crepi. Si vero pilicrepus su- 
pervenerit et numerare coeperit. pilas , actum est { 1). 

Ora, Ursus Togatus, il quale si vanta d’essere stato 
vitrea qui primus pila Lusit decente)' cani suis taso- 
ribus, cioò il primo, come vorrebbero i più, a usar nel 
giuoco la palla di vetro che, cadendo, si poteva rompere, 
in quale altro giuoco l'avrebb'egli introdotta, se non nel 
trigone, in cui l’abilità somma consisteva appunto nel non 
lasciar cader mai la palla? Egli giocava inoltre Thermis 
Traianis, Thermis Agrippae et Ti/i Multum et Nero- 
ri is precisamente come il pilicrepus di Seneca nei bagni 
di Baia; e l’iscrizione del Rosine, in cui pilicrepi sono 
invitati ad applaudire magno strepita pilarurn, fu ritro- 
vata appunto nelle Terme di Pompeo: le quali circostanze 
concordano tutte perfettamente con i ragguagli che Mar- 
ziale ci dà del trigone, cioè con il trigone nudo (2) e 
e con Yunctae coronar e col consiglio di fuggir Mono- 
gene, giocator di trigone, in thermis et circa balnea (3). 
Di più nel trigone la palla dura e piccola ( minus arda 
pila cioè del trigone era la stessa paganica) (4), col- 


ti) Epistula LXVI, in principio. 

(2) VII, 72. 

(3) XII, 82. E poiché pila — trigone, si ricordi anche l’epi- 
gramma di Marziale (XIV, 163): 

« Redde pilam; sonat aes thermarum ludere pergis? 

Virgine vis sola Ictus abire domum ». 

E a chi volesse opporre che Menogene giuoca nelle terme 
anche al Colle, si potrebbe osservare che il folle, cosi grosso e 
gonfio, non poteva mai dare quel suono secco che il senso stesso 
di pilicrepus rivela. 

(4) XIV, 45. 


- 37 - 


pila, dava un suono secco, come di mani insieme battute, 
il quale suono giustifica 1'espressione dell’inscrizione 
plaudite magno strepitìi pilarum e risponde alla stessa 
ragione etimologica di pilicrepus. Mi par quindi logico 
conchiudere che pilicrepi fosser detti più specialmente 
i giocator di trilione; conclusione questa tanto più ragio- 
nevole, se si pensa che, per la vicinanza dei giocatori 
di triijone e per il loro numero che era di tre, i colpi 
dovevano essere molto rapidi e vibrati, e per conse- 
guenza le voci che li accompagnavano per enumerarli (1) 
forti e continue e dai colpi stessi quasi ritmicamente 
regolate; donde il frastuono che Seneca lamenta con 
l’espressivo auctum est. 

I colpi, così diligentemente contati per assegnare 
con equità la vittoria al vincitore, ci dimostrano che le 
pari ite con la palla non si facevano neppure allora 
pei solo scopo di esercitare le forze del corpo; ma esse 
erano, come ai tempi nostri, interessate con scommesse 
di danari, come già dicemmo a proposito di Cesare 
elio vinse a Cecilie cinquanta talenti; oppure, nei giuo- 
chi dei fanciulli specialmente, con ammende a cui il 
vinto si doveva sottoporre, come già vedemmo avvenire 
tra i Greci. Una strana penitenza in uso presso la gio- 
ventù romana, ce 1 apprende Plutarco (2), per spiegar 
l’origine del cognome Stira, frequente nella famiglia dei 
Lentuli, come afferma anche Plinio (3). Cornelio Lentulo, 
che lu poi fautore di Caldina e capo dei congiurati ri- 
masti in città, era stato questore sotto Siila e aveva com- 
messe ogni sorta di estorsioni. Richiesto di dar conto in 
Senato della sua amministrazione, si rifiutò sdegnato e 


(1) Seneca (loc. cit. ) : « et pila s numerare coeperit ». E si ri- 
cordi anche che Menogene riceverà il trigone colla destra, 

Imputet acceptas ut tibi saepe pilas. 

(2) Plutarco, Cicerone, XVII. 

(3) Plinio, Xat. Itisi., VII, 10, 5. 


— 38 - 

indifferente: anzi quasi per dileggio aggiunse che era 
pronto a porgere il polpaccio come solevano t ragazzi, 
quando nel giuoco della palla sbagliavano. Sul polpaccio 
infatti il vinto era colpito dal vincitore, come attesta il 
grammatico citato dal Panvinio (1). Il qual Panv.mo pure 
afferma che questa pena era d'uso in quel giuoco che .1 
Quadrio, come dicemmo, chiama expulsim ha ne, < 
sistente nel colpir la palla replicatamene senza lasciarla 
cadere. Ma nulla di certo si può sapere in proposito. 


(1) Panvinio, loc. cit., col. 335 e segg. 


CAPITOLO IH. 

1 uoahi dove fi'i antichi giocavano alla palla e personaggi storici 
Sentori di palla. -Il giuoco nella letteratura: le immagini 

Seneca. Plutarco, Clemente Alebsandwno) . letteratura 
di costumi (Petronio Arbitro, Plinio, Orazio, Ovidio), 
il poemetto Ciri s attribuito a Virgilio. 

L’essersi il giuoco della palla diviso e suddiviso in 
tante varietà per adattarsi a ogni specie di persone, è 
.ria un fatto che dimostra per se stesso la sua grande 
frequenza presso i popoli classici. Ma prove concrete e 
storiche della sua grande diffusione sono ancora g i 
odifizi costruiti appositamente per esso e le notizie non 
rare che gli scrittori antichi ci hanno lasciato dt quelli 
che se ne dilettavano. 

Nausicaa, come vedemmo, giuoca in sulle rive de 
mare in una lizza improvvisata ; e cosi si faceva ai suoi 
tempi e cosi si fece per molti anni ancora e cosi con- 
tinuarono a fare quanti, non potendo accedere ai pubblici 
ninnasi, si cercavano il loro sito nelle vie, nelle piazze, 
noi campi, un po’ dappertutto, come appunto avveniva 
in Roma, secondo che c’informano i citati Plauto, Varrone 

e Novio. 

Ma, riconosciuto il giuoco come uno degli esercizi 
più utili alla educazione fìsica della gioventù e divenuto, 
per conseguenza, caro a le classi più elevate, comm- 


— 40 — 




ciarono i Greci a costruire nei loro ginnasi gli sferisteri. 
Nei quali, per vero dire, si facevano anche altri esercizi; 
ma il giuoco della palla era il più frequente: v’erano 
quindi più assidui i giocatori di palla, i giovani cioè e 
i fanciulli, sebbene gli uomini maturi e i vecchi non 
Sdegnassero di entrare spesso nei crocchi della gio- 
ventù, sia per esercitarsi sia per conversare con essa (1). 

E come in Grecia, cosi in Roma i nobili e i ricchi 
solevano giocare al campo Marzio o più spesso nelle 
pubbliche terme, poiché dopo il giuoco prendevano quoti- 
dianamente il bagno, almeno dopo l’età di Pompeo (2). 
Anzi i più ricchi si facevano costruire sferisteri privati 
nei loro palazzi di città e nelle loro ville di campagna; 
Plinio, infatti, nelle bellissime descrizioni delle sue ville 
di Laurento (3) e di Tusco (4), tra le tante altre comodità 
che enumera, sempre ricorda lo sferisterio. 

A provare inoltre l’immensa diffusione del giuoco nei 
tempi antichi stanno i numerosi cenni, che ci son per- 
coliti, di persone che si dilettavano di questo ameno 
e utile esercizio e gli aneddoti piacevoli e curiosi intorno 
a giocatori per altre ragioni famosi. 

Ateneo ricorda come appassionati di esso Demotele, 
fratello del sofista Teognide di Chio, un tal Cherefane, 
e piu famoso di questi Aristonico Caristio, cortigiano 
di Alessandro Magno, il cui ufficio era di giocare alla 
Palla dinanzi al re. Venuto costui in Atene, destò tanto 
entusiasmo per la sua valentia, che gli fu donata la 


(1) Platone, Eutidemo, II, in principio. - Senofonte, Me- 
morabili, I, I, 10. 

(2) Mercuriale, loc. cit., lib. I. cap. X, col. 489, A. 

(3) Punii Secundi, Epistularum, II, 17", 1 2 : « Nee procul spac- 
ci steri um quod candissimo soli, inclinato iam die, occurril ». 

(4) Idem, V, 6 a , 27 : « Apodyterio superpositum est sphaeri- 
slerium, quod plora 1 /enera esercitationis plureresque circu/os 
capii ». 


— 41 - 


cittadinanza e perdi più eretta una statua (1). Alessandro 
stesso poi si dilettava a giocar cou Aristonico (2) e non 
con esso solo. Narra infatti Plutarco che una volta, avendo 
Alessandro largamente donato alcuni suoi cortigiani, a 
Serapione che si lamentava di nulla avere avuto, rispose 
ch'egli nulla aveva dato perchè di nulla era stato richiesto. 
Tacque Serapione per quel giorno; ma ritrovatosi un 
altro giorno con Alessandro a una partita di palla, ad 
altri questa getto, omettendo il re. E poiché questi, 
meravigliato, gli domandò perchè a lui non l’avesse 
gettata: Perché noti l’hai chiesta, rispose. Rise Ales- 
sandro e di molt’oro l’ebbe donato (3). 

Dionigi, tiranno di Siracusa, amava questo diverti- 
mento e assiduamente vi si esercitava per riacquistar 
le forze perdute (4). Ma in verità era assai pericoloso 
giocar con lui. Poiché, giocando egli alla palla (studiose 
enirn id factitabat ) diede tunica (5) e spada a custodire 
a un giovanetto a lui carissimo. Ma avendogli un fa- 
miliare detto: 0 Dionigi, tu a //idi a lui, la tua vita e 
avendo il ragazzo sorriso, entrambi il tiranno mandò a 
morte: l’uno per aver mostrato il modo di ucciderlo, l’altro 
per aver, sorridendo, approvato (0). 


(1) Ateneo, lib. I, cap. XIV, pag. 19. Ma già erano comin- 
ciati quei tempi nei quali gli Ateniesi si mostrarono cosi prodighi 
di statue. (Clr. Cornelio, Milziade VI, in fondo). Del resto, forse 
la statua a Caristio era una nuova forma di adulazione ad Ales- 
sandro, padrone ormai della Grecia. 

(2) Suida, loc. cit., v. Ili, pag. 415. 

(3) Plutarco, Vita d' Alessandro, XXXIX, 3. 

(4) Alexander ah Alessandro, lib. 03, cap. VI, in Magnimi 
Theatrum citae humanae di L. Beyerling, Lione, 1678. Tonio IV, 
pag. 1074, A. 

(o) ( he losser soliti gli antichi a depor la tunica per giocare, 
come noi ora la giubba, ce lo attesta anche Ateneo, dove dice 
che molti familiari di Antigono per giocar col filosofo Ctesibio si 
spogliavano della veste. (Ateneo, I, 12). 

(6) Cicerone, Discutane , 5, 81. A questo proposito scrive il 
De-Amicis (Gli Azzurri e i Dossi, Torino, Casanova 1897, pag. 42) : 


— 42 — 


Già accennammo che si dilettavano della palla Giulio 
Cesare (I), Ottaviano Augusto (2), Mecenate con i suoi 
compagni del viaggio di Brindisi descritto da Orazio: 
Eliodoro, Plozio e Vario, non («schisi lo stesso Orazio e 
Virgilio, i quali, se quella volta non giocarono e forse 
a quel tempo non giocavano più, tutto il contesto lascia 
credere che prima vi giocassero (3). Vespasiano usava 
spesso nello sferisterio, per conservarsi florida la salute (4); 
Alessandro Severo, dopo Io studio, dava opera ora alla 
palestra ora allo sferisterio (5); e Marco Antonino, l’im- 
peratoro buono, era al giuoco della palla valènte tra i 
primi, come ci attesta Capitolino (6). 

E come questi re e capitani si distraevano colla palla 
dalle cure dello Stato e della guerra, così con essa poeti, 


... « non tutti pini simpatici, perché, giù, un amatore del pallone 
non può arer l'animo fosco, la semplicità dei gusti è indisio 
d'animo buono, dimmi come ti diverti e ti dirò chi sei. (Nè ci 
si rinfacci Ferdinando IV di Napoli, malvagio, come narra il 
Colletta , anche co! bracciale alla mano : che fu un’ eccezione mo- 
struosa) ». E infatti, per quanto il I)e-Amicis voglia velare il suo 
concetto con alquanta linissima ironia, ha però ragione almeno 
in questo che il giuoco, datore di forza, è anche datore di bontà. 
Però cori quel tristo Borbone, che, visto tra il giuoco giovine 
macro e stentato, bianco il capo di polvere, con reste lucida 
e nera di abate, lo fa saltar sulla coperta sconciamente tra le 
risa di plcbaccia e di sé, tanto che al povero giovane si gran ver- 
gogna ne nasce che mtior dopo alcuni mesi di melanconia (Col- 
letta, Storia de! Regno di Napoli, Torino, Bomba, 1852, Tomo I, 
pag. 96), può far benissimo il paio codesto Dionigi, già cosi noto 
per altre sue virtù. 

(1) Rohjanthea citati, sotto Ludus, Apoftegmata, col. 1621. 

(2) Svetonio, Octavius, 83. 

(3) Orazio, Sat., 1, 5 n vv. 48-49. 

(4) Svetonio, Vespasiano, 20. 

(5) Lampridio, citato da Mercuriale, loc. cit., cap. Vili, 
pag. 480. 

(6) Iulii Capitolini, Vitae, Basileae in officina Froebeniana, 
MDXXXIII, pag. 189. 


43 — 


filosofi, oratori, giureconsulti si sollevavano dalle fatiche 
degli studi. 

Ateneo ricorda ancora come assidui alla palla Archita 
Tarentino, seguace di Pitagora e cittadino adivo e pratico 
della pubblica cosa (1), e il filosofo Ctesibio della Calcide, 
che usava giocare coi familiari del re Antigono (2); e 
un Glicone o bicone, filosofo della Troade, come appas- 
sionato degli esercizi della palestra e dello sferisterio (3) 
è ricordato da Diogeni» Laerzio. E come già abbiam 
detto di Ateneo, così anche Sidonio Apollinare ci lasciò 
scritto di sè d’essere assai amante della palla (4). Muzio 
Scevola, giureconsulto famoso, oratore lodato da Cice- 
rone (5) e uno degli interlocutori del dialogo De Oratore 
tra un’occupazione del foro e una disputa filosofica cui 
migliori uomini del tempo, si ricreava giocando (6); cosi 
pure Cecilio Epirota, il quale teneva aperta in Roma una 
scuola di Retorica e pel primo cominciò a legger pub- 
blicamente Virgilio e altri poeti nuovi, dopo le fatiche 
dello studio e dell’insegnamento, era solito giocare alla 
palla con l'Imperatore per sollevar lo spirito stanco. 

E se la storia registra i nomi di tanti personaggi 
famosi, i quali trovavano nel giuoco della palla un gra- 
devole passatempo, si ha maggior ragione di credere 
che molto più si dilettasse il popolo d'un esercizio, che 
non richiedeva nè grande apparato nè grandi spese, come 
osserva lo stesso Galeno (7) e che quindi era alla portata 
di tutti. 


(1) Ateneo, 1, 12. 

(2) Ateneo, 1, 12. 

(3) Diogene Laerzio, Delle vite , opinioni, sentenze elei filosofi 
celebri, libro X. Lipsia, Kraus 1859; lib. V, Vita di Licone o 
Glicone. 

(4) Apollinare, Epistola II. 

(5) De offlais, II, 43. - Ad Attico, XII, 4. - De Natura Deorum, 

III, 2. 

t6) Cicerone, De Oratore, I, 50. - Valerio Massimo, Vili, 8. 
(7) Galeni, Opera omnia, interprete Valerio Centannio 


— 44 — 


• • 


Eppure un giuoco così comune c popolare, non ebbe 
copiosa letteratura. Alle ragioni che di questa scarsezza 
abbiamo altrove addotte, si può aggiungere anche quella 
della grande quantità di opere greche che andarono per- 
dute. Ateneo riporta frammenti di ben 1200 opere che il 
tempo ci ha invidiato: e tra le* altre fa menzione d’una 
tragedia di Sofocle, che, mettendo in scena Nausicaa, 
trattava anche del giuoco della palla (1). Il medesimo 
riproduce pure un frammento del lirico Demosseno, il 
quale dimostra quanto conferisca quest’esercizio alla 
grazia, eleganza e agilità del portamento e dei movi- 
menti; e un altro del comico Antifane, che descrive una 
specie di giuoco, probabilmente l’arpasto. Ora, questi 
frammenti e il trattato dello Spartano Timocrate citati 
da Ateneo in quei brevissimi cenni che ci ha lasciato 
del giuoco della palla, lasciano supporre che questo 
abbia avuto una letteratura assai più varia e copiosa, 
e convalidano anche questa supposizione le non rare 
immagini che scrittori antichi, vuoi greci vuoi latini, 
attinsero da esso, come da fonte abbondante di non 
spregevoli elementi per l’arte loro. Ed è questa una novella 
P r ova della frequenza del giuoco presso i popoli classici. 
Le immagini infatti, onde colorisce e rinforza il suo stile, 
lo scrittore le deve prendere dal patrimonio delle idee 
comuni e presenti nella mente del suo popolo, affinchè 


t incentino. \ enetiis, apud V'. Valgrisium, 1562. Classis quarta, 
parte li, pag. 47 e segg. 

(1) Op. cit. pag. 16, lin. 19 e segg. E soggiunge che Sofocle, 
rappresentandosi il dramma di Nausicaa, csphairise egli stesso 
con grande agilità. La tragedia poi era intitolata Nausicaa è 
Pluntriai ; ma di essa non ci rimangono che pochi versi. Cl'r. 
Wklcker, Die grieehischen Tragòdien mit Rucksicht auC den 
epischen Cyklus, 1, Abt. Bonn., 1839, pag. 227. 


— 45 — 


il nesso logico tra il suo concetto soggettivo e quello 
universalmente noto, presentandosi pronto ed evidente 
al pensiero del lettore, renda il traslato vivo ed efficace. 
Ciò potemmo già vedere, p. e., nella similitudine che 
citammo dal Teeteto di Platone e nella metafora colla 
quale, come narra Plutarco, Lentulo Sura risponde al 
Senato. Platone, per darci l'idea d’un autorità assoluta 
in chi presiedesse e regolasse la discussione e d’un’ob- 
bedienza remissiva negli altri interlocutori, sia la prima, 
dice, come quella del re nel giuoco della palla e la 
seconda, come quella dell’ asino. Perchè dunque nella 
mente dei lettoli contemporanei si formasse subito il 
concetto dell’una e dell’altra, quale Platone voleva che 
avessero, conveniva che nel loro pensiero fosse ben viva 
e familiare la visione dell'autorità esigente e assoluta 
del re e quella dell'obbedienza pieghevole e passiva 
dell’asino nei giuochi dei fanciulli: e per averla, dovevan 
ben frequentemente avere osservato per le vie della città 
e nei ginnasi quell’usanza infantile. E quando Lentulo 
in Senato dà la sua petulante e sdegnosa risposta, ridu- 
cendo il suo pubblico delitto alle proporzioni d’un tra- 
stullo fanciullesco, noi ci possiamo figurare quale dolorosa 
impressione dovette far nell’animo dei senatori il vedere 
accoppiati in un’impertinente metafora i gravi affari della 
repubblica e un gesto volgare solito a vedersi per i trivi i 
nei giuochi scomposti della ragazzaglia. L’una e l’altra 
immagine avrebbe avuta poca efficacia se il giuoco, in 
quelle sue particolarità in cui s’era offerto a diventare im- 
magine, non fosse stato bene e universalmente conosciuto. 

Oltre la similitudine dell’asino e del re e la compa- 
razione della sua terra ideale con la palla a vari colori, 
Platone ha ancora nell Euh demo quest’altra similitudine: 
Appena aveva parlato Eutidemo che Dionisodoro pren- 
dendo la parola come si afferra la palla assaliva di 
nuovo il giovanetto (1); la quale, come accenna alla pron- 


ti) Platone, Eutidemo, VI, 288. 


— 46 — 


tòzza della risposta, fu tratta evidentemente da una forma 
di giuoco in cui rapida e pronta doveva essere la ri fiat- 
tuta e quindi probabilmente dall 'aporraxis. 

Aristotele nomina più volte la palla. Nel Retorico (1), 
asserisce che è sempre dilettevole il vincere; ma conviene 
che i giuochi siano essi giocondi, vale dire vi si lotti 
e si disputi la vittoria, come nel giuoco della galla e 
in altri. Nello stesso dialogo paragona alla palla Paria 
ripercossa che forma l’eco (2); e altrove osserva che 
la palla è un dono magnifico per un fanciullo, ma punto 
liberale (3). 

Negli scrittori latini le immagini del giuoco della 
palla sono abbastanza frequenti: e quasi direi che sono 
applicate a cose maggiori e più svolte e grandiose che 
non quelle greche; alcune poi sono bellissime, come 
vedremo. 

Ed eccone una di Cicerone riferita alla Repubblica;, 
in essa i tiranni che rapiscono tra loro lo stato, son 
paragonati ai giocatori che lottano intorno alla palla: 
dove l’allusione aWarpasto è troppo evidente (4). Altrove, 
per dimostrare che piace sempre imparare, afferma che 
coloro che sanno far bene una cosa, ne traggono diletto 
maggiore di quel che la natura di essa comporti, come 
Tizio dalla palla e Brulla dai dadi (5). Questo Tizio, 
che compare altre volte nei libri del grande oratore, 
ci fornisce occasione di parlare d’una specie di traslati 
che, più delle similitudini e delle metafore, richiedono 
che l’idea oggettiva sia assai familiare al pensiero dei 
lettori, perchè questi possano prontamente notare le 
somiglianze e le dissomiglianze tra essa e l’idea sog- 
gettiva dello scrittore e ne restino colpiti e dilettati. 


(1) Aristotele, Retorico, I, XI, 14 e 15. 

(2) De Anima, lib. II, Cap. Vili, n. -I. 

(3) Etica a Nicomaco , IV, II, 18 e 19. 

(4) Della Repubblica, I, 14. 

(5) Cicerone, Orator, III, 23. 


. 


— 47 — 

Sono questi i bisticci, le arguzie, le amfihologie, i motti 
di spirito, che non raramente s’incontrano negli scrittori 
latini. Cicerone nomina Tizio appunto a proposito di essi. 
I detti ambigui, scrive, sono sopratutto arguti; ma non 
spesso muovono gran riso e più si lodano. come graziosi 
ed eleganti, come quello contro Tizio. Il quale era un 
appassionato giocator di palla e aveva voce di rompere 
spesso di notte, per una certa sua superstiziosa credenza, 
le statue degli Dei. Ora non essendo un giorno venuto al 
campo di Marte e domandando i compagni perchè man- 
casse, lo scusò Vespa Terenzio dicendo eutn brachium 
Ordisse; dove appunto è arguta l’ambiguità, potendosi 
la frase interpretare perchè s’era volto un pr accio o 
perdi? arem rollo un braccio (1). 

E poiché siamo nei Tizii e nei motti, uno ne cita 

Quintiliano. I n certo Tizio Massimo domandò stoltamente 
a Carpazi©, mentre usciva dal teatro, se era stato attento. 
E lece Carpazio più stupido il dubbio rispondendo: Mai 
/liti, giocai alla palla nell’orchestrà (2). 

Do stesso ci avverte che talvolta all’amflbologia va 
unita la similitudine; come quando A. Oalba ad uno die 
domandava con svogliatezza la palla : Così la domandi, 
disse, come un candidato di Augusto. Dove, avverte 
Quintilliano, Io spirito sta, non nell'ambiguità del pe/is, 
ma nella somiglianza dell’indifferenza di quel giocatore 
con l’indifferenza del candidato sicuro della propria ele- 
zione, perchè raccomandato dal principe (3). 

Ma ritornando alle similitudini, una bella ne ha Seneca, 
la quale, per il modo ampio con cui è svolta, mi fece 


(1) Cicerone, De Oratore, 11 , (53. Questo Tizio era uomo 
acuto, ma cosi molle negli atti e nel portamento che da lui prese 
nome un genere molle di danza (Cic. Brutus, 62). Il medesimo 
lorse tu tribuno della plebe turbolento e gli si oppose Antonio 
(Cic. Or., Il, 11). 

(2) Quintiliano, Insti/. Orai., VI, 3, 71. 

(3) Quintiliano, Instit. Orni., VI, 3, 62. 


— 48 - 


piti sopra dire le immagini latine avere in sè qualcosa 
di quella grandiosità severa e maestosa cara allo spirito 
romano, come la grazia elegante e precisa era cara al 
greco. Scrive dunque Seneca: Volo Chrysippi nostri ufi 
similitudine depilae Insù: quam cadere non est dubium, 
ani mittentis ritio, aut accipientis. Tane cursum smini 
serrai, ahi inter manus utriusque, apte ab utroque et 
iactata et excepta rersafur: necesse est autem lusor 
bonus, aliter Ulani collusori long o ; aliter brevi mittat. 
Eadem benefica ratio est; itisi utrique persona e, dantis 
et accipientis, aptah.tr, nec ab hoc exibi/, nec ad illuni 
perveniet, ut débet. Si rum exercitato et dodo nego- 
tinnì est, audacius • pilam mittemus; uteumque enim 
renerit, manus illune expedi la et agilis re percalle! . Si 
clini tirone et indocto, non /ani rigide, nec tam excusse, 
sed tangiiidius, et in ipsam eius dirigentes manuni, 
remisse occurremus. Idem faciendum est in beneficiis. 
Quosdam doceamus, et satis iudiceniiis, si conantur, 
si audent, si rotimi. Facirnus autem plerumque ingra- 
tos, et ut sint, favemus ; tanquam ila demum magna 
sint beneficia nostra, si gratin illis referri non poluit: 
ut mutigli is lusoribus propositum est, collusorem tra- 
ducere, cuni damno scilicet ipsius lusus , qui non po- 
test, itisi consen tifar, extendi ( 1). 

Seneca dice d’aver presa questa similitudine a im- 
prestito da Crisippo, uno dei fondatori della scuola stoica, 
a cui apparteneva; ma è mirabile l’arte che egli spiega 
nell’intreeciare e connettere insieme i due termini di 
essa e nello scegliere il linguaggio a doppio senso con- 
veniente a entrambi. La similitudine è tratta dal tri- 
gone, che, a differenza degli altri giuochi i quali con- 
sentivano anche un avversario di minor forza senza che 
vi fosse bisogno d’interromperli, richiedeva, pei- poter 
essere continuato con una certa regolarità, che vi fosse 


(1) Seneca, de Benetìciis, li, 17, 3-5. 


— 49 — 


in chi batteva la palla e in chi la ribatteva un’abilità presso- 
ché uguale; donde scaturisce, già efficacemente espresso, 
il pensiero dolio scrittore: che occorre, perchè il beneficio 
sia cosa perfetta, che uno vi sia che voglia, sappia e 
possa farlo e un altro che egualmente voglia, sappia e 
possa renderlo ( tane f pila] cursum smini serra/, ubi in ter 
man us litri usque, apte ab atroque et iactata et e. r copta, 
rersatur){ 1). Ma poiché in questo passo il filosofo disserta 
solo dei doveri del benefattore e non ancora di quelli 
del beneficato, la conclusione è fatta da lui in questo 
senso: cioè che è necessario che un buon giocatore, 
battitore o ribattitore, assesti il colpo ben aggiustato, 
più forte por mandar la palla a un avversario pii'r lon- 
tano, più piano a un più vicino: il che vai quanto dire 
che conviene che il benefattore adatti, proporzioni il be- 
nefizio alle sue forze non meno che al carattere, alla 
condizione, ai mezzi di colui nel quale intende collocarlo; 
perchè del resto, quello non uscirà da lui e non perverrà 
all’altro in modo conveniente (e si noti Yexibit o il per- 
reniet che ben s’attagliano alla palla e al benefìzio) (1). 

K ritorna in campo un’altra volta il giuoco della, palla 
a dar maggior luce e svolgimento a questo concetto. Il 
giocatore esperto, se ha da fare con un novellino inabile, 
gli sta contro rimessamente e gli manda men serrata 
la palla e glie la dirige verso la sua stessa mano. Cosi 
il saggio benefattore, opera con arte discreta e prudente 
e incita il beneficato a dimostrarsi grato, e già è con- 
tento se lo tenta, se l’osa, se lo vuole (2). Chè altrimenti 
c’è pericolo di far degli ingrati e li fanno coloro che 
credono che grande sia il benefizio quando non può esser 
contraccambiato; comportandosi come i maligni gioca- 
tori, ai quali propositum est , eollusorem traducere , caia 
da amo se ilice/, ipsitis lusus, qui non potesl, nisi con- 
senti tur, extendi. Il qual punto mi par che sia stato 


(1) Ih. 17, 3. 

(2) Ib. 17, 4. 


frainteso e dal Ruhkoff(l) nel suo commento a Seneca 
e dal Porcellini (2) nel suo vocabolario, i quali interpre- 
tano, il collusòrein traducere per esporlo alle beffe altrui; 
e dal Varchi che traduce conte fanno i a incalorì ina- 
liditi per ingannare il compagno, con danno d'esso 
gioco, il quale non può durare, se l'uno e l'altro non 
s'accorda (3). 

lo credo invece che il traducere collusoretn significhi 
allontanare l’avversario oltre il limite della sua abilita. 
Poiché era il trigone un giuoco nel quale stava fissa 
sempre la disposizione dei giocatori in triangolo, ma la 
distanza di questi l'un dall’altro variava in ragione diretta 
della loro abilità; facendosi il giuoco più lungo e quindi 
più difficile dai più valenti e più vicino e facile dai meno. 
E eom’è quindi guastare il giuoco l’allontanare cosi 
l'avversario ch’ei non sappia più ribattere e dirigere 
la palla, rendendolo quindi ancor più inetto, cosi è 
falsare la natura stessa del benefizio, stimandolo solo 
quando è impossibile contraccambiarlo, creando per con- 
seguenza degli ingrati. Questa interpretazione mi pai- 
accettabile, oltrecchè per l’esatta corrispondenza dei due 
termini della similitudine, anche perchè s’accorda con il 

(1) Commento all’edizione l’omba, Torino 1828, pag. 851 : 
« Traducere, nem/te per ora hominum ijnodam modo tradncere, 
/i. e. superbientiurn ludibrio esponere, paradeigmatfoein ». 

(2) Sotto Traducere $ 6: « Tradueere collusoretn didlttr a 
Senec. 2, Pene!. IT a tned. malignus lusor, qui cimi fallii, et 
ludibrio exponit, ita mi Pendo piloni, ut non possi I reale excipere, 
et remitterc ». 

(3) L. Annuo Sknkca, Dei benefui, tradotto di lingua latina 
in volgar fiorentino da Benedetto Varchi, Brescia. Tipografia 
Foresti e Cristiani, MDCCCXXII, v. I, pag. 12S. 

L’interpretazione data dal Kuhkoks e dal Forcki.uni fu 
probabilmente suggerita dai versi d’Orazio, De arte Poetica, 
vv. 379-381 : 

l.udere qui nescit, campestribus abstinet armis, 
Indoctusque pilae (liscive trochive quiescit 
Xe spissae risum tollant impune coronae. 


giudizio che Seneca dà del giuoco qui non potest, nisi 
consentititi', extend i. 

In questo passo, come già ho accennato, Seneca ap- 
plica la similitudine solo ai doveri del benefettore; più 
sotto la riprende per applicarla a quello che ha ricevuto 
il benefizio. Qui accepit, inquit, beneficium, licei animo 
ben ign issimo accepei -il, non comuni mari t offici um suum ; 
resta/ enini pars reddendi; sicut in Insù est aliquid 
pilarn scile ac diligenler excipere, sed non dicitur bonus 
lusor, nisi qui apte et expedi te remisi f, quam exceperat. 
È dovere insomma del beneficato, non solo esser grato 
del benefizio, ma contraccambiarlo: come è del giocatore 
non solo ricevere la palla, ma ribatterla. A questo punto 
l’autore si propone un’obbiezione: La similitudine del 
beneficato col giocatore non calza a puntino: perché? 
Perché si dà lode al giocatore per atti materiali e 
visibili che si giudicano cogli occhi e ch’egli quindi ha 
tutto l’interesse di mettere in evidenza; nel beneficato 
si giudica l’animo, che non si rivela, se non nel rendere 
il benefizio. Tuttavia anche in questo caso c’è una so- 
miglianza tra giocatore e beneficato: come infatti quello 
va ancora giudicato valente, se. ricevuta come si con- 
viene la palla, ritarda a rimandarla per una ragione non 
dipendente dalla sua volontà (nec /amen ideo non bonum 
lnsoreni dicam, qui piloni, ut oportebat, excepit, si per 
ipsnm mora, quo niinus remitteret, non fui/), cosi pure 
non è da biasimare chi non per colpa sua non ha ancor 
restituito il benefizio. E all’obbiezione chi 1 , sebbene nulla 
manchi all’arte del giocatore, perchè una parte l’ha 
già egli compiuta e l’altra ancor la può compiere, tut- 
tavia il giuoco è imperfetto perchè finisce in due colpi 
soli (e s’intende naturalmente che imperfetto è il bene- 
fizi 0 si sospenda a metà, ritardando a restituirlo); 
risponde lo scrittore: existimemus ita esse: desi/ aliquid 
lusui, non t asari; sic et in ime de quo disputa mas, 
deest aliquid rei da/ae (cioè al contenuto del benefizio) 
cui pars attera débetur (il contraccambio), non animo 


qui animimi parem sibi nactus est : quantum in ilio 
est, quod voluit, e/fecit. Dove la similitudine con sot- 
tilissima variazione è trasportata tra il giuoco e il gio- 
catore da una parte e il contraccambio e il benefizio 
dall’altra, cioè il contraccambio mancato è il giuoco 
imperfetto c l’animo grato è il giocatore che falli non 
per colpa sua. Come si vede dunque dal giuoco della 
palla son qui tratte immagini a colorire le più ardue o 
astruse disquisizioni filosofiche. 

Cosi nobilitata e per l’altezza dei concetti e per la 
bellezza della forma la similitudine di Seneca ebbe una 
certa fortuna. La doveva conoscere Plutarco, quando 
una consimile ne mise in bocca al pitagoreo Teanore 
nel dialogo Del genio di Socrate : Poiché se è bello 
beneficar gli amici, non è vergognoso ricever benefici 
dagli amici: un favore infatti ha bisogno di chi lo fa 
non meno che di chi l'accetta; solo da entrambi esso è 
condotto a perfezione di bellezza; ma colui che non 
l’accetta, fa come chi sciupa una bella palla, lascian- 
dola cadere invano (1). 

E Clemente Alessandrino usa su per giù della stessa 
similitudine in un altro ordine d'idee, per indicare cioè 
la corrispondenza che v’è tra scienza e fede, una comple- 
tando l’altra. Come il giuoco della palla non solo dipen- 
de da colui che questa manda con arte, ma richiede un 
altroché la riceva secondo la regola, affinchè il giuoco 
proceda secondo le sue norme, così hi dottrina allora 
si giudica esser degna della fede, quando la fededi coloro 
che rodono conferisce all' apprendimento di quella (2). 

• 

« * 

La letteratura latina, essendoci pervenuta assai meno 
mutilata della greca, ci ha conservate, oltre a un numero 


(1) Plutarco, De Genio Socratia, XIII. 

(2) Clemente Alessandrino, Stromatum, lib. II nelle Opere 
stampate a Venezia da A. /atta, 1757, pag. 442. 


— 53 — 


maggiore di immagini ricavate dal giuoco della palla, 
anche descrizioni di abitudini e racconti di fatti della 
loi o \ ita stessa o di Quella dei loro personaggi, impor- 
tanti per la conoscenza dei costumi d’allora. E primo ci 
si presenta il vecchio Trimalcione, famoso per la sua 
famosissima cena. Lo troviamo appunto prima di Questa, 
e per prepararsi a essa, intento a giocare alla pila spar- 
si ra. Ma è pregio dell’opera riferire il passo intero: 

Sos (una comitiva di giovani scapestrati) interini ve- 
stiti errare coepimus, imo iocari tnitgis et circulis 
/ intentimi accedere, cimi subito videmus senem culmini, 
tunica vestitimi rassea, inter pueros capillalos (1) la- 
denteai pila, Nec timi pueri nos, quamquam era/ operile 
praetium, ad speetandum duxerant, quarti soleatus ille 
pater familiae, qui pila sparsiva exercebatur ; nec eani 
aniplius repetebat, quae terram conligerat, sed follem 
plenum habebal serous sufflciebatque ludentibus. Nota- 
> irnus etiam res novas, nam duo spadones in diversa 
piu le circuii stabant, quorum alter matellam tenebut 
argenteam, alter numerabat pilas: non quidem eas 
qiias inter rnanus ludo expellente vibrabant, sed eas 
quae in terram decidebant. Cimi has miraremur lauti- 
has, accurrit Menelaus, et: Hic, inquit, apud quern 
cab itimi ponetis; et quid ì iam principiarvi coenae vi- 
detis? Etiam mine loquebatur cimi Trimalchio, lautis- 
stmus homo, digitos concrepuil; ad quod signum ma- 
tellarn sparlo Indenti supposuit. Exonerata ille vescica, 
aquarn poposcit ad rnanus digit osque paulluluiu aspersos 
in capile pueri tersit (2). 

Questo passo di Petronio non solo è prezioso per le 
molte in forni azioni che ci dà, ma è anche curioso per 
il modo con cui ce le dà. 11 carattere strano e originale 


(1) Il vecchio vizioso ! « Nullus coniatus qui non idem cinae- 
dus», ammonisce S. Ambrogio. E Orazio: « leretis pueri longoni 
renitente comuni », Epodo XI, pag. 28. 

(2) Petronii Arbitri, Salyricon, Londini MDCCVII, p. 27 e seg. 


— 54 — 


del vecchio Trimalcione emerge dal contrasto della sua 
figura con quella degli altri presenti; e più dalle con- 
traddizioni di tutti i suoi atti con le usanze comunemente 
e universalmente praticate nelle terme. Anzitutto giunca 
egli, padre di famiglia vecchio e calvo, con fanciulli zazze- 
ruti; e anche se si pensa che eran rilassati quei severi 
costumi antichi i quali vietavano che i fanciulli si mesco- 
lassero con uomini adulti, ci colpisce tuttavia la strana 
o ridicola figura di questo vecchio saltellante e agitan- 
tesi tra fanciulli, messo così bene in luce dalla sapiente 
antitesi degli epiteti. Giuoca egli inoltre dopo il bagno, o 
almeno si comporta come se fosse dopo il bagno, mentre 
si soleva giocare prima di questo; è infatti vestito di 
una rossa veste, mentre si soleva giocar nudi, per esser 
pronti a tuffarsi al suono del campanello che annunziava 
l’ora del bagno (1); ed è solcai us mentre i sandali sol si 
calzavano, quando s’era presti a uscir dalle terme (2). 

È difficile stabilire a quale delle forme di giuoco men- 
zionate corrisponda la pila sparsiva (1); Mercuriale (1) 
opinava che sia la paganica, che si batteva e ribatteva 
da giocatori lontani; e mi pare che si possa esser non 
alieni dall’accettar l’opinione, autorevole sempre, di 
Mercuriale. Il battere e il ribattere la palla fa ricordare 
l'expulsim ludere di cui abbiamo discorso e più ce lo 


(1) Marziale, XIV, 163. In quest’epigramma, che già abbialo 
trascritto, la Form arjita virgo è contrapposta alle terme, perchè 
il bagno delle terme era caldo, la Fons ar/ua virgo era invece 
gelidissima, come da Marziale stesso VI, 42, 18 (cruda cirgine), 
XI, 47, 6 (gelida virgine), e da Ovidio, Ars Amatoria, III, v. 385 (ge- 
lidissima virgo). Però da questo passo di Ovidio, e da Tastino, III, 
12, v. 22, risulterebbe i giovani romani si solevano pure bagnare 
neU'acrjua vergine. Quindi l’antitesi nell’epigramma di Marziale 
non è assoluta, se non si vuol pensare a un infiacchimento di 
costumi. 

(2) L’importuno di Marziale, raccoglierà e riporterà il folle 
sgonfiato « etsi iam lotus, iam. soleatus crit » cioè già in procinto 
d’andarsene. 


la ricordare expellente ludo, che troviamo più sotto 
ripetuto. K la paganica era senza dubbio un giuoco 
difficile, fatto dalla gente lesta e robusta; e poiché in 
lui tutto è contraddizione, ecco giocarvi il vecchio inatto 
di Trimalcione. Le palle poi, che andavan per le terre, 
più non si raccoglievano e si sostituivano con altre che 
uno schiavo teneva in un sacco; ma par di leggere tra 
le righe che tutti gli altri solevano riprender la palla 
caduta per continuare il giuoco. Uno schiavo eunuco 
conta i punti; però non i colpi ben dati, ma quelli sba- 
gliali e noi impariamo dunque che usavano contare quelli 
non questi e che Labilità consisteva» appunto nel non 
lasciar cader la palla in terra (come, p. es., nel nostro 
giuoco del pallone toscano). Finalmente quel vecchio 
singolare domanda l’acqua e bagnatavi appena la punta 
delle dita, se le terge nei capelli d’un fanciullo,... allora 
appunto quando gli altri solevano correre a tuffarsi nel 
bagno e, dopo essersi bene lavati, asciugarsi nelle ampie 
lenzuola. 

Cosi si viene delineando, attraverso alle singolarità e 
alle contraddizioni, la figura del principale e più curioso 
personaggio di quel Satiricon, nel quale noi vediamo 
rappresentata la società dei tempi dell’Impero, corrotta, 
decrepita e avviata spensieratamente alla catastrofe ine- 
vitabile. Non mancano neppure in questo tempo spiriti 
grandi e severi, compresi dell’antica grandezza, dolenti 
della presente decadenza, i quali rinnovavano le virtù 
repubblicane, foggiandosi sugli esempi antichi una vita 
saggia e felice. Ma questi erano cittadini solitari e per- 
seguitati nell’universale corruttela ; la presenza dei quali 
spiega come accanto all’osceno Satiricon di Petronio 
potessero nascere le opere gravi di Seneca e Plinio e 
come, letterariamente parlando, la figura grottesca e li- 
cenziosa di Trimalcione sia potuta esser contemporanea 
a quella di Spurinna, quale ci appare severa e veneranda 
nella lettera di Plinio Cecilio il minore. Nescio an ullum 
iitcundius tempus exegerim guani quo nuper apiul 


- 56 - 


Spurinnam fui: (ideo quidem vi neminem... magisin 
senectute denudare velini ; nihi! est enim ilio ri/ a e 
genere distinctius. E la descrive. Tra le varie occupazioni, 
una più geniale dell’altra, alcune c’interessano assai da 
vicino: fin bora balnei nunciata est (est aulem hieme 
nona, destale octavaj in sole, si care/ vento, nudus am- 
bulai. Deinde mondar pila- vehementer et dia. Nani hoc 

quoque pugna I cani senectute Lotus deruba/ et pani- 

lisper cibar» differì... Apponi tur coena non mintts nitida 
quam frugi in argento puro et antiquo... (1). Ecco un 
quadro vivo e ammirando dei buoni costumi antichi. 
Che differenza da Trimalcione, che con tante stranezze si 
prepara alla sua cena, proverbiale per smoderatezza e 
sontuosa profusione ! 

L’esempio di Spurinna ci ricorda Orazio, il quale, 
contento di poco, scevro d’ogni ambizione, franco d’ogni 
velleità gentilizia, s'era saputo comporre una vita saggia, 
libera e lieta, divisa tra gli esercizi del corpo e gli 
studi della mente. Che importa a me d’esser nato di 
padre povero e plebeo? esclama. Non ho le noie dei 
ricchi, e di più son libero padrone di ino. Vado a pas- 
seggio dove voglio; mangio quando voglio; vo a dormire 
senza premura e al mattino me ne sto a letto fino alla 
quarta ora del giorno; dopo questo passeggio o leggo 
o scrivo qualche cosa; poi vado ad esercitarmi, poi... 
ubi me fessura so/ acrior ire lavatura Admonuit fugio 
carnpurn lusumque frigonem (2). Ma quest'ultimo verso 
non è da tutti letto a questo modo: molti vorrebbero 
al fugio carnpum lusumque trigone ni sostituire fugio 
rabiosi tempora signi. Anche omettendo le conclusioni 
della critica oraziana ormai favorevoli alla prima ver- 
sione (3) e giudicando solo dal lato dell'arte, non vi può 


(1) Punii Secundi, Ep., III. 1. 

(2) Orazio, Satire, I, (I, vv. 125-126. 

(3) Per una notizia sommaria, Cfr. i Prolegomeni che Luciano 


- 57 — 


esser dubbio intorno alla scelta: accettando il rabiosi 
tempora signi tutto il concetto viene a mancare di quella 
precisionedi contorni, di quella finitezza di tocchi, di quella 
stringatezza d’eloquio, che sono pregi cospicui della musa 
d'Orazio. A che scopo infatti il poeta s’unge d’olio? (1). 
Ed è stanco di che? (2) (onde la stiracchiatura fes- 
simi = spossato per il caldo di alcune traduzioni). E 
quando l’ora meridiana l’ammonisce di ire taratura, dove 
fugge rabiosi tempora sigili? Nel bagno, come inter- 
pretano i fautori di questa versione? Ah sì? passerà nel 
bagno tutte le ore della canicola? 

Invece, col campimi lusumque tvigonem, ogni cosa è 
a suo posto; s’unge d'olio il poeta per Fesercitazioni al 
campo di Marte; è stanco per averle latte; all’ora op- 
portuna va nel bagno, come tutti solevano; poi abbandona 
campo ed esercizi. 

Ma quest’abitudine d’Orazio di giocare così spesso 
al trigone parrebbe contraddetta da un’altra informazione 
che abbiamo d’un fatto della vita di lui. Tutti conoscono 
la deliziosa descrizione ch'egli fa del suo viaggio da 
Roma a Brindisi in compagnia di Mecenate, di Virgilio, 
di Eliodoro e d’altri amici (3). La comitiva si completa 
per viaggio. Partono da Roma Orazio ed Eliodoro, Rhe- 
tor Graecorum longe dortissìmus (4). A Terracina sono 
raggiunti da Mecenate e Cocceio, olissi magnis de re- 
bus uterque legati (5) e da Fonteio, ad ungiiem Faetus 
homo (fi). A Sinuessa s’incontrano con Virgilio, Plozio e 
Vario: anìrnae quales ncque candidiores Terra tuli/ 


Moller manda innanzi alla edizione Teubneriana di Orazio, 
(Lipsia 1889) pag. VI-IX e più specialmente LIV-LV. 

(1) Satira citata, v. 123. 

(2) Ib. v. 125. 

(3) Satirarum, I, 5. 

(4) Ib. vv. 2 e 3. 

(5) Ib. vv. 28 e 29. 

(6) Ib. vv. 32 e 33. 


— 58 - 


neqae queis me sii devinctior alter (ì). Così la brigata, 
al completo, arriva a Capua dove 

Lusuin it Maecenas, dormitimi ego Virgiliusque 
Xanque pila lippis inimicum et ludere crudis (2). 

Infatti, sebbene Orazio al tempo di questo viaggio 
avesse solo 28 anni, pure era afflitto da mal d’occhi; e 
più non ne guari, onde i maligni lo chiamavano per di- 
leggio poelam lippum. Per questa sua malattia, rinunzia 
egli dunque a giocare e se ne va con Virgilio a dormire. 
Ma le due satire (3), dove è raccontato il viaggio di 
Brindisi e dove si legge il lusumque trigonem, sono pre- 
cisamente dello stesso anno; 717 di Roma, 37 a. C. e 
28 d’età del poeta (4). Come dunque potè Orazio scri- 
vere, a così poca distanza di tempo, da una parte che 
era solito ogni giorno esercitarsi al trigone e dall’altra 
che era conveniente por la sua salute l’astenersene? 

Poiché chi volesse tentar di toglier la contraddizione 
asserendo che per la pila, dalla quale s’astiene il poeta, 
non si deve, contro quanto abbiatn detto più sopra del 
significato speciale di quel vocabolo, intendere la trigo- 
nale, ma bensì una forma di giuoco più difficile e non 
possibile in modo alcuno a un malato d’occhi, si potrebbe 
osservare che tutti i giuochi, e il trigone non meno, anzi 
forse più degli altri, richiedevano appunto quel che man- 
cava a Orazio, cioè una buona vista. 

Per uscir da queste strettoie si potrebbero fare due 
ipotesi non improbabili: che il mal d'occhi, il quale abi- 
tualmente concedeva al poeta di esercitarsi con la palla, 
o per i disagi del viaggio o per altra causa, si fosse 
in questa occasione aggravato; infatti il povero poeta 


(1) Ib. vv. 41 e 42. 

(2) Ib. vv. 48 e 49. 

(3) Satira I, V e I, VI. 

(4) Tabula Clironoloijica Horatiana (ex Caroli Frank» fa- 
stis Horatianis) nell’Edizione Teubneriana di Orazio a cura di 
Luciano Mììller, Lipsia, 1889, pag. 245. 


— 59 — 


già s’era dovuto lungo il viaggio medicare una volta, 
giunto appena a Terracina (1); oppure che egli abbia 
rinunziato per tener compagnia a Virgilio, il quale non 
poteva giocare per la malattia di stomaco che Io afflig- 
geva (2); anzi, per una delicatezza di sentimento facile 
a comprendersi, abbia, nella sua poesia accomunato la 
sua infermità con quella dell’amico, per attenuar questa, 
quasi su entrambe scherzando. E se queste conclusioni 
sembrassero troppo superficiali, altro mezzo non mi pai- 
che vi sia di risolvere la questione se non accettando 
la versione fngio ràbiosi tempora signi con tutte le sue 
imprecisioni e indeterminatezze. Ad ogni modo dal passo 
finora discusso risulta che Orazio soleva spesso eserci- 
tarsi al campo di Marte o nelle terme e anche consi- 
gliava altrui di stancarsi con esercizi faticosi per scacciar 
la svogliatezza e l’inappetenza e per apprender qnae 
virtus et quanta sii vivere parvo (3). E tra gli altri eser- 
cizi suggerisce appunto la pila relax : 

... Si Romana l'atigat 
Militia adsuetum graecari, seu pila velox 
Moli iter austerum studio fallente laborem 
Seu te discus agit, pete cedentem aera disco. 

E avverte ironicamente allora,. 

Cum labor extuderit fastidia, siccus, inanis 
Speme cibum vilem; nisi Himettia mella falerno 
Ne biberis diluta... (4). 


(1) I, V, v. SO, « Ilio oculis ego nigra rneis col/i/ria lippm 
Inlinere ». 

(2) Neppur Virgilio giuoca; egli era sempre stato di gracile 
costituzione: provava a digerire i|uella dilìicoltà che in latino è 
detta appunto eruditali. E Galeno (De Tuenda Valetudine, lib. Ili, 
12, F.xercendum non esse crudis) avverte: « Si qua cruditas 
suOest ommino exercitanduni non est. ». 

La malattia del povero grande poeta andò sempre più ag- 
gravandosi, finché lo trasse a morte, due o tre anni dopo questo 
viaggio. 

(3) Satirar., lib. II, 2, v. 1. 

(4) Satira cit., vv. 10-16. 


— 60 — 

Ma altro che vecchio falerno con miele dell’Imetto ! 

... Cui» sale panis 

Latrantem stomachimi bene leniet (1). 

La pila velox qui è senza dubbio l'arpasto : per per- 
suadersene, basta ricordare la definizione che di questo 
dà Marziale e quanto intorno a essa s’è detto, e pensare 
quanto opportunamente il poeta abbia qui consigliato 
il più faticoso tra i giuochi della palla. 

Ed ecco un poeta infelice: 

È tornatala primavera, già i fanciulli e le fanciulle 
lietamente cercati per le siepi le viole, rustici fiori che 
nessuno ha seminato; s’adornan i prati e cantan gli 
uccelli. In Roma cominceranno presto le feste e si se- 
guiranno in ordine congiunte. E l'infelice Ovidio, dal 
lontano luogo del suo esilio, vede cogli occhi del desi- 
derio i giuochi che vi si celebreranno: 

Otia nune istic, iunctisque ex ordine ludis 
Cedunt verbosi garrula bella fori; 

Usus equi nunc est : levis nunc luditur armis ; 

Nunc pila nunc celeri vertitur orbe trochus; 

Nunc, ubi perl'usa est oleo labente, iuventus 
Defessos artus Virgine tinguit aqua (2). 

E prega il misero poeta: 

Di facite ut Caesar non hic penetrale domumque 

Hospitium poenao sed velit esse meae (3). 

Ma invano supplica l’implacato principe; invano 
adopera ora gli accenti della più dolente tristezza, ora 
le lusinghe della più esperta adulazione, ora gli argo- 
menti delle più umili e futili scuse, come quando in 
una lunga elegia si sforza di dimostrare che egli scri- 
vendo il suo libro — poiché un libro, il De arte Amatoria 
era stato la causa della sua condanna all'esilio — non 
aveva fatto altro che imitare chi già aveva scritto trattati 


(1) lb., w. 17-18. 

(2) Ovmio, Tristium, III, 12. vv. 17-22. 

(3) Ovidio, ib., vv. 27-28 


— 61 — 


delle più umili arti, come quello p. e. del giuoco della 
palla : 

Ecce canit formas alius iactusque pilarum (1), 

egli non sarà più perdonato e morrà nella dolorosa terra 
d’esilio, lontano da tutte le cose più caramente dilette, 
ucciso più che dalla malattia, dal dolore ineffabile, la cui 
eco disperata ancor si sente non senza commozione nelle 
sue elegie tristi. 

• # 

# ♦ 

Un’altra menzione del giuoco della palla la troviamo 
in un poemetto intitolato Ciris e dedicato a M. Va- 
lerio Messala. E’ un episodio delle lunghe rivalità tra 
Creta e l'Attica. Minosse assediava Megera : era destino 
che la città non sarebbe caduta nelle mani dei nemici, 
neh è rimanesse sulla testa di Niso, re di Megera, un 
lungo capello purpureo. Ma la figlia di lui, Scilla, avendo 
rimirato dalle mura della città la bella o maschia figura 
di Minosse, se ne invaghì a tal segno che, tagliato al 
padre addormentato il capello fatale, lo consegnò al 
re nemico e con esso la città. 

Questo è l’argomento del poemetto che fu lunga- 
mente attribuito a Virgilio; ma esso ha tutta l’aria 
d una tarda amplificazione del racconto che del medesimo 
episodio fa Ovidio nelle Metamorfosi (2). Pur variando 
sensibilmente i particolari dell’azione, il fondo sostanziale 
della favola è identico nei due poeti; però entrano nella 
narrazione del Ciris alcuni nuovi elementi che in Ovidio 
non si leggono: l.° Scilla giuoca alla palla e, trasportata 
dall’ardor del giuoco, disturba il sagriflcio di Giunone. 
2." Giunone, adirata, se ne vendica spingendo la fanciulla 
all’amore e al delitto. 3.° Compare la nutrice fedele a 
soccorrere al disperato amore dell’alunna amata. 


(1) Tristium, II, Elegia unica, v. 485. 

(2) Lib. Vili, vv. 1-151. 


— 62 — 


Ora non ó difficile rintracciare l’origine di ciascuno 
di questi elementi. Scilla, giocando, ricorda Nausicaa; 
in entrambi gli episodi, il giuoco è la determinante dei fatti 
posteriori, che non si sarebbero potuti svolgere senza di 
esso: nell’uno, Ulisse non si sarebbe svegliato, nell’altro, 
non si sarebbe disturbato il sagrificio della Dea. Ma mentre 
nell ’ Odissea il giuoco è il mezzo materiale dell’azione e 
non influisce poi nè sul carattere nè sul valore etico di 
esso, in Ciris invece è di un’importanza capitale, come 
quello che riduce il delitto di Scilla nei limiti di un’impru- 
denza giovanile commessa nell’ardor del sollazzo. Eppure 
il giuoco di Nausicaa è parcamente, ma con chiarezza e 
compiutezza descritto, tanto che noi potemmo analizzarlo 
e colla scorta dei trattatisti antichi forse anche iden- 
tificarlo. Invece, per mancanza d’una vivida e netta 
visione del fantasma poetico e per deficienza d’arte nel 
rappresentarlo, con quanta nebulosità e incertezza è 
delineato e colorito in Ciris! 

... violaverat inscia sedem 
Dum sacris operala deae lascivit, et extra 
Procedit longe matrum comituinque catervam, 
Suspensam gaudens in corpore Iutiere vestem 
Et tumidos agitante sinus aquilone relaxans. 

Necdum edam castos agituverat ignis honores, 
Necdum solemni lympha periusa sacerdos 
Pallentis l'oliis caput exornarat olivae, 

Cum la|isa e manibus fugit pila cumque relapsa 
Procurrit virgo; quo utinam ne prodita ludo 
Aurea tam gracili solvisset corpora palla 
Omnia quae retinere gradimi cursumque morari 
Possenti o tecum vellem tua semper haberes 
Non unqunm violata manu sacrarla Divae : 

Turando infelix necquicquam jura piasses 
Et si quis nocuisse tibi penuria credat 
Caussa pia est ; timuit Irati te ostendere Iuno(l). 

Mentre si celebrava il sagrificio in onor di Giunone, 
Scilla dunque giocava: ed era appena quello incorni n- 


(1) Vv. 141-157. 


- 63 — 


ciato, quando la fanciulla battè la palla, poi corse per 
ribatterla, avanzandosi fino a disturbare la sacra fun- 
zione. Almeno, esclama il poeta, tradita dalla forza del 
giuoco, non ti fossi sciolta dalla tunica, la quale t'avesse 
trattenuta nella corsa ! 

Cbi non sente l’inopportunità di questo meschino par- 
ticolare, non certo atto a scusare l’imprudente fan- 
ciulla? Poiché essa non aveva giudizio nè sentimento 
di religione, dovevaie esser freno la gonna ! Poi si sog- 
giunse: timuii fratri te ostendere Inno! Ma dunque 
la perseguitò l’incollerita Dea perchè offesa o perchè 
gelosa? Ad ogni modo sappiamo che Scilla s’innamora 
per vendetta di Giunone. Ella dunque è più infelice che 
colpevole, e merita pietà e non condanna. Situazione 
tragica che manca nell’episodio d’Ovidio, ma che è fre- 
quente nella poesia greca, da cui il poeta l’ha eviden- 
temente derivata. Pero, sebbene di persone che con- 
traggono una stolta passiono per vendetta degli Dei ne 
sia piena la mitologia (1), la vendetta di Giunone contro 
Scilla fu forse suggerita all’autore del ('iris dal racconto 
che lo stesso Ovidio fa della vendetta di Venere contro 
Mirra, che la madre Ceucri aveva vantato più bella di 
Alili li ite. Infatti tutto 1 episodio della nutrice fu preso 
dalla triste storia di Ciniro, quale si legge nelle Meta- 
morfosi (2). A Mirra la nutrice del ('ìris fa subito un'im- 
prudente allusione: 

Ilei mihi, ne furor ille tuos invaserà artus, 

file, Ara Ime Myrrhae quondam, qui cepit ocellos (3), 

perchè, pare soggiungere, me non troveresti compia- 
cente come fu quell altra nutrice. Ma intanto entrambe 


(1) Bacco spinge Cianippe al più orribile incesto; Diana la 
concepire ad Alcinoe un amore disperato per Xanto; Venere 
inspira a basite la sua passione mostruosa e spinge ad amarsi 
tra loro i due fratelli Uibli e Cauno; e così altri. 

(2) Vv. 298-502. 

(3) Vv. 237-238. 


— 64 — 

le nutrici si comportano allo stesso modo : entrambe 
sorprendono le fanciulle vicine alle stanze del padre 
loro: inorridiscono dapprima e le dissuadono, poi s’ac- 
conciano a diventar complici del loro peccato. E altri 
raffronti più minuti sarebbero possibili, se non fossero 
superflui. Concludendo sarebbero quésti gli elementi 
constitutivi del poemetto: il fatto fondamentale tratto 
da Ovidio (1); il mezzo determinante tutta l’azione de- 
rivato dall 'Odissea (2); l’episodio della nutrice ricavato 
di nuovo da Ovidio (3). Anche l’arte di esso è tutt’altro 
che perfetta. Le ripetizioni che anticipano e riprendono 
la narrazione; certe oscurità e incongruenze di partico- 
lari; i lunghi soliloquii imitati da Ovidio, ma che in 
Ovidio sono analisi, talvolta profonda, dei sentimenti 
del personaggio e qui invece superficiali esclamazioni 
o narrazioni di fatti Iacinti o ripetizioni di fatti già 
esposti; l’enfasi non giustificata e l’ostentazione esage- 
rata dell’erudizione, non permettono che se ne creda 
autore il divino cantor di Enea. Esso appartiene a qual- 
che poeta posteriore, espertissimo in simili esercitazioni 
retoriche. Poiché è innegabile che il ('iris, almeno nella 
sua forma esteriore, risente lontanamente dell Eneide 
per il giro della frase ampio e sonoro, per l’abbondanza 
del l’epitetare, per la particolare struttura e armonia del 
verso. Ma più che da queste somiglianze io credo che 
altri sia stato indotto ad attribuire a Virgilio la pater- 
nità del poemetto dal fatto che gli ultimi quattro versi 
di esso sono appunto tolti dalle Georgiche. Udì infatti 
i lamentevoli accenti dell’infelice Scilla, legata alla prora 
della nave che trasportava Minosse in patria, Cacrnleo 
pollens coniunx Nettunia Regno (4) e, avutane com- 


(1) Loc. cit. I, 151. 

(2) Ib. VI. 

(3) Metani., vv. 384-464. 

(4) V. 482. 


— 65 - 


passione, la mutò in Ciri (1), uccello implacabilmente 
perseguitato dall'Alieeto, in cui da Giove fu convertito 
il padre Niso (2). Questa nimistà ò appunto descritta 
nei quattro versi che chiudono il poemetto: 

Quacumque illa levein fugiens secat aethera pinnis, 

Ecce iniinicus atrox magno stridore per auras, 

Insequitur Nisus; qua se fert Nisus ad auras 
Illa levem fugiens raptim secat aethera pinnis (8); 

i quali non sono altro se non quelli, con cui Virgilio 
ammonisce il contadino di metter tra i segni del pros- 
simo bel tempo anche l’apparire dell’Alieeto e del Ciri (4). 


(1) V. 482. 

(2) Vv. 487 e segg., 527 e segg. 

(3) Vv. 538-541. 

(4) Georrjiche, I, vv. 404-407. L’Alieeto è una specie d’aquila 
e Giove in esso converti Niso quippe ai/ttilis sempcr yaudet deus 
ille corusci s (Ciris, v. 529). Intorno al Ciri non son d’accordo 
gl’interpreti. I più opinano che sia l’allodola. Erasmo di Val- 
vason infatti nel suo poema La Caccia afferma che Niso fu 
convertito in veloce Smeriglinolo, il quale 

Via più che a gli altri augelli ad ora ad ora 
Si mostra a l’ Allodetta irato ed empio : 

Scellerata membranza, ingiuria antica 

Ch’ala figliuola il genitor nemica (Cani. V, atro/. 109). 

Ma dopo aver raccontato diffusamente tutto l'episodio di Scilla, 
avverte : 

Iteri già tra noi si vide uomo prestante 
D’anni e di senno, e di credenza molta 
Che solea disputar, e star costante, 

Che non fu Scilla in Allodetta volta; 

Ma divenne un augel d’altro sembiante 
Assai maggior, che va per Tacque in volta : 

E che non in Smeriglio cambiò Niso, 

Ma in un vero Falcon, le membra e il viso. 

Ma comunque si sia, la pugna ò tale 
Che suol far con la timida Allodetta 
L’irato Smerigliuol si presto d’ale, 

Che non vola il Falcon con maggior fretta ; 

Seguendo lei sovra le nebbie sale 
E da le nebbie sovra lei si getta ; 

E quinci or può non temerario avviso 

Scilla Allodetta. e Smerigliuol far Niso ( Cant . F, 

[alvo Le 201-202). 


5 


- 66 — 


Ma quello che per altri potè essere un argomento per 
attribuire a Virgilio il Ciris è per noi una prova per 
non Tarlo. Virgilio non avrebbe mai cosi ingenuamente 
ripetuto versi già comparsi in altra sua opera. All’oc- 
correnza non ne aveva penuria di nuovi e originali. 


Il Di Valvason deriva la sua prolissa narrazione da Ovidio. 
C'è quindi in lui quel che c'è nelle Metamorfosi e non c’è quel 
che in esse non c’è; la circostanza del giuoco manca nell’uno 
e nell’altro poeta. 


CAPITOLO IV. 


Ultime vicende della ginnastica nella decadenza greca e romana 
— Carattere terapeutico del giuoco della; palla; medici che 
lo consigliarono (Antillo presso Oribasio, Galeno, I'aui.o 
Egineta, Celio Aureliano, Areteo, Avicenna, ecc.). 

La ginnastica, durante i tre periodi in cui abbiam 
divisa la sua storia, si vien trasformando, come vedemmo, 
nel senso elio essa tende continuamente a sottomettersi 
al servizio dell’organismo umano, secondo che le con- 
dizioni sociali e, più, fisiologiche richiedevano. Nell’età 
eroica infatti la ginnastica, come mezzo di rinforzar il 
corpo e, tanto meno, di guarire mali, non aveva ragione 
d’esistere. Che bisogno avevan quegli eroi, robusti e 
possenti, che mangiavan mezzo vitello, che non cono- 
scevan malattie, che vivevano in continuo battagliare 
cioè in continui esercizi, di richiedere alla ginnastica 
una fibra più forte, una salute migliore? 

Essa quindi ha presso di loro carattere essenzial- 
mente edonistico: dilettar sè, conseguendo onore; di- 
lettar gli Dei e i Defunti, offrendo loro onor di feste 
e di giuochi, è il fine che quelli si propongono. Così 
si spiega come Esculapio condannasse l’applicazione 
della ginnastica alla medicina (1) e anche come Platone 


(1) Platone, Politica, III; Galeno, De tuenda sani tate, I, 8. 


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faccia da Socrate biasimar Erodico, il quale per il primo 
insieme congiunse quelle due arti (1). 

Ma più tardi si senti che il corpo si indeboliva di- 
nanzi allo sviluppo preponderante della vita psichica e 
si vide la necessità di rinforzarlo e d’agguerrirlo contro 
il progressivo infiacchimento; allora si capì che gli eser- 
cizi ginnastici non solo potevan dar diletto, ma anche 
offrire un mezzo, salutare e giocondo, di educazione 
fisica e morale dei cittadini. E coinè naturalmente av- 
viene che più si stimi il rimedio quanto più cresce il 
male, nei tempi della decadenza più sentendosi gli uomini 
indebolire il corpo, più apprezzarono gli effetti benefìci 
della ginnastica, e cominciarono a ricorrervi come a 
medicina gradevole ed efTìcace contro le malattie che 
li tormentavano. Così la ginnastica venne a congiungersi 
con la medicina e a costituire un ramo importante di essa. 


» * 

Il giuoco della palla, restato, per quella sua mirabile 
forza che si disse di variarsi e di adattarsi, uno degli 
esercizi preferiti dai degeneri figli di Grecia e di Roma, 
poco per volta divenne quasi il rimedio infallibile contro 
l’universale infiacchimento: i medici se ne impadroni- 
rono, lo consigliarono nelle loro cure, l'onorarono d’una 
letteratura non tanto copiosa in verità, e sopratutto 
non tanto varia, ma notevole come un segno dei tempi, 
come espressione particolare d'una civiltà. Già Ateneo (2), 
per incidenza, aveva lasciato scritto che il giuoco della 
f Allinda gli era graditissimo e per il diletto che ne traeva 
o por il giovamento che ne risentiva tutto il corpo, ma 
il capo specialmente. Antillo, secondo i pochi frammenti 
che ci ha conservato Oribasio, aveva enumerato i be- 
nefici effetti delle varie specie di palla. La terza specie 


(1) Platone, Polìtica, TU. 

(2) Loc. cit., pag. 12. 


— 69 — 


di piccola palla giova, secondo lui, alle braccia, agli 
occhi e alle gambe; e la grande palla rinforza tutto 
il corpo, ma specialmente scarica la testa, tirando in 
giù gli umori. La palla più grande del mediocre e quella 
vuota sono da lui sconsigliate, quantunque abbiano ali- 
ch’esse i loro vantaggi: ma la prima infligge due piaghe 
e la seconda non è nè facile nè adatta (1). 

Ma il primo che fece del giuoco della palla argo- 
mento d’una apposita trattazione fu Galeno in un opu- 
scoletto in l’orma d’epistola secondo l’uso dei tempi, 
indirizzato a un corto Epigene e intitolato Del (/inoro 
della piccola palla (2). È diviso in 5 capitoli: Nel 1." si 
dimostra che ottimo è questo giuoco che congiunge in 
sè l’esercizio del corpo e il diletto delfanimo; nel 2“ 
che il giuoco non richiede nè troppi preparativi’, nè 
troppo tempo, nè troppa spesa; tutti per conseguenza 
vi possono accedere e tutti trovarlo comodo per la fa- 
cilità deH’apparecchiarvisi e utile per la grande varietà 
dei movimenti; nel 3.° che esso esercita tutte le parti 
del corpo e si può paragonare all’arte del buon capitano, 
richiedendo occhio, destrezza, forza, costanza; nel 4.° 
si dànno consigli intorno alle precauzioni da usarsi, 
perchè il giuoco riesca veramente giovevole: tutti vi 
possono giocare, anche i deboli e i convalescenti, ma 
è da usare con moderazione: e fa d’uopo ungersi d’olio 
e prendere dopo un bagno caldo ; il che è utilissimo a 
tutte le età e condizioni di salute: non dà regole in- 
torno alla durata e alla movimentazione di esso, do- 
vendo esse variare secondo la complessione del gio- 
catore: lascia il compito di stabilirlo al pedotriba] nel 
5.°, finalmente, che tutti gli altri esercizi possono essere 
dannosi alla salute: nella palestra si possono vedere e 
acciecati e zoppi e contusi e mutilati; la corsa, il salto, 


(1) Orihasio, loc. cit., coll. 298-299. 

(2) Opere complete di Galeno nella traduzione latina di Cen- 
tannio Vincentino, Venezia, Vincenzo Valgrisio, 1562, classe IV, 
fogli 46-47. 




— 70 — 


il disco e il canto stesso sono pericolosi; tace con re- 
torica preterizione i delitti dei cavalli; il solo giuoco 
della palla è affatto scevro d’ogni pericolo e, per sopra p- 
piiì, giovevole alla salute. 

Nè in questo solo trattatalo, ma anche qua e là 
nelle altre sue opere e specialmente nel De tuenda 
militale, il gran medico Alessandrino fa menzione del 
nostro giuoco. 1 vecchi se ne devono astenere (1), spe- 
cialmente dalle forme più violento e dalle più faticose, 
e mette fra questo (2) resercitazione per mezzo del co- 
rico e della piccola palla, accordandosi in questo con 
Marziale che ai vecchi riserva il folle { 3). In ogni caso 
però, e da qualunque persona si faccia, il gioco dev'es- 
sere sempre moderato (4). 

E poiché Galeno, il medico dei medici, l’autorità in- 
discussa, il maestro insuperato, l’aveva così caldamente 
raccomandato, il giuoco della palla divenne dopo di lui 
un tema obbligato per tutti gli scrittori di cose mediche: 
i quali, persuasi dei grandi vantaggi di esso, ma più 
indotti dall’esempio del grande Alessandrino, andarono 
a gara a scoprire e rilevare e magnificare le sue mi- 
rabili virtù contro i più svariati mali, virtù che vera- 
mente ai nostri occhi appaiono come ridicoli pregiudizi. 

Oribasio, che già vedemmo riportare quanto di bene 
Antillo aveva detto della palla, nella sua Sinopsis (5) 
consiglia l’esercizio per folletti et parvarn pìlam, quae 
exercitatio composita est ex robusta et citata. E lo 
segue Paulo Egineta, quando tra le diverse specie di 


(1) De tuenda sanìtate, lib. V, cap. 2, pag. 73. 

(2) Ih., lib. II, cap. 10, pag. 59. 

(3) Kp., XIV, 47. 

(4; De tuenda sanìtate, lib. II, cap. 12, pag. 00. 

(5) Sinopseos, ad F.ustatium fllittm, libri IX, in Medicae artis 
prineipes... citato: Lib. I, cap. III. Oribasio visse sotto l’impe- 
rator Giuliano, a cui dedicò la sua Raccolta dei medicinali. Suo 
Aglio sarebbe secondo alcuni c]ueU’Eustazio commentator del- 
V Odissea, che fu arcivescovo di Tessalonica. 


— 71 — 


esercitazione veloci senza violenza, annovera timbra- 
li lis pugna et summis raanibus decer tati o et per follerà 
et parnam et magnani pi/am esercitano e le racco- 
manda, coinè quelle che dàn robustezza ed elasticità ai 
muscoli e ai nervi (1). Ed ancor soggiunge che il corico 
corpora crassa attenuai ideoque apud Noniurn a Lucilio 
scriptum inreni tur , rum in gymnasio duplici studio 
siccassem pilam (2). 

E non è Panilo Egineta solo a consigliare il giuoco 
della palla come rimedio contro la pinguedine; anche 
Celio Aureliano (3), con l’autorità di Ippocrate, come 
dicemmo, lo dice efficace contro la polisarchia, e Areteo, 
con quella di Antillo, contro l’elefantiasi (4). Quest’ultimo 
però lo proibisce ai vertiginosi, perchè la tensione e i 
rapidi volgimenti del capo e degli occhi producono il 
capogiro (5). 

Avicenna afferma che nel giuoco della palla con- 
vengono tutti gli altri esercizi e che quindi si può trar 
da esso solo tutti quei vantaggi che dagli altri singo- 
larmente si traggono, rendendo esso più agili e pronti 
i movimenti e rinforzando le funzioni vitali. Così scri- 
vendo, Avicenna s’accosta a quanto ne dice Galeno 
nel citato tratterello del giuoco della piccola palla (<>), 
ch’egli doveva aver sott, 'occhio, come del resto l’avevano 
tutti i medici che abbiamo nominato e che nomineremo. 
Galeno però e i medici di poco posteriori a lui, ge- 
neralmente si limitavano a considerare il giuoco della 

(1) Paulli Aicginetae, De re medica, in Medicae ariis prin- 
eipes, ece., citato: col. 350, lib. I, cap. XVII. 

(2) Mercuriale, lib. V, cap. IV, col. 670. 

(3) De diaela, V. verso la fine, presso Mercuriale. V, IV, 
col. 676. 

(4) De euratione diuiurnorum morborum in Medicae artis 
principia, ecc., citato: lib. II, cap. XIII, col. 06. Tunio Paci. lo 
Crassio Patavino interprete : lucani elephanios perae ac sacculi 
iactus 

(5) Lib. I, cap. 3. 

(6) Lib. I, cap. 1. 


palla nei suoi effetti sulle condizioni generali di tutto 
il corpo, come un altro esercizio qualsiasi della ginna- 
stica. Ma poco per volta esso venne ad assumere un 
carattere, dirò così, sempre più terapeutico; fino a che 
lo si annoverò tra i rimedi specifici di certe malattie. 

Già avemmo occasione di veder la sua efficacia con- 
tro i mali derivanti dal soverchio sviluppo dei tessuti, 
come la pinguedine, la polisarchia e la elefantiasi. 
Ma Alessandro Talliano già lo prescrive nella cura del 
priapismo (1), e Celio Aureliano e Cornelio Celso nelle 
malattie nervose, raccomandandolo l'uno (2) alle nutrici 
per guarire l’epilessia nei bambini e l’altro a quelli che 
soffrono di tremito nervoso (3). I medesimi poi lo rac- 
comandano nelle coliche. L’esercizio però doveva sempre 
esser proporzionato all'età e alle forze e alla salute 
di chi lo faceva, come ammoniva un commentatore e 
illustratore delle teorie di Galeno, scrivendo che biso- 
gnava esercitarsi con moti medii, nè troppo coleri nò 
troppo lenti; e ai più veementi ricorrere i forti, e ai 
meno i deboli ; e l'animo stesso nell’esercizio non doveva 
esser o troppo trascurato o eccitato sed moderatis mo- 
fibus utrumque [corpus et nnimum) idi oportef; ac ubi 
rehernentius altendro laborandurn est, iti alio quie- 
scendum ; lantani enim violentiam nostra compositio 
sustinere ncqui/. Porro venatio et ludus parrae pilae 
videnfur animum et corpus aequaliter exercere (-4). 


(1) Alexander Tallianus, De arte medica, interprete Gui x- 
tf.rio Audeknaco, in Medicae artis principes, ecc., lib. IX, cap. 10, 
col. 28(5, G. 

(2; De acutarum passionimi remediis, lib. I, tract. 2, cap. 2 
presso Mercuriale. 

(3) Lib. I, cap. 6, 

(4) Ioiiannis Argenterò, Pedemontani, In artem medicina- 
lem tìaleni commentarti tres. In Monteregali : ex officina Tor- 
rentiniana, MDLXVI, Comm. Ili, pag. 366. 


PARTE SECONDA 


IL GIUOCO DELLA PALLA 
nella letteratura italiana 



CAPITOLO I. 


Vicende del giuoco della palla nel Medio Evo e sue relazioni col 
sentimento religioso e la disciplina ecclesiastica (San Ago- 
stino, S. Carlo, il Petrarca). — Le più antiche notizie del 
giuoco e diffusione crescente di esso. — Il giuoco della palla 
e l’educazione della gioventù nel Rinascimento (Vittorino da 
Fkltre , Leon Battista Alrerti , Baldassar de Casti- 
clion , Erasmo di Valvason, Rabelais). 

A chi paragoni lo varie specie ili giuoco con la palla 
in uso presso i Romani con le specie in uso presso di 
noi, non può sfuggire, come già notammo di passaggio, 
la grande rassomiglianza di alcune di quello con alcune 
di queste: il pallone col bracciale richiama infatti alla 
mente il follicolo, la piccola palla di cuoio ci ricorda 
la paganica e il fiorentin giuoco del calcio ci la pensare 
all' arpaslo. Ond’è logica la conclusione che le nostre 
forme di giuoco siano derivate dalle antiche. Ma poiché, 
per quante ricerche si sian fatte, mancano i documenti 
che provino la non interrotta continuità di quelle antiche 
specie di giuoco durante i secoli di mezzo, non si può 
con sicurezza stabilire se le nostre specie di giuoco 
sian delle antiche una derivazione per non mai cessata 
tradizione, oppure siano un rinnovamento compiuto per 
imitazione al risorger delle forme e degli spiriti della 
vita antica. L’indagine in questo campo deve dunque 
procedere per via di quelle ipotesi, le quali, in sè rac- 


— 76 — 


cogliendo maggiori elementi di probabilità, consentano 
la lusinga di avvicinarsi al vero. 

Le minoranze, che costituiscono la parte più eletta 
della società, sono anche, ognuno lo sa, la parte più 
evolabile di essa: le maggioranze sono sempre conser- 
vatrici: quindi gli usi, le consuetudini, le credenze re 
ligiose, le idee politiche, la lingua, le fogge del vestire, 
tutto insamma che è manifestazione di vita interiore o 
esteriore d‘un popolo, è più mutevole nelle classi colte 
che nelle moltitudini e più nelle moltitudini delle città, 
che si trovano a contatto con quelle, che non nelle mol- 
titudini delle campagne. 

Ora la paganica , che era la specie di giuoco con la 
palla più popolare in Roma e più diffusa tra gli abi- 
tanti delle campagne, come altrove dicemmo e come 
il nome suo stesso significa, è verosimile non solo che 
sia di più delle altre durata, ma che non sia cessata 
mai e sia a noi arrivata per tradizione costante; mentre 
il follicolo , per limitarci a esso (1), preferito dai nobili e 
ricchi Romani (sappiamo da Svetonio che vi giocava 
Augusto), sospeso durante il Medio Evo, è probabile 
che sia rinato sotto la mutata veste del giuoco col 
bracciale allo spuntar «Iella Rinascenza (2). E questa 


(1) Il trójone scomparve con lo sparir del mondo antico; solo 
• lualclie reminiscenza di esso noi vediamo in alcuni giuochi di 
fanciulli. Lo stesso si dica deh’ aporrassi, della feninda, dell’ «ca- 
nta, ecc. La paganica , come sembra, fu continuata fino a noi da 
quel giuoco assai frequente che, o a mano o col tamburello, si 
faceva fino ad alcuni anni fa con la piccola palla di cuoio piena 
di lana o sabbia o crusca o altro: la quale, fugata dal pallone 
elastico, si vede ancora oggidì confinata in alcuni piccoli villaggi 
dell’alto Piemonte, verso la montagna. 

(2) Il giuoco del calcio, che continua l 'appasto, è cosi par- 
ticolare di Firenze, donde poi s’estese al resto d’Italia, che mi 
parve ragionevole escluderlo da queste considerazioni di ordine 
generale. In verità non saprei dire se sopravisse per continuata 
tradizione o rinacque dopo il Medio Evo. É certo però che di esso 


— 77 — 


congettura s’accorda con lo condizioni sociali e politiche 
del Medio Evo. Le classi dirigenti si davano allora al me- 
stier delle armi ; e quegli uomini forti e robusti, vestili 
di ferro, per lo più randagi per il mondo in cerca di 
avventure, non avevano nè gran bisogno di ricorrere nè 
gran tempo da concedere agli esercizi della ginnastica; 
ad ogni modo di questi avevano a vile i meno violenti 
e aspri; e ai colpi di palla negli sferisteri preferivano 
i colpi d’asta e di spada nei tornei e nelle giostre. Il 
popolino invece amava i piccoli esercizi che lo solle- 
vavano dalle fatiche dei campi e dei traffici : e le noie 
dei lunghi assedi ingannava con il più vii giuoco della 
piccola palla di cuoio nelle vie, nei vicoli, sulle piaz- 
zette, ovunque si aprisse uno spazio da poterlo faro. 
Poiché è anche da notare che la configurazione stessa 
delle città, costruite nella breve cerchia delle mura di 
difesa e spesso fabbricate sulla vetta angusta di colli 
d'aspro pendio, non concedevano il campo ai larghi sfe- 
risteri necessari al giuoco del bracciale; ma il giuoco 
con la palla di cuoio, specialmente se battuta con la 
mano, o nuda o inguantata come un tempo si usava, 
era sempre possibile, anche se strette e storte erano 
le vie, obliqui i vicoli, irregolari le piazzette. Quando 
poi i rinati studi classici rivelarono i vari modi d’eser- 
citarsi che avevano i Greci e i Romani e appresero alle 
menti avide dell’antico i fasti gloriosi della palla; e quando 
lo città, scossi i secolari terrori, apersero le loro mura 
alla vita gioconda delle Signorie festeggianti, allor ve- 
ramente il giuoco con la palla divenne il giuoco clas- 
sico degli Italiani, come il Burkhardt l’ebbe a chiamare (1), 


si hanno notizie più antiche che non degli altri giuochi. Io propen- 
derei a credere che Firenze l’abbia conservato senza interruzione 
durante tutti i secoli di mezzo, tanto più che militano per esso tutte 
le ragioni addotte di sopra in favore del la piccola prilla (ti cuoio. 

(1) La Civiltà de! Rinascimento in Italia, Saggio di .Iacopo 
Burckhardt, traduzione italiana del prof. I). Vai.uusa, Firenze, 
C. S. Sansoni, 1901, v. II, pag. 139. 


— 78 — 


e per iniziativa di Municipi e di Principi, s’eressero i 
vasti sferisteri, campo di sfide famose, le quali, per la 
qualità di giocatori e per la straordinaria concorrenza 
degli spettatori, meritarono d’esser poi ricordate dalla 
storia c cantate da poeti illustri. 

Ma un'altra ragione ci permette di supporre continuo 
il giuoco della palla, in certe forme almeno, durante 
tutto il Medio Evo. 11 Cristianesimo trasformò il mondo 
pagano, eliminando quanto la vita aveva di contrario 
alle sue credenze, modificando quanto da esse differiva, 
accettando quanto con esse s’accordava. 11 giuoco della 
palla, che non urtava in nulla con esse, fu accettato 
dalla nuova religione, concesso dal nuovo dritto cano- 
nico e permesso dai teologi posteriori. 

Per scegliere infatti due scrittori cristiani, uno dei 
quali vissuto prima del Medio Evo e l’altro in sul finire 
di esso, non disapprova il giuoco, come vedemmo, San Cle- 
mente Alessandrino, scrittore severissimo (1); lo consiglia 
come utile e onesto Maffeo Vegio di Lodi, datario del 
pontefice Pio li nel suo De liberoruni educa! ione (2). 
Anzi, nemmeno ai chierici, ai (piali pure erano proibiti 
tanti passatempi, il giuoco della palla non era vietato, 
come si può vedere nel trattato De vita et honestate 
clericorum citato dal Posino (3) e in generale in tutti 
i libri consimili, come negli atti dei concilii più celebri, 
nei quali altri giuochi sono condannati nominalmente e 
per loro stessi, quello della palla invece o non condan- 
nato o condannato solo condizionatamente, cioè in certe 
circostanze di tempo, di luogo e di modo (4). Solo più 


(1) Op. cit., Raedaijoi/us, III, cap. 1. 

(2) Macubi Vecii Laudensis, De liberorum cducatione, lib. Ili, 
^ II nella Maxima bibliotheea cet ;rum patrum et antiquorum ^cri- 
pto rum, I.ugd uni, MDCLXXVII, Tom. XXVI, pag. (itì. 

(3) Antiq. Rom., lib. V, pag. 432 e segg. 

(4) Gir. anche Benkdicti Pacai: XIV, De ninnilo Diocesano, 
lib. XI, cap. X, pagg. 4KJ-4I7 e Yetns et nova Ecclesiae di- 


tardi, quando si fece sentire l'influenza della contro-ri- 
forma cattolica, negli atti di alcuni coneilii, si proibì 
categoricamente anche il giuoco della palla; San Carlo 
Borromeo, nel suo concilio provinciale milanese, volle 
che i chierici s’astenessero dai giuochi di sorte; e 
inoltre a ylobis qui malleis ligneis expelluntur; idem 
a ludo follìa ìdest pilae maioris (1). Il non essere stato 
vietato dalla nuova religione viene a essere una ragione 
di più per non escludere, anzi per ammettere che il 
nostro giuoco non sia mai cessato dai tempi antichi ai 
moderni. 

La condanna — parziale veramente perchè limitata 
ai chierici — che S. Carlo fa del giuoco della palla, ne 
ricorda un altra di un altro Santo, di S. Carlo non meno 
venerato e piu geniale, S. Agostino. Le due condanne 
fatte a tanta distanza di secoli l’una dall’altra, non solo 
s'assomigliano perchè sono entrambe una protesta contro 
un ordine generale di principi e di costumi, ma sono in 
fondo, oserei dire, la medesima protesta contro i mede- 
simi principi e costumi. Il divieto di S. Carlo fa parte 
d’un complesso d’altri divieti e ordini intesi a porre 
un freno alla corruzione degli ecclesiastici e a ridurli 
a una regola di vita più consentanea al loro ministero, 
come appunto si può vedere dagli atti del suo con- 
cilio: cosi, il santo arcivescovo veniva a farsi inter- 
prete di quel nuovo indirizzo delle coscienze, che è co- 
nosciuto sotto il nome di contro-riforma cattolica; la 
quale, più generalmente considerata, non è altro se non 
reazione contro il Rinascimento corrotto e irreligioso. 
S. Agostino a sua volta disapprova quel trastullo, caro 


sciplina auctore et interprete Lodovico Tiiomassino, Lucae, 
MDCCAXt III; donde si ricava che il Concilio di Trento concesse 
ai chierici il giuoco della palla minore (l’arte III, lib. Ili, ca- 
pitolo XLVI, n. IV, v. Ili, pag. 604). 

(1) Actuum Peci. Medio!. I, 2, pag. li). 


— So- 
nila sua fanciullezza (1), non in so stesso, ma come causa 
di disubbidienza ai genitori e ai maestri. Però soggiunge: 
Non ero già disubbidiente, perché scegliesti occupa- 
zioni migliori, ma per solo amore de! giuoco, amando in 
quella gara le superbe editorie ( 2). Egli dunque condanna 
se stesso e il suo amor proprio; tutti i sentimenti cioè 
dell’animo suo non diretti unicamente al culto di Dio 
e alla sua glorificazione. Egli è un mistico e il suo 
è il misticismo dei martiri; un’ abnegazione completa, 
una rinuncia a quanto la vita ha di bello e di grade- 
vole; un annientamento d’ogni propria volontà neH'adem- 
pimento della volontà divina, d’ogni desiderio nel desi- 
derio del premio ultramondano. Ed è questa un’altra 
reazione contro quell’aspirazione assidua a ogni sorta 
di godimenti, a quella esagerata coscienza delle indivi- 
duali energie che furono i sentimenti caratteristici della 
società romana, specialmente di quella dell’Impero. E 
come il Rinascimento fu la riproduzione, almeno parziale, 
degli spiriti c delle forme della vita antica, così le voci 
dei due santi della Chiesa, in tempi diversi, vengono 
a levarsi entrambe contro la medesima civiltà classico- 
pagana in nome della civiltà medioevale-cristiana, o inci- 
piente o risorgente. Eppure l'ima e l’altra di queste due 
civiltà, degli elementi constitutivi della coscienza italiana 
sono stati, fin quasi ai tempi moderni, i principali e più 
importanti: ma contrari tra loro per la stessa loro essenza, 
vi rimasero in perenne antagonismo, tentando a vicenda 
di soverchiarsi, ora l’uno ora l'altro vittorioso. In certi 
periodi le due correnti paiono equilibrarsi, e grandi 
uomini in sè quelle raccogliendo, si vedono adoperarsi 
per metterle d’accordo; e null’altro però ottenere, se non 
mettere in rilievo il loro dissidio inconciliabile. 

Il Petrarca infatti, vissuto sullo scorcio del Medio 
Evo, durante il quale la corrente medioevale-cristiana pre- 


ti) S. Agostino, Confessioni, lib. I, cap. 9, n. 3. 
(2) lb., cap. 10. 


- 81 - 


valse, e sul limitare del Rinascimento, in cui la classica 
trionfò, lotta invano anche lui per conciliarle in sè; ma 
esse si mostrano ognora in conflitto. Quando, per esempio, 
il giuoco della palla si presenta al tribunale della sua 
coscienza (1), il Diletto si confessa alla Ragione: « Volen- 
tieri gioco alla palla ». Essa ne lo rimprovera: « Se il gioco 
si ricerca per esercizio, è desso troppo agitato e scom- 
posto e clamoroso: tanto che non vi si può far nulla 
di bene: meglio è passeggiare che fare alla palla, meglio 
imitare Aristotele che Dionigi di Siracusa. Ma vi gioca- 
rono però Q. Muzio Scevola e il divo Augusto e Marco 
Aurelio e furono: quello, un insigne giureconsulto e 
questi, principi eccellenti ; si tolleri dunque il giuoco, 
ma si faccia composto e tranquillo, come a un ingegno 
grave conviene ». 

t'ol ricordo di quei famosi personaggi di Roma antica 
la visiono della grandezza di questa si presenta fulgida 
agli occhi ammirati del poeta e l'ammirazione e la ri- 
verenza attenuano nell’animo suo ogni altro sentimento. 
La Ragione non trova più argomenti sicuri nel suo giu- 
dizio o la sua sentenza quindi non è più nò assoluta 
nè severa. L’incertezza che serpeggia per tutto il di- 
battito è appunto l'efTetto del conflitto dei due opposti 
sentimenti che si disputano l’animo suo: In propen- 
sione, cioè, che la natura gli aveva dato e che lo studio 
(Iella classicità alimentava, a sentire e godere tallo 
ciò che è bello, piacevole, amabile (pii sulla terra; e 
la fervida aspirazione all’idealità ultraterrena, che, 
radicata nella sua anima dalla lunga e ancor vivace 
tradizione medioevale, rinfocolavano le lei! are di libri 
sacri, specie delle « Confessioni di S. Agostino'» (2). Così 


(1) Francesco Petrarca, De pilae ludo. Dialogo XXV nelle 
opere stampate a Basilea. Auerbaek, 14SJ6, v. 2. 

(2) V. Rossi, Storici delta Letteratura Italiana, v. I, pag. 19. r >. 
Non mi pare inopportuno riprodurre tutto il dialogo del Pe- 
trarca, affinchè il lettore legga e giudichi: 

6 


— 82 — 


il Petrarca, oscillando tra S. Agostino e Valerio Mas- 
simo, non più reciso nè assoluto come un uomo del 
Medio Evo e non ancor sicuro e forte come un uomo 
del Rinascimento, colpisce il giuoco con una condanna 
parziale, la quale rivela l’incertezza del suo animo di- 
viso tra due ideali in perpetuo antagonismo tra loro. 

Ma a mano a mano chi* la coscienza antica si rin- 
forza col rifiorir degli studi classici, anche il giuoco 
della palla sempre più si diffonde senza esitanze nè 
opposizioni. Non molti anni dopo il Petrarca, il già 
menzionato Maffeo A^egio è già più reciso; IHlae ludus 
et honestus e! libera lis videtur; adiuvat eliditi pluvi- 
mai» bona/» valetudine m: cui caia multi, /amen e/inm 
Augustus e! Mucius Scaevola et Dionisius e! Marcus 
Anlonius et Lieo» Philosophus aridissime dediti fuisse 
Iraduntur (1). Vi si giuochi dunque senza scrupoli nè ter- 


« Gaudi uni: At delectut pilae ludus. Katio : En aliud clumamii 
I ud i brium saltandique. Gaudium: Libenter pila lusito. Ratio: 
Odiosa vobis, ut videtur, est requies; undique laboresaucupamini, 
deeoros utinani. Nani si exercitio ludus liic quaeritur, utrum pre- 
cor honestiorem fatigationem furibonda iactatio: in qua, aio, niliil 
geri potest; au umbulatio tranquilla praestaret; ubi et membrorum 
motus utilis, et ingenii agitatio lionesta est. Quem morem pliilo- 
sophoruni quidam sic lecerunt suum, ut bine secta famosissima 
nomen sumpserit. An tu vero Dionysium S.vracusarum quam 
Stagyritam Aristotelem sequi mavis, quando ut studiosa deambu- 
latiorie pliilosoplium, sic tyrannum ludo hoc turbido delectari so- 
litum acce]iimus; quamvis et modestos interdum alios voluptas 
haec ceperit. Itaque et tj. Mucius Scaevola, ille augur, elegan- 
tissime hoc ipsum fecit; et divus Augustus post lìneui civilium 
bellorum ab exercitiis campestrilais ad pilam transiit: et Marcus 
Aurelius Anlonius, ut de eo scribitur, pila lusit appriine. Nec 
tamen ille vel divini atque Immani iuris peritissimus vel hi doc- 
tissimi atque optimi principes l'uerant: ideo (ed ecco la transa- 
zione) ludus praeceps et clamosus placet, siquidem motus omnis 
vehementior, praesertim si clamore permixtus sit, honestum de- 
decet ingenium ». 

(1) Vkoio, loc. cit. 


- 83 — 


giversazioni, pare voglia soggiungere. E il giuoco prende 
sempre maggior voga. 

• • 

Le notizie infatti del giuoco, prima rare e indirette, 
si fanno, dal principio del secolo XIV in poi, sempre più 
frequenti e determinato. Le più antiche veramente ci 
vengono di Francia. 11 Concilio provinciale Biterrense, 
celebrato sotto Egidio Arcivescovo di Narbona nel 1310, 
proibisce ai monaci ludos globorum (1); il che lascia 
supporre che anche prima di queiranno il giuoco fosse 
frequente. 

Luigi X nel 1316, nei boschi di Vincennes, 

...avait 

Jouò un jeu qu’il savait 
À la paume...; 

ma bevve in fresco e, presa una flussione di petto, 

Là perdit-il plumes et pennes (2). 

Il Petrarca scrisse il suo trattato De remeiliis litri- 
usque fortunae tra il 1360 e il 1366; e, parlando del 
giuoco della palla, aveva egli in monte la visione diletle- 
vule di qualche partita fatta sotto il bel ciel del Delfi- 
nato o d’Italia, oppure solo l’ascetico ricordo del passo 
delle Confessioni, in cui San Agostino condannava il 
giuoco gradito ? 

l’n’ordinanza del Prevosto di Parigi del 22. gennaio 
1397 nota che molti artigiani abbandonavano il lavoro nei 


(1) Articolo XI.IV degli atti di quel concilio nel Thesaurus 
nocits Anecrloelorum, Lutetiae Parisiorum, 1717, v. IV, pag. 219. 

( 2 ) Chronigue rinicc, attribuite a Gkofkkoy de Paris, come 
si legge nel notevole studio che il Susserand la su Les shorts 
dans l’ ancienne Frutice nella /{ente de Paris , v. JII, pag. 129. 
La morte di Luigi X ricorda, per l’identità dei particolari, quella 
del fratello di Leone V, imperatore d'Oriente (813-820), il quale, 
dopo aver giocato, subito sai) a cavallo: gli si ruppe una vena 
e mori. (Magnani Theatrum humanae vilac , auctore Laurentio 
Beyerling, Lugduni, 172X. Tomo V, M, 093 g). 


— 84 — 


giorni feriali per giocare alla palla ; ordina quindi che 
si giuochi solo la domenica, pena una multa (1). Nel 
1386 una compagnia di gentiluomini francesi, recatasi 
da Giovanni I di Castiglia, lo avverte d’una guerra 
macchinata contro di lui da Giovanni di Gand c dagli 
Inglesi. Il Re rimase alquanto pensieroso; ma poi rivoltosi 
a Roberto de Bracquemont e a suo fratello Giovanni: 
L’anno scorso vi incaricai , disse, di portarmi delle 
pelofes di Parigi per fare alla palla tra di noi-, mai ' 
meglio c’abbiate por/a/o armi. Le anc e le altre, rispose 
il sire di Bracquemont; perchè non si può mica sempre 
giocare nè sempre combattere (2). 

Ma a questo punto si trovano tracce del giuoco anche 
in Italia. Se si potesse dare come certa la data del- 
l’anno 1300 alla deliberazione degli Anziani di Pisa, con 
la quale si proibiva sotto diverse pene pecuniarie di 
giocare alle piastrelle e alla palla in Duomo e nel Cam- 
posanto, sarebbe questa la notizia più antica che s’a- 
vrebbe del giuoco in Italia e fuoii. Ma F. B. Supino nel 
riportare quella deliberazione nella sua bell’opera II Cam- 
posanto di Pisa (3), pure assegnandola al 1300, coscien- 
ziosamente avverte che nelle Deliberazioni e Partiti 
del Comune di Pisa riguardanti l’Opera, Panno non è 
precisato (4). Ma è certo però che il divieto, avendo 
ottenuto la prima volta poco effetto, fu rinnovato . nel 
13S0 (5), e poi ancora un’altra volta nel 1478 (6), sempre 
con maggior rigore, ma sempre, a quanto pare, col me- 
desimo risultato. S’hanno però altre notizie del giuoco 
molto anteriori a quest’ultimo anno. 


(1) Susserand, loc. cit., pag. 125. 

(2) Susserand, loc. cit. , pag. 127. 

(3) I. B. Supino, Il Camposanto di Pisa, Firenze, Fratelli 
Alinari, 1896. 

(4) Ib., pag. 37. 

(5) Ib., pag. 37. 
r 6) Ib., pag. 38. 


Negli Statuti «li Mondovi v'è un articolo intorno ai 
giuochi che parla due volte della pillotta : Rem statu- 
to m est quoti aliquis non Inda/ in civitate Montis Re- 
galia rei districi us ad laxillos rei ad bitrinos rei ad 
aliata ladani re litui a praeterquarn ad scacos et Pillo- 
taxi. E poco sotto: Rem statutum est quod nulla per - 
sona audeat rei praesumat In de re intra domos con- 

rcn/us frale ut a Minorimi et fratrum Praedicatorum 
ed Ecclesiae Sancii Donati ad aiiquem ludtim taxillo- 
rutn, biglarum, pilotar eie. (1). Ora se si considera che 
questi Statuti, pubblicati nel 1570, erano stati compi- 
lati nel 1415, come risulta dalla prima pagina; e che 
l’articolo citato di essi, specialmente la seconda parte, si 
riferisce evidentemente a una consuetudine inveterata che 
doveva durare da anni e anni, si dovrà ammettere che 
nella città di Mondovi il giuoco della palla era già usato 
almeno nello scorcio del secolo XIV. 

Un’altra notizia del giuoco cade su per giù nello 
stesso tempo. S. Antonino, arcivescovo di Firenze, che 
visse dal 1.489 al 1459, dum luderet ludo pilae, quae 
(licitar « palla grossa» (probabilmente quella del calcio) 
fregerat sibi brachium (2). Ora se si osserva che alla 
palla si giuoca più in giovine età che in età avanzata, 
e che il santo arcivescovo entrò a Iti anni nell’ordine 
dei Predicatori, si deve convenire che egli giocò almeno 
nei primi anni del sec. XV. 

Ma subito dopo, da un processo del 10 luglio 1432, 
apprendiamo che il giuoco della palla (liidus paline coreae 
ad spondam muri) soleva farsi in Bologna presso la casa 
degli eredi Da Serpe speziale, nella parrocchia di S. Da- 
miano, dalla croce di via Castiglione alle case dei Gui- 
doni (3). Nella stessa Bologna, cinquantanni circa dopo, 

(D Stallila eie itati s Montisrei/alis. In Monteregali MDLXX, 
cap. XIV, De non l udendo , pag. 178. 

(2) Duciiange, Glossario citato, sotto palla. 

(3) Lodovico Frati, La cita privata di Ilologna dal sec. XIII 
al XVI, Bologna, Zanichelli, 1900, pag. 138. 


— 86 — 


cioè noi 1480, molti giovani giocarono alla presenza di 
Giovanni 11 Bentivoglio; e nel 148(5, nello nozze di Lu- 
crezia d’Este con Annibaie Bentivoglio, narra il cronista 
Bolognese Gaspare Nadi, che feno al balon Z aeravi 
ordinarli... e di po’ sugò al dito balon ciarli signiari de 
qui , li quali sono al marchese de Manina e quelo da Ca- 
merino e quelo da Piombino e quelo da Pessaro e altri 
signiuri (1). 

Ometto la ricerca d’altre tracce del giuoco. Oramai 
egli s’ora avviato pel suo cammino glorioso e trionfava 
in tutte le città specialmente dell'Italia centrale, non 
solo nelle suo specie minori, della palla di cuoio e del 
calcio, ma nella forma più nobile del pallone col bracciale. 


A favorire la diffusione di questa forma venne in luce 
un libro, che levò insolito rumore e contribuì a diffonderla 
tra gli Italiani insieme con tutte le forme della ginna- 
stica antica. Fu questo il trattato De g ginnastica di Mer- 
curiale. In quel fervore di studi classici, in quella smania 
di conoscere e ricostituire la vita antica, il libro del 
celebre medico padovano, glorificatore di quell’arte che 
favorisce lo sviluppo della forza fisica e la coscienza 
della propria personalità — due sentimenti cosi diffusi 
nel Rinascimento — ebbe un immenso successo. La gin- 
nastica cominciò allora a essere considerata come cosa 
a sè, separata dagli esercizi guerreschi c dai giuochi (2) 
e ad entrar nell’educazione ; e, per la prima volta, forse, 
nella scuola di Vittorino da Feltre, si videro associati 
all’istruzione scientifica e letteraria i più lodati fra gli 


(1) Diario Bolognese di Gaspare Nadi, edito ila C. Ricci e 
A. BACCm della Lega, Bologna, Romagnoli dall’Acqua 1887, 
pag. 123. 

(2) Burckhardt, Ed. cit., v. II, pag. 138. 


— 87 — 


esercizi ginnastici ; esempio imitato poi «la Federico 
d’Urbino, il quale assisteva in persona ai giuochi dei 
iriovani a lui affidati. 

\ T ò ebbe opinione discorde da «jnella del buon Maestro 
della Casa Giocosa uno dei primi uomini «lei Rinasci- 
mento, come per tempo così anche per grandezza d’in ‘ 
gegno : Leon Battista Alberti. Il quale nella sua famosa 
opera Della famiglia ebbe a scrivere : Ma a fanciulli 
giu forterussi ed agli altri tutti, traggo nuoce l'ozio: 
cm gionsi ger l’ozio le rene di flemma ; stanno acqui- 
dosi e scialbi e lo stomaco sdegnoso : i aerei gigri e 
il cargo tardo e addormentato ; e giu , l'ingegno ger 
traggo ozio s'appanna ed offuscasi, ed ogni virtù del- 
l’animo diventa incide e stradi iccia. E ger contrario 
molto giova l'esercizio: fa natura si vivifica; i nervi 
s’ausano alle fatiche, fortificasi ogni membro, assot- 
tigliasi il sangue, impongono le carni sode, l’ingegno 
sla pronto e lieto (1). 

Io non saprei trovare un’altra diagnosi più sicura e 
fedele del male e una dimostrazione più convinta e più 
chiara dell’efflcacia del rimedio. È questa una dipintura 
limpida e suggestiva dei tristi effetti dell'inerzia e di 
«juelli molto benefici dell’esercizio ; la quale dimostra 
quanto radicata fosse nell’animo dell'Alberti l’idea della 
necessità, assoluta d’una buona educazione fisica. Quando 
infatti gli avviene di dover parlare nel suo trattato delle 
applicazioni intellettuali dei giovani, subito s'affretta ad 
avvertire: E non credete, Arorardo, che io voglia che 
i padri tengano i figliuoli incarcerali al continuo tra 
i libri; ansi lodo che i giovani, sgesso e assai, quanto 
recrearsi basta, piglino dei sollazzi. Ma siano tutti i 
loro giuochi civili, onesti, senza sentire vizio o biasimo; 
usino quei lodati esercizi, ai quali i buoni antichi si 


(1) Liìon Battista Ai.nr.RTi, Della Famiglia, Ed. Bonucci, 
Tom. II, lil). I, pag. 73-7-t. 




— 88 — 


tiara no. Giuoco , ove bisogni sedere, quasi ninno mi intra 
degno d'uomo civile. Lascino gli uomini non dessidiosi 
sedersi le femmine, e impigrirsi; loro in sè piglino eser- 
cizi che muovono la persona in ciascun membro ;sae/f ino, 
cavalchino, e segnino gli aliai civili e nobili giuochi. 
Gli antichi usavano lo arco E usino i nostri gio- 

vani la palla, giuoco antichissimo e proprio alla de- 
strezza, quale si loda in persona gentile \t> mi di- 

spiacerla che i fanciulli avessino per esercizio il ca- 
valcare E cosi amerei io nei nostri da piccoli si 

< lessino , e insieme con le lettere imparassino questi 
esercizi e destrezze nobili, e in /ulta la vita non meno 
alili che lodate : cavalcare, schermire, nuotare e tulle 
simili cose quali in maggiori età spesso nuocono notte 
sapere. E se tu vi poni mente, troverai tulle queste 
essere necessarie all’uso e vivere civile (1). 

In queste ultime lince il concetto dell’utilità degli 
esercizi accenna ad allargarsi : eh i cogli esercizi ha cura 
di rendere più forte e destro il corpo provvederà anche 
alla sua educazione di cittadino, ammonisce l’Alberti. E 
come, secondo gl'ideali d’allora, la forma più alta e nobile 
del vivere civile era quella delle corti e il tipo ideale* 
dell uomo, pubblico e privato, era quello del perfetto' 
cortigiano, ecco Baldesar Castiglione (2) a consigliare a 
chi cortigiano intendesse divenire, insieme cogli eser- 
cizi delle armi, anche quelli che tengono assai della sire- 
na Uà virile (3) e tra questi, oltre la caccia, il nuoto, la 
corsa, il gittar pietre e il volteggiare a cavallo, il giuoco 
della palla. Ancor nobile esercizio e convenientissimo 
ad uom di corte, afferma il Castiglione, t> il giuoco di 
palla, nel quale molto si vede la disposizione del corpo 


(1) Alberti, ib. pag. 107-108. 

(2) Biblioteca Scolastica di Classici Italiani, diretta ila Giosuè 
Carducci: Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione, an- 
notato ed illustrato da Vittorio Gian, Firenze, Sansoni, 1804. 

(3) Ib., lib. I, cap. XXII, lin. 3, pag. 40. 


— 89 — 


e la prestezza e la discìoltura il’ ogni me, libro, e tallo 
lineilo che in ogni altro esercizio si vede ( 1). 

Ma se noi vediamo nell'Alberli e nel Castiglione chia- 
ramente delineato l' intimo rapporto che corre tra l'in- 
dividuo sano c forte e il cittadino buono e capace, non 
troviamo ancora in essi per nulla congiunta l'idea del 
cittadino perfetto con quella della patria. 

La patria nell’animo degli uomini del Rinascimento, 
se non forse nel Machiavelli, non esiste; e in quelli in 
cui compare, essa rimane sentimento teorico, astratto, 
derivato dal tempo antico: e tale rimarrà ancora per 
secoli parecchi, fino al Leopardi compreso, e quasi vorrei 
dir pili oltre. E sotto questo aspetto retorico — nè in- 
tendo dire che la retorica debba escludere ogni sincerità 
e profondità di sentimento — si presenta a noi in un 
poeta, il quale tenta di mettere, nel pieno fior del Ri- 
nascimento, l'uso dei ginnici esercizi in relazione colla 
prosperità della patria. È questi Erasmo di Valvason, che 
nel suo poema La caccia (2), volendo enumerare gli eser- 
cizi coi quali si deve temprare chi vuol riuscir buon cac- 
ciatore, par c’abbia sott’occhio i passi citati dell’Alberti 
e del Castiglione (3). Deve il buon cacciatore signoreggiare 
il sonno (4), contendere al salto e alla corsa (5), lot- 


ti) lb., lib. 1, cap. XXII, liti . 11-14, pag. 50. 

(2) Erasmo di Valvason, La Caccia, Milano, dalla Società 
Tipografica de’ Classici Italiani, 1808, canto IV, strofe 27-34. 

(3) Del resto finché rimangon lissi i principi etici, politici, 
religiosi, estetici, ecc., dai quali sono emanati certi mezzi, gene- 
rali o parziali, di educazione, non c’è ragione che questi abbiano 
a variare : ecco perchè noi troviamo ripetuti in tutti gli scrittori, 
che n’ebbero a trattare nel Rinascimento, i medesimi esercizi di 
ginnastica utili all’educazione della gioventù, dall’Alberti al Ca- 
stiglione e al Valvason, dal Tolomei citato dal Cian nel Commento 
al Cortegìano (lib. 1, cap. XXII. nota 15, pag. 50) a Celio Cal- 
eagnini nel passo dell’Orazione funebre di A. Costabili riportato 
dal Hurckhardt. (Ed. cit., v. II, pag. 138, nota 2). 

(4) Ib., strofa 27, vv. 1-4 e strofa 30, vv. 1-4. 

(5) Ib., strofa 38, vv. 1-2. 


— 90 — 


lare (1), cavalcare (2), sopportar lame e sete (3) e giocare 
alla palla (4). Quando però il poeta, passata in rassegna 
la serie delle più utili esercitazioni, viene a dimostrarne 
i vantaggi, non solo non si limita ad asserire che buon 
cacciatore riuscirà chi le avrà praticate, ma spingendo lo 
sguardo oltre il suo stesso argomento, vede che da quelle 
maggiori vantaggi scaturiscono, poiché non solo ro- 
busto e resistente esse faranno il cacciatore, non solo 
anzi faranno forte e anche eroico e glorioso il cittadino; 
ma saranno le basi della grandezza della patria : 

Tra rigorosi ed aspri studi 
Crebbero quei che i fondamenti alteri 
Gettar ili Roma, di delizie ignudi, 

Di fama e di valor ricchi guerrieri : 

Questi son de {'Eroiche virtudi 
I Iodati principi, i semi veri ; 

Questi i sentieri son, <|ueste le scale 
Onde di grado in grado al ciel si sale (5). 

Ma noi sentiamo che la presenza di Roma in questa 
strofa è, più che altro, una reminiscenza classica: dov'è 
il pensiero della patria italiana? Pur tuttavia, per udire 
un’altra volta che gli esercizi fisici son iodati principi 
e semi veri d’eroiche virtudi e scale per ascendere alla 
gloria; e più ancora ch’essi sono i fondamenti atteri 
dei grandi Stati, dopo il Valvason, o, dirò meglio, dopo 
lo scadere degli studi classici, bisognerà che passi qualche 
secolo. Bisognerà che sorga il Classicismo cioè che rina- 
scano un’altra volta gli studi e l’amore dell'antichità. 

Poiché è inutile negarlo; in ogni tempo e in ogni 
luogo l'amor della ginnastica per sé, come fonte di pia- 
cere diretto, come mezzo appositamente usato per rinfor- 
zarsi non solo, ma anche per educarsi e rendersi atti a 


(1) Ib. , strofa 33, vv. 3-4. 

(2) Ib., strofa 33, vv. 3-8. 

(3) Ib., strofe 34, vv. 1-2. 

(4) Ib., strofe 31 32. 

(3) Ib., strofa 36. 


— 91 — 


viver bene e pienamente, sempre si vede spuntare ogni 
qual volta risórge il culto delle cose antiche. Quando il 
soffio del Rinascimento penetrerà anche in Francia a sve- 
gliare le assopite energie neo-latine di quel popolo, il ri- 
dicolo e pur serio Rabelais farà suoi i razionali criteri 
pedagogici di Vittorino da Feltre; e vorrà che il suo 
Gargantua, per riuscir un buon cittadino, sia educato 
come il perfetto Cortigiano del Cinquecento. Così nella 
sua educazione alternerà le occupazioni della mente con 
gli esercizi del corpo, moderati e liberi, diretti appunto 
a sollevare lo spirito stanco... Allorché egli ( Gargantua ) 
era completamente vestito..., per tre linone ore gii era 
fatta lezione. Uopo uscivano sempre conferendo sugli 
argomenti della lezione, e si diportavano a! Bracco (1) 
o ai prati e giocavano alla palla, al pallori grosso, alla 
pallacorda, galantemente esercitando il corpo, come 
avevano esercitato lo spirito. Giocavano con piena li- 
bertà e. lasciavano la partila (piando loro piaceva : ordi- 
nariamente smettevano (piando cominciavano a sudare 
o s* erano stancati. Asciugati e stropicciati cambiavano 
camicia e camminando dolcemente andavano a vedere 
se il pranzo era pronto. E là, mentre aspettavano, re 
citavano chiaramente ed eloquentemente alcune tra le 
sentenze ritenute dalla lezione (2). 

Mi par dunque lecito conchiudere che gli uomini del 
Rinascimento facevano della ginnastica una stima quasi 
eguale a quella che n'avevano gli antichi. Ma una volta 
cominciati a decadere gli studi classici, scadde pure la 
stima e la pratica degli esercizi, tanto che il Seicento, 
teoricamente almeno e secondo il concetto antico, non 
ebbe più nò l’una nò l’altra. 


(1) Così chiamavasi un luogo (love si giocava al pallone, per- 
chè aveva per insegna un bracco. 

(2) Rabelais, Garqantna, cap. XXIII della traduzione ita- 
liana di Janunculus, Napoli, E. Schena, 1887, pag. 70-71. 


CAPITOLO II. 


Divisione in gruppi dei componimenti che lian per soggetto il 
giuoco «Iella palla. — Gruppo I [La letteratura dei trattati]. 
Antonio Scaino, Francesco Saverio Quadrio, Tommaso 
Rinuccini. 


La letteratura del giuoco della palla non è presso 
di noi copiosissima; ma per .l’importanza di alcuni scrit- 
tori che ne trattarono e per l’eccellenza dell'arte con cui 
ne trattarono e ancora per la varietà o natura delle con- 
siderazioni a cui può dar luogo, merita una speciale 
trattazione. E affinchè questa proceda con ordine e chia- 
rezza, mi è parso conveniente raggruppare i componi- 
menti, che da quel giuoco traggono argomento, secondo 
l’affinità del genere o la comunanza dell’origine. li ne 
risultò la seguente divisione: 

1. " Trattati che meritano speciale considerazione per 
i ineriti letterari. 

2. " Poesie ch’ebbero origine da traduzioni italiane 
d’un episodio delle Metamorfosi d'Ovidio. 

3. " Liriche d’imitazione Pindarica e in generale scrit- 
ture encomiastiche del giuoco. 

4. ° Poesie e prose satiriche o burlesche che fanno del 
giuoco argomento della propria trattazione o traggono 
da esso elementi intrinseci d'arte o solo elementi estrin- 
seci rappresentativi. 


— 93 — 


Cominciamo dunque dai trattati, anche perchè essi 
ci potranno fornire intorno alle diverse specie di giuoco 
schiarimenti necessari per l’intelligenza degli scrittori. 
Il trattato classico del giuoco della palla è quello di An- 
tonio Scaino da Salò, filosofo non spregevole ai suoi 
tempi, commentatore di Aristotele, di cui pubblicò tra- 
dotta e annotata V Etica a Nicomaco (157-1) (1). Il trat- 
tato, stampato a Venezia dal Giolito nel 1555 (2), ebbe 
origine da un puntìglio avvenuto giocando all’ Ulano 
et eccell.ma Signore il Signor Alfonso (l'Est e prette ipe di 
Ferrara, a cui appunto è dedicato con la più smaccata 
cortigianeria. 

/>t cagione, dice Scaino nella prefazione, che mi ha 
mosso a scrivere la presente opra, nacque da desiderio 
di sodisfare in un ingeniosissimo quesito ad uno dei 
più magnanimi et valorosi prencìpi che hoggkl) habbia 
il secolo nostro, che olirà all'essere da Illustrissimo e 
regni sangue disceso e in que ’ virtuosi modi contino- 
r amen te nodrito, che a pianta s'appartengono, da cui 
frutti oltre all'usato eccellenti s’hanno ad aspettare, 
ù di natura affabile tanto, di maniere cosi alte e tanto 
cortesi, che come potentissima calamita traggono infi- 
niti ad amarlo e servirlo e celebrarlo (3). 

E continua su questo tono con insoffribile adulazione. 
Ma era quello — e non solo quello — il secolo della 
letteratura cortigiana, nè è da meravigliarsi se lo Scaino 
non fa eccezione. Io ho voluto farne rilevar l' esagera- 
zione, per dimostrar quanto impegno e quanto ingegno 
l’autore vi avrà messo per far opera degna del suo si- 
gnore e adeguata alla sua devozione per lui. C’abbia 


(1) Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, Milano, So- 
cietà Italiana dei Classici Italiani, 1824, v. VII, pag. CIO. 

(2) Trattato del giuoco della galla, di Messer Antonio Scaino 
da Salò. In Vinezia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari et fra- 
telli, MDLV. 

(3) Prefazione ai lettori. 


— 94 — 


intanto fatto opera seria e compiuta lo dimostra una 
breve analisi del contenuto di essa. 

Il trattato si divide in tre parti. 

La 1." si compone di 54 capitoli e tratta del modo 
generale del giuoco, della sua ingegnosa disposizione e 
delle leggi elio lo devono regolare. 

La 2." contiene 72 capitoli e, dopo aver diviso il giuoco 
nelle sue diverse specie e stabilito il punto in cui esse 
convergono e quello in cui differiscono, dà precetti ai 
giocatori intorno al modo di fare il giuoco e norme e 
consigli per acquistare in esso valentia e faina. 

La 3." finalmente, più breve delle altre perchè com- 
posta di soli 9 capitoli, studia i salutari effetti dell’e- 
sercizio, dà regole intorno alla scelta ili una forma o 
dell'altra di esso secondo la natura, l'età e le compli- 
cazioni della persona e secondo il tempo e il luogo e 
l'uso del giuoco, terminando col dimostrare il grande 
giovamento che esso arreca. 

Insomma, non v’è forma, non maniera, non regola 
del giuoco che l'autore non abbia esaminata e stabilita; 
non v’è uso, non questione, non astuzia ch’egli non abbia 
considerato, o risolta, o suggerita ; nulla gli sfugge ; 
tratta la materia con rara conoscenza , quindi con pa- 
dronanza, con acume, con metodo rigoroso. Al metodo, 
anzi, egli ci tiene sopratutto; non per nulla egli è am- 
miratore di Aristotele e seguace delle sue dottrine. Per 
conseguenza non solo qua e là fa appello all'autorità 
del grande Stagirita, ch’è per lui veramente il maestro 
di color che sanno (1), e chiede venia colà dove si vede 
costretto ad allontanarsi dai suoi insegnamenti (2); ma i 


0) .Vè noi incero così facile trooeremmo la da al Jilosofarc, 
quando dei sodi et di ci ni liti ri di Aristotele mancassimo i pag. 187). 

(2) Et se (per dire di' un particolare, di cui i dotti potrebbero 
far gran capitate) io paressi ad alcuni non ossercator del me- 
todo d' A ri dolete, eh' insegnò molto tiene che ad ogni trattato si 


procelti del maestro applica in pratica, nella sapienti' di- 
visione e distribuzione della materia, nelle fini sottigliezze 
del ragionamento, in quelle astrazioni e generalizzazioni 
di concetto, in cui ancor si sente l’influenza della non 
spenta dialettica scolastica. E un po' per compiacere al 
principe, come sopra bo detto, un po’ per amore del suo 
soggetto; ma sopratutto per questa tendenza al filoso- 
fare e per una certa qual pretenziosità peripatetica, fau- 
tore cerca, quanto più può, di inalzare la dignità del 
proprio argomento. Per esaltare infatti i reali benefici del 
giuoco egli lo proclama ordinalo ad ottimo e pregevo- 
lissimo fine, si come han da essere latte le arti degne 
e pregiale ad imitazione della natura (1) e ne là da 
cima a fondo, si può dire, la glorificazione. 

I.a monotonia poi della trattazione qua e là varia con 
considerazioni generali, con avvicinamenti inaspettati, 
con conclusioni impensate. Ora vede nel giuoco l’imma- 
gine della nostra vita travagliosa. Et non solamente a 
■me pare che questo di lui (del giuoco) si possa dire: 
ma che ancora chiunque teologicamente volesse con- 
templare, da questo giunco possa prendere norma et 
esempio sopra la vita nostra, potendoci pia altamente 
speculando, considerare, che lo steccalo, dove si giunca, 
chiuso d’ogni intorno da mura, et da sbarre, non è 
altro che questo travagliato mondo, nel quale siamo 
posti noi, che tutti giuncatovi siamo, con, una corda 
posta in mezzo, cioè col freno, et con il termine detta 
temperanza o mediocrità, o per dir meglio della giu- 
stìzia fonte d’ogni bene, nella quale mirando sempre 
con gli occhi fissi, dobbiamo molto ben considerare di 


debba mandar incanti la de/ìnitione della materia, che si tratta, 
Ime indo io, non nella te /mete, ma nella ih", data la dell nàtone 
del giuoco della palla, questo tale si proponga innanzi l’arte della 
musica, con la (piale, s'io non m'inganno, conviene molto la pre- 
sente opera (Prelazione ai lettori). 

(1) Parte I, cap. 1, pag. 11. 


- 06 — 


non mandar In palla troppo alta-, che si soverchierei- 
hono le mura ; non fare i disegni troppo alti e sopra Ir 
forse nostre; nè anco sotto la corda troppo bassi, ter- 
restri e riti; nè trapassare i termini , che a tutti questi 

modi saria fallo et perderebbesi it giuoco ere. (1). 

Dove, oltre la proprietà dell’applicazione, è anche da 
ammirare il felice intreccio del linguaggio proprio col 
figurato. E cosi ancora parla della fortuna, i cui colpi 
devonsi ribattere, e dell’eccellenza del giuoco, che è come 
la pietra rii paragone' por conoscere dal rotto, dai gesti 
e dalle parole rie/ giocatore (come se la e/Jige di se me- 
desimo iti un lucidissimo specchio riguardasse) tulli 
gli effetti intrinsechi, e delle repubbliche, da cui si deve 
tener lontano l’ozio (2). 

E la sua tendenza alle astrazioni e alle imagini si 
rivela anche nella soluzione dell' ingegnosissimo pun- 
tiglio da cui trae origine il suo libro. Nel giuoco della 
palla son tre vittorie: la semplice, la doppia e la tri- 
plice o rabbiosa (3); e, secondo il linguaggio dell'autore, 
il giuoco semplice è disposizione a guadagnar il doppio 
e il doppio è disposizione a guadagnar il rabbioso (4); 
il che è quanto dire nel nostro caso, che per aver la 
vittoria triplice è necessario che l’avversario sia per 
vincere la doppia. E poiché lo spagnuolo (la questione 
è tra un napoletano e uno spagnuolo) non fu mai in 
disposi sione di doppio, il napoletano non può aver gua- 
dagnato il rabbioso. 

Pub ben il napoletano girsene glorioso.... non perciò 
conseguire maggio)' premio di un grado di vittoriu che 
l’ordine del giuoco non comporta. Nè per questo o do- 
lere o meravigliar si deve; chè il sole ornamento di 


(1) Parte I, Proemio. 

(2) Parte I, Proemio. 

(3) Parte I, cap. 2, pag. 18-19. 

(4) Parte I, cap. 15, pag. 50. 


— 97 — 


tutto it mondo, così beilo c così potente pianeta, non 
può coi suoi potentissimi raggi fare che la cera s’in- 
duri, nè il fuoco consumar l’oro, essendo quasi d’ogni 
cosa decoratore; il che proviene non dai sole, non dal 
fuoco, ma da inhabili soggetti, ne' quali operazioni 
loro repugnanti non si possono produrre (1). 

Anzi talvolta la smania del filosofare lo porta a di- 
gressioni inutili. Per dimostrare come stia ben rinchiusa 
la rittoria del giunco delta palla in tre gradi soli, cosi 
ragiona: Fu... terminato il grado della vittoria in tre 
gradi solamente , non per altra cagione, se non perchè 
il numero ternario è numero nobilissimo da Aristotele 
nel I. libro del Cielo som marnante commentato, come 
quello eh 'è il tutto, et è perfetto, traendo in sè il prin- 
cipio, il mezzo et il fine. Per questo si divide et si 
comprende tutta la macchina del mondo in tre termini, 
ne/li duoi Poli, ciò è l’artico, et l'antartico , parti in- 
sieme molto differenti, come altissimi, et profondissimi 
estremi, et nel mesa di esso mondo, detto il centro del- 
l'Universo (2). E così per circa due altre pagine! 

Anche lo stile ha tutte le sue cure. Fin dalle prime 
linee della sua opera egli manifesta il timore di non 
saper lui, non Toscano, trattar bene la lingua toscana. 
Dello stile, havendo noi lettori riguardo alla corretta 
lingua I /toscana, et dell uso proprio et isquisito di 
scelte parole, potrete facilmente non restar sodisfatti ; 
ma considerando poi come io, et non naturale di tale 
lingua, e trattando di materia nuova, non ho potuto 
nè forse dovuto ristringermi tra termini, i quali, la 
difficoltà grande della cosa, molto maggiore anchora 
mi rendessero, sarete contenti, con pati enti orecchi (? ?), 
il tenor della materia, et non delle parole, leggendo, 
giudicare (3). 


(1) Parte I, cap. 16, pag. 54. 

(2) l'arte I, cap. 9, pag. 37. 

(3) Nella dedica ad Alfonso verso la fine. 


— 98 - 


E promette di far del suo meglio, per riuscire, anche 

nello stile e nella forma, il meno biasimevole con 

quei radili, et nini colori che del mio (qualunque si sia) 
artificio panno venire, mi sforzarti questa invenzione 
ornando colorire, dandole quella piti perfetta forma 
che per me si potrà (1). 

Colorisce quindi il suo stile, 1* adorna con immagini 
scelte, l’ abbellisce con peregrine eleganze, lo varia, 
come s’è visto, con digressioni più o meno opportune. 
Ma in questo suo studio continuo, in questa preoccu- 
pazione che non gli dà pace un sol momento, sta appunto 
uno dei suoi difetti principali. Quelle soverchie fioriture, 
quelle preziosità volute, quelle immagini messe li a ogni 
costo, quelle studiate costruzioni inverse a breve andare 
finiscono per tediare; troppo spesso vien voglia di gri- 
dargli di discendere dai trampoli, su cui è salito per 
inalzare il suo soggetto oltre ogni ragione. 

Tuttavia, non ostante questo difetto, non ostante la 
frequente prolissità prodotta dal dividere, suddividere e 
distinguere secondo il metodo aristotelico-scolastico, non 
ostanti certe iperboli di forma e di concetto che pre- 
ludono al non lontano Secentismo, il libro dello Scaino 
per la conoscenza profonda della materia, per la serietà 
e diligenza della trattazione esauriente, por l’ingegnosità 
del porre e risolvere ogni minima questione e ogni 
minimo dubbio, e anche per i pregi non trascurabili della 
forma e della lingua, che risente il benefico influsso 
del seco! d'oro della nostra letteratura, rimane sempre 
il trattato più completo ed eccellente del giuoco della 
palla e si leggerà sempre con piacere discreto e con 
profitto grande. Chi non lo volesse credere a me, lo creda 
al De-Amicis, il quale, nessuno me lo vorrà negare, di 
bello scrivere alcun poco se ne intende (2). 


(1) Parte II, Proemio. 

(2) Gli Azzurri e i /{ossi, Torino, I’. Casanova, Editore, 1807, 
pag. 2G-27. 


L’opuscolo (1) dell’abate F. S. Quadrio intorno alla 
sferistica degli antichi sarebbe appena accennabile, se 
non Cosse del famoso autore della Storia e ragion (Vogai 
poesia. Esso è in forma di lettera indiritta al marchese 
D. Teodoro Alessandro Trivulzio, ed è pieno della solila 
erudizione, che già si trova nei trattatisti anteriori. V’è 
per conseguenza ben poca originalità; solo vi sono qua 
e là ipotesi nuove, alcune delle quali furon da noi accet- 
tatee altre confutate. Notevole è però in lui il grande amore 
che dimostra d’avere al giuoco di cui tratta e la grande 
afflizione nel vederne la decadenza. Decadenza che l’af- 
fligge» non tanto per il giuoco in sè, quanto per gli ei- 
f etti tristi che ne derivano. Il mondo peggiora, le 
malattie si moltiplicano, i corpi in afflizione e per 
dolor si consumano. Ma quando si fatti morbi hanno 
preso potere, e fatta si gran Montala nel mondo, se 
non dopo la dissipatrice de' cattivi umori, la sciogli- 
le ice di tulle le viscosità, la corroborai idee delle membra, 
l’antica, egregia e bell’arte della « sferistica » è stata 
per accidiosa freddezza abbandonata e negletta ? (2). E 
se ne duole oltre modo il buon aitale e se ne lamenta: 
Questa à (la sferistica) che l’oziosità, la pigrizia e le 
piume avendo sbandita, io però con rincresci mento, e 
dolore non tralascio di desiderare e piangere. E solo 
si conforta pensando che a tanti mali che affliggono la 
povera umanità c'è però un rimedio infallibile. Se gli 
uomini ritornassero a praticare la sferistica, se gl’in- 
considerati tra sè riconducessero quel talismano che con 


.( 1 ) Lettera intorno alla sferistica ossia Giuoco della /mila 
degli antichi., al Marchese D. Teodoro Alessandro Trivulzio iu- 
diritta dall aliate Francesco Sa vento Quadrio. Milano, Stamperia 
di A. Agnelli 1751. fc dunque opera senile del Quadrio, il quale 
nel 1751 aveva 83 anni essendo nato nel 1668. 

(2) Pag. 3 e 4. 


— 100 — 


il loro danno han da sò rimosso, anche se al manda 
fasse perduto agni bene, crede l’autore che senza fallo 
si ritroverebbe in quell’arte di g inorare alla palla, che 
sferistica fu dai Greci nomata (1). 

E allora egli con calde parole esorta il marchese 
Trivulzio non solo a introdurre c favorire il dilettevole 
e utilissimo gioco (2); ma a praticarlo lui stesso e farlo 
praticare dalla marchesa sua moglie (3), che egli para- 
gona alla bolla figlia d'Alcinoo. E conchiude: Ed io cosi 
per tutti i riguardi venendo poi nella ■ vostra casa a 
ri scontrar compiutamente la casa rii Alcinoo, potrò 
con tal nuovo esempio altri molti destare a sì nobile 
dilettevole e sano esercizio: onde ritorni il giuoco della 
palla in quell' antica estimazione, della quale fu già 
negli ottimi secoli pacifico possessore : e la quale gli 
sarà in tutti i tempi a ragione dovuta. 

Come si vede il Quadrio è un caldo apologista del giuoco 
della palla: tanto caldo che esagera cosi nel calcolare e 
deplorare i danni della decadenza come neH'esaltaro le 
sue meravigliose virtù. Quindi il suo ci fa Tuffetto d’un 
entusiasmo a freddo; tanto più che da segni certi pos- 
siamo sapere che il giuoco, così diffuso nell’Italia cen- 
trale, non era poi tanto raro nell’Italia settentrionale. 
E questo calore forzato influisce anche sullo stile, un 


(1) Pag. 5. 

(2) Pag. 93. 

(3) Pag. 94. Perchù l'autore vorrebbe veder praticato il giuoco 
della palla anche dalle donne: /*.' volesse r pur elleno, in incrimino 
rii altri giuochi arrischiati, et oziosi, gli antichi giuochi della 
palla riprendere e praticare : che non sarehbono tante in oggi 
obbligate a giacer nei tetti dai superflui e viscosi umori trava- 
gliate e convulse: amaro gratto delta sedentaria e leziosa vita, 
che menano : et per avventura altresì in gualche famiglia non si 
vedrebbono signoreggiar l'indigenza e le brighe, infelicissimi parti 
degli zarosi e vietati giuochi, che la vanagloria di alcuni e l’acidità 
di molti più altri hanno ai nostri tempi introdotti (pag. 92). Ed 
è noto quanto corrotta e oziosa fòsse la vita delle dame alla 
metà del sec. XVIII. 


- 101 — 



po’ enfatico, retorico e studiato. L’opuscolo però del 
Quadrio sarà sempre utile a quanti vorranno apprendere 
in breve gli usi e le forme del giuoco presso gli antichi. 


Alcune poche notizie, che di vari giuochi con la palla 
ci da il cav. Tommaso Rinuccini descrivendo le princi- 
pali usanze dei Fiorentini del suo tempo, non occorre- 
rebbe neppur rilevare, se i pregi della forma, che me- 
ritarono a quest opuscoletto l'onore d' esser registrato 
dalla Crusca tra i testi di lingua, non lo rendessero degno 
d’essere indicato al buon gusto dei lettori. L’ opusco- 
letto ha per titolo Usanze Fiorentine del secolo XVII 
e, pubblicato per la prima volta dal signor Aiazzi nel 
1840 in poche copie non mai messe in vendita, comparve 
veramente al gran pubblico degli studiosi nel giornale 
Il Borghini (1) di Pietro Fanfani, il quale, buon intenditoi 1 2 3 
di cose filologiche, tra le altre ragioni di pubblicarlo, 
confessa d’avere avuto anche quella di far piacere agli 
studiosi di lingua , ai raccoglitori di testi citati dalla 
( r usca (3). Lo Usanze infatti sono scritte con garbo pia- 
cevole e con spontaneità semplice e veramente fiorentina; 
inoltre le notizie, che se ne attingono, sono chiare, pre- 
cise e alcune singolari e curiose, sicché se ne desi- 
dei erebbe quantità maggiore di quella che ce ne fornisco 
la mole esigua del trattateli. I giuochi con la palla, che 
vi troviamo menzionati, sono quelli della palla lesina, 
della pillotta, del maglio, del palloncino, del pallone a 
bracciale e del calcio (3). 

Della prima discorre più a lungo, perchè, dice, è un 
giuoco dismesso e spento (4). A r i si giocava per tutte 


(1) Il Borghini, studi di filosofia e di Lettere Italiane com- 
pilati da Pietro Fanfani. Firenze, stamperia del Monitore To- 
scano, 1863, anno I, marzo, aprile e maggio del 1863. 

(2) Ib., Ai lettori, pag. 199. 

(3) Cap. 10, Giuochi di trattenimento, pag. 241 e se ,r ir 
(41 Ib. pag. 241. 




— 102 — 

Io strade, perche i ragazzi nòbili del vicinato si met- 
tevano insieme doppo al desinare e mandavano al tetto 
pia comodo della loro strada : ma tre tanghi erano più 
frequentai i et erano nella via del Pepe, nella ria del 

Corno e nella ria Benedetta (1) Le palle erano, come 

lincile che ancor si vedevano in uso pochi anni or sono, 
della grandezza d’una piccola pesca o albicocca, fatte 
di pelle di castrone ben seccata e ripiena di borsa (1) 
e, battute con un mestolo d’un braccio circa o poco pia, 
di legname leggero e incartato di carta pecora (1), fi- 
lavano con tanta velocità che narra l’autore d’aver visto, 
quando lui era ragazzo, Pietro Berti ammazzare una. 
rondine che a caso s'incontrò nella palla, alla quale 
lui aveva dato : e segui nella via dei Bardi (1). 

Alla ]>illotta si giocava in Pacione, che avremo ancora 
a nominare, o lungo il muro del convento di S. Marco 
dalla banda delle stalle di S. A. S. (2); ma di questa, 
come anche delle rimanenti forme di giuoco, non dice più 
gran che di notevole: lamenta anche lui, come il Quadrio, 
sebbene con minore insistenza e con minore enfasi re- 
torica, la loro decadenza; e osserva a varie riprese che 
ormai ... pochi sono i gentiluomini che ri si dònno (3). 
L’unica informazione un po' interessante è ancora per 
noi quella che riguarda il giuoco del calcio: il quale 
come antico nella città si procura di mantenere nel 
carnorale (3). Donde appare, che al tempo del Rinuccini 
era ancora in vigore quell’usanza, tutta fiorentina, d’uscir 
negli ultimi di del Carnovale col pallone per darlo ad- 
dosso alle persone per le vie della città e far sospendere 
i traffici e chiuder le botteghe: usanza che noi vedremo 
accennata in una poesia del Lasca e troveremo lamentata 
nella storia del Varchi. 


(1) Ib., pag. 241. 

(2) Ib., pag. 242. 

(3) Ib., pag. 243. 


CAPITOLO III. 


Gruppo li [La letteratura mitologica del giuoco della palla de- 
rivata dall’episodio ovidiano di Giacinto tradotto da Gian 
Ano ni', a Dki.l’Anguii.lara]. Il mito di Giacinto in Ovidio 
e nell Anguili. ara ; Ovidio e le condizioni letterarie del 
sec. XVII; partigiani e avversari della Mitologia (Marino e 
Bracciolini) — Il Marino, il Prrti el’Omzzi. — Il F agutoli. 

Sebbene il disco antico fosse ordinariamente una 
piastra o rotella di metallo o di pietra o di legno, a cui 
si giocava lanciandola alla maggiore altezza e distanza, 
non mancano tuttavia i dotti che opinano che esso fosse 
invece una sfera. Il Suterio, per esempio, nella sua 
dissertazione sopra i giuochi degli antichi, riassumendo 
le varie conclusioni degli eruditi intorno alla forma del 
disco, nelle diverse definizioni che ne dà, una sola volta 
dice: Discus crai rotala quaedam lignea apud Romanos 
(e si noti anche / apud Romanos) instar scali magni 
ponderis (1); tutte le altre volte usa le seguenti espres- 
sioni: Discus fari orbis(2): Volami et discou ut plurima m 
faisse la p idem rotundam e, finalmente, riportando le pa- 


ti) Domiclis Souterii: Palamedes, llb. Ili, De ludis cariis 
(Iraecorum nel Thesaurus Graecarum ariti qui tal nm, contextus 
et designatus a T. Gronorio, v. VII, col. 1098 e segg. 

(2) Ih., col. 1099. 


— 104 — 


role d’uno scrittoi- più antico: Diseus fi' il instar pila,' 
aeneae (1 ). 

Furono indotti da questa qualsiasi somiglianza del 
disco con la palla i più antichi traduttori di Ovidio a 
sostituire nel libro X delle Metamorfosi al giuoco di 
quello il giuoco di questa? oppure dal l'atto che il disco 
al loro tempo non s’usava più e la palla invece s'usava 
più che mai in quel pieno flore del Rinascimento? Forse da 
alcuna di queste ragioni e dall’ultima più che dalle prime; 
forse da altre che sfuggono alla nostra indagine; ma 
latto sta che nei primi traduttori di Ovidio, il giuoco 
del disco diventa un giuoco della palla. Ovidio aveva 
detto : 

Corpora veste levant (Apollo e Giacinto) et succo pinguis olivi 
spleiulescunt latique ineunt certamina (lisci (2). 

E Niccolò degli Augustini (1537) traduce: 

Anche un giorno che sendo in un loco 
ambi spogliati per voler giocare 
ad un lor a quei tempi (f) usato gioco 
che dalla palla si solea chiamare... (3). 

Circa mezzo secolo dopo il Degli Augustini, Gian 
Andrea dell’Anguillaia, nella sua parafrasi delle Meta- 
morfosi, fa la medesima sostituzione della palla a!disco(4); 


(1) Alexand. ab. Alex., Ili, 21. Cfr. inoltre Mercuriale, De 
Ginnastica ete., in loe., cit., lib. Il, cap. XII, De Disco et Halte- 
ribus, col., 572 e segg., e specialmente coll. 573-576, e Jacoiii Uri- 
foli Lucinianensis, In Q. Iloratii Poeticeli commentimi. Ba- 
sitene per Henricum Retri, Mense septombri, MDLV, pag. 1184. 

(2) Metamorfosi , X, vv. 176-177. 

(3) Di Ovidio, Le Metamorfosi tradotte dal latino diligente- 
mente in \olgar verso, con te sue Allegorie, significati ’oni et 
dichiarationi in prosa, ecc., ecc., per Nicolò degli Augustini, 
stampato per Bernardino di Bindoni Milanese correnti gli anni 
del Signore, MDXXXVIII. 

(4) Le Metamorfosi d’OviDio ridotte da Gian Andrea I)al- 
l’Anguillara in ottava rima. Al Cristianissimo Ite di Francia 
Enrico II. Di nuovo dal proprio autore rivedute e corrette. Con 


— 105 — 

e. indugiandosi a descriverò con una corta abbondanza 
di particolari il giuoco di quella, diede occasione a una 
discreta letteratura della sferistica. 

L'episodio in cui avvenne la sostanziale modificazione 
è quello della morte .li Giacinto. Era questi un bellis- 
simo fanciullo di Sparta (1). Apollo l’amava e in sua 
compagnia lieti- giorni trascorreva a Sparla, ora pe- 
scando nell’Eurota, ora cacciando su per lo balze del 
Iaigeto, oblioso di Delfo e poco curante della cetra o 
( elle saette. Ma un triste giorno i due innamorati, de- 
posta la veste e untisi d’olio, giuocano al disco. Lo lancia 
Apollo fino alle nubi; ricade il disco dopo lungo tempo, 
prova d invitta forza congiunta con l’arte. 


1 rotinus imprudens, actus.pie cupidine ludi, 

I oliere I oenarides orbem properabat : .at illuni 
l>ura repercusso subiecit ab aere tellus 
In vultus, Hyacinte, tuos; expall uit aeque 
ac puer, ipse deus collapsosque excipit artus (2). 


E ora lo riscalda, or gli terge la ferita sanguinante, 
or gli prolunga la vita con la virtù delle ben note erbe. 
\ ana ogni cura: la ferita è immedicabile: il bel Giacinto 


le Annotati oni di M. Giuseppe Horologii, con Postille et i/li arao- 
ment, nel principio di ciascun libro di M. Francesco Zucchi. Ve- 
netia appresso .Marc’Antonio Zaltieri, MDXCVIII 

(1) Ovidio lo chiama Andclide.Se il patronimico significhi figlio 
discendente di Annoia, non son tra loro d’accordo gl’interpreti. 

Lo stesso poeta e altri lo chiamano pure Ebalide o Kbalio cioè 
figlio o discendente d’Ebalo od oriundo d’Ebalia, fondata da Elmlo 
Ma siccome Ebalo fu figlio o pronipote di Amicla, forse si deve 
ntendere che Giaciuto fu figlio d’Ebalo e discendente di Amicla 
Gfr Pausània Aaeonw, IH, 3, e III, 19 e III, 6, Apollodoro, 

"‘Ti’. ’ ll,:! ’ 3 e *’ 3 > 3 > * 1 2 (dove però lo confonde con 

Giacinto figlio di Piero e di Clio) ; e Igino fav. 272 e finalmente 
V.rgiuo hn. XI, 69 e Eglog. Ili, 63, con il commento di Servio 
(.Marci StRvn IIonorati, Commentarti, Genevae, apud Stefa- 
num Gamonetum, MDCIIg 

(2) Mei., vv. 182-186. 


— 106 - 


si muore, mentre il Dio sfoga il suo dolore in disperali 
accenti. Finalmente, perchè del diletto fanciullo rimanga 
degna e soave memoria, lo tramuta in flore : 

Kcce cruor, qui l'usus liumi signa verat herbam, 

Desinit esse cruor; tyrioque nitentior ostro 
Flos oritur; formamque capit, quam lilia, si non 
Purpureus color liuic, argenteus esset in illis (1). 

Anzi, l’afflitto Iddio vuol di più: il flore porti per sempre 
sopra di sè la dolente esclamazione del suo dolore e 
Ai! Ai! rimane inscritto sui suoi petali (2). 


(1) Ib., w. 210-213. 

(2) Come Apollo predice a Giacinto ( Metnm ., X, vv. 207-208): 

Tempus et illud erit, quo se fortissimus heros 
Addat in hunc florem folioque legatur eodetn, 

tostochè Aiace Telamonio ebbe sparso il suo sangue, 

... Rùbelactaque sanguine tellus 
Purpureum viridi genuit de cespite llorem, 
ijui prius Oebalio fuerat de vuluere natus: 

Littera communis mediis pueroque viroque 

suscripta est foliis : liaec nominis, illa querelae (Mei. XIII, 

[vv. 394 398). 

Il mito di Giacinto, rimasto famoso anche per le feste che 
in Sparta ogni anno si celebravano in suo onore (annum praelata 
redeunt Hyacintia pompa, Metnm. X, v. 219), ricorre spesso negli 
scrittori classici. Lo ricorda Euripide nella tragedia lìlena dal 
verso 1465 al 1475. Virgilio, già lo vedemmo, ne ha due cenni fug- 
gevoli al verso 63 dell’Egloga III e al 69 del Canto XI de\V Eneide. 
Plinio ricorda la favola di Giacinto e la intreccia con quella di 
Aiace (21-11). Marziale la cesella con la solita maestria in due 
distici: il CI.XIV del lib. XIV: 

Splendida cum volitant Spartani pondera disci, 

Este procul, pueri: sit semel ilio nocens, 

e il CLXXIII del medesimo libro: 

Flectit ab invito inorientia lumina disco 
Oebalius, Phoebi culpa dolorque, puer. 

Presso Luciano (lib. Vili Dialotjld dei morti, n. 14) Apollo 
racconta a Mercurio la disgraziata fine di Giacinto, ch’egli col- 
loca ai Campi Elisi con Xarciso, Leda, Elena e altri famosi per 


— 107 — 


Questa la favola di Giacinto. L’Anguillara, nel para- 
frasarla, è sorpreso talvolta da qualche scrupolo : sosti- 
tuir del tutto la palla al disco, gli par troppa licenza : 
s’appiglia quindi al mezzo termine e, nella sua tradu- 
zione, accanto alla palla, nomina più volte il disco: 

Poi ver la sera innanzi al tempo alquanto 
Che suol col cibo all’uom render conforto 
talvolta il piombo e ’l disco alzavan tanto, 

Che facevano alle nubi oltraggio e torto: 

Talor con la racchetta, ovver col guanto 
Calle di cuoio battean per lor diporto, 

Finché l’ora venia che con le cene 
Brama di ristorar Cavare vene(l). 


insigne bellezza. Ma compare qui una circostanza che vedremo 
t i pernia in altri scrittori posteriori. /Seffiro ò anche lui innamorato 
del bellissimo fanciullo e soffre di vedersi preferito ad Apollo. Quel 
giorno che li vede giocar insieme felici, acceso di gelosia, soffia 
violento dal l'aigeto e spinge il disco contro il capo di Giacinto, 
uccidendolo. 

In un volumetto già appartenuto ad Apostolo Zeno e ora 
nella Marciana di Venezia, che contiene quattordici opuscoli di 
poeti diversi stampati tra il 1612 e il 1615, in un idillio del ca- 
valier Marino (TI rapimento d'Europa e il Testamento Amoroso, 
idilli del signor cav. G. B. Marino, Venetia, Trivisan Bertolotti, 
1612, pag. 9) si legge : 

11 vezzoso Giacinto 
Libro della natura. 

Nei fogli delle foglie, 

Già cancellata dagli antichi lai 
La pietosa scrittura, 

Tutto per man d’amore 
Lineata a caratteri di sangue, 

Espresse queste note in un sorriso: 

Io cedo al tuo bel viso. 

Il mito di Giacinto, naturalisticamente interpretato, sonerebbe 
cosi: Il disco lanciato da Apollo è il disco solare: il giovane 
principe (Giacinto), dal cui sangue nacque il fiore, che sboccia 
in primavera e appassisce d’estate, é immagine della fresca 
vegetazione primaverile, i cui fiori arsi dal raggio estivo chinano 
il capo e muoiono (A. G. Amatucci, ITellas, (il. Laterza, Bari 
1907, v. I, pag. 38, nota I). 

(1) Canto X, Strofa 77. 


r 


— 308 — 


E subito più sotto: 

... Sendo lo Dio nello steccato un giorno 
Per far col disco e la racchetta il gioco... (1). 

E ancora: 

...Ma quel che ha nella caccia alcun vantaggio 
Fa con maggior superbia al disco oltraggio... (2). 

Finalmente il disco ancora una volta compare nel 
ptinto culminante dell'azione, quando appunto si compie 
il fatto lagrimevole del povero fanciullo: 

Mentre il garzon vi va (alla pallaj gli manca un piede 

E nel cader ferir sente la tempia 

Dal disco empio e crudel... (3). 

Ma son queste solo comparse di parata: poiché, pure 
avendo sotto gli occhi la parola disco, noi non pensiamo 
al giuoco antico caro ai robusti efebi, ma alla palla 
e al giuoco che con essa si fa: infatti l’intera descri- 
zione del sito, del modo, delle norme e degli episodi ci 
richiama in mente solo il giuoco della palla. 

Giacinto infatti ha un giuoco da racchetta cinto da 
quattro muri (4); quando si mettono a giocare, maiala 
egli la palla (5). Lo Dio 

^Con l'accorta racchetta a lui la rende (6). 
cosa che non avrebbe potuto fare col disco; poscia 

or l’uno or l’altro il cuoio offende 

E fa ch’ognor sopra la corda vada ; 

Fin ch’un la il tallo o in modo il tondo scaccia, 

Ch’u forza in terra fa segnar la caccia (7); 


(1) I b-. Strofa 79. vv. 1-2. 

(2) Strofa 82. 

(3) Strofa 85. 

(4) Strofa 78. 

(5) Strofa 79 

(6) Strofa 80. 

(7) Strofa 80. 


— 109 — 


che son tutte regole e usi di un giuoco con la palla; 
o più volte ritornano l’espressioni di colpire, battere, 
ilai e, che indicano atti, che col disco non so come si 
poti ebbero lare, lutto insomma concorre a rappreseli - 
tacci una bella partita di palla e il disco non viene in 
scena, se non per dimostrare la sua vanità senza soggetto. 
Non v'è dubbio quindi che l’autore aveva in animo di 
descrivere il giuoco della palla; e se talora gli ritorna 
alla mente l'immagine del disco, un po’ è per riguardo 
al testo, un po' forse anche perchè una pallonata che 
uccida gli par realmente troppo formidabile. Ma la tras- 
formazione d'un gioco nell'altro realmente c’è ed è una 
Prova della troppa libertà usata dall’Anguillara nel tras- 
portar nel nostro idioma le bellezze del capolavoro ovi- 
diano: della qual libertà fu con ragione biasimato. Ep- 
pure la sua, o traduzione o parafrasi, considerata in sè 
indipendentemente dalla fedeltà all’originale, è ricca di 
grandi pregi formali. Uno .lei più notevoli è l’evidenza 
delle descrizioni, che dànno la visione esatta e imme- 
diata anche de! più minuti particolari. Reco come descrive 
l'impegno che i due giocatori ci metton nell’acquistar la 
vittoria : 


Con gran giudizio l’uno e l’altro mira, 

Qual colpo il segno, il caso e’1 loco chiede: 

K l’occhio esperto che al vantaggio aspira, 

Ubbidiente là la mano e il piede : 

Or fa che cresce innanzi, or si ritira 
Con leggiadria, dove il bisogno vede : 

E l’uno e l’altro v’è si bene istrutto, 

Che par che non si mova ed 6 per tutto (1). 

Chi ha un po' di pratica del giuoco può vedere quanto 
vera e precisa sia questa descrizione, che vi mette sot- 
r occhio i minimi atti e gesti e movimenti e sentimenti 
dei giocatori. Si vede che l’autore descrive una cosa 


(1) Strofa 81. 


- 110 - 


che ha egli stesso bene osservala e tutta accolta nel 
pensiero, tanto più che nel testo essa non c'era ed egli 
1’aggiunge del suo. Del resto in tutta la descrizione, 
dalla strofa 78.“ alla 85.“, egli sa segnalare del giuoco e 
norme e usi e regole come persona che n’è buon co- 
noscitore e ama che lo si veda. Se poi a questo pregio 
di buon descrittore, tanto più apprezzabile in quanto 
serve efficacemente a rompere la monotonia di tanti 
episodi tra loro somiglianti, s’aggiungono l’arte finissima 
di intendere le grandi bellezze del poeta latino e svi- 
scerarle e svilupparle e metterle in rilievo con begli 
artifici di ombra e di luce, e l'abilità di addentrarsi nel 
significato di quei prolissi soliloquiie riprodurre la com- 
mozione psichica in essi contenuta, e inoltre ancora 
il ritmo armonioso delle ottave, che riproducono assai 
bene l’onda sonora fluente per i distici ovidiani, si sarai) 
radunati bastanti argomenti per persuadersi che l’An- 
guillara è un vero poeta e cln* le sue Metamorfosi, cosi 
come sono, costituiscono una bella opera d’arte e in- 
sieme anche una piacevolissima lettura. Infatti la sua 
traduzione ebbe al suo tempo un vero successo, in parte 
per i suoi pregi intrinseci, in parte per il grande amore 
che gli uomini del Cinquecento portavano a Ovidio. 

Ognuno ricorda le due correnti che abbiamo detto 
contendersi tutta la vita italiana nelle sue vario mani- 
festazioni dalla decadenza romana ai giorni nostri. Ovidio 
fu il più genuino rappresentante della corrente classico- 
pagana, quale essa si manifesta nei sentimenti, nei gusti 
estetici e letterari, nei principi etico-morali verso l'ul- 
timo periodo del Rinascimento e nel primo Secentismo. 
Il Rinascimento nella 2." metà del secolo XVI comincia 
a mostrare i segni dello svigorimento e della decadenza. 
Alla rigogliosa e feconda vitalità succede l’arida e stanca 
vecchiaia. Ai sani principi artistici e letterari, che avevan 
creato i grandi capolavori della fine del secolo XV e del 
principio del XVI, si sostituirono i principi d’un este- 
tismo formale e accademico, che alla inspirazione viva 


- Ili - 


e spontanea del sentimento faceva preferire la ricerca 
faticosa di peregrine raffinatezze e le concezioni strane 
e forzate della fantasia sovreccitata; alle bellezze sem- 
plici e naturali, gli ornamenti sfarzosi e raffinati. E anche 
in fatto di morale le coscienze subirono una trasforma- 
zione; non migliorarono, masi modificarono. La reazione 
cattolica, concretatasi e rafforzatasi nel concilio di Trento, 
fece ben presto sentire i suoi effetti. Il vizio, prima li- 
bero, petulante e ostentato, si fece più timido, più guar- 
dingo, piu velato: cessò d’esser sfacciato e grossolano 
ma si diffuse e raffinò. Allora l’Ariosto non avrebbe più 
potuto scrivere il canto XXVIII del suo poema, ma il 
l'asso potè scrivere ancora il canto d’Armida; potevano 
non piu garbare le sguaiate e ridandone oscenità del 
Da Bibbiena e dell’Aretino, ma la voluttà fina e vene- 
fica potè costituire la maggior attrattiva dei generi let- 
terari allora piu in voga, da quelli del Marino a quelli 
del Preti. 

Date queste condizioni d’animo e d’intelletto, nessun 
poeta antico poteva piacere di più di Ovidio, arbitro di 
ogni eleganza, signor sovrano d’ogni miglior bellezza di 
forma, mago meraviglioso che profuse a piene mani nei 
suoi scritti tesori di immagini, di eleganza e di orna- 
menti. (ili spiriti attratti dallo splendore delle mirabili 
bellezze accumulate nelle sue opere, cullati dalla musica 
continua del verso armoniosissimo, s’indugiavan volen- 
tieri a respirare quell’atmosfera viziata, piena d’erotismo 
sensuale e romantico, la quale era a un tempo incentivo 
e soddisfacimento delle nuove tendenze alla mollezza e 
alla corruzione. S’aggiunga a questo che le opere d’Ovidio 
erano la miniera inesauribile, donde si potevan trarre, 
ornati di bellissima veste, quei miti clic fornirono ma- 
teriale abbondantissimo alla letteratura della seconda 
metà del 1500. 

Così si può spiegare perchè Ovidio sia stato il poeta 
antico più Ietto, studiato, tradotto nel tardo Rinasci- 
mento e poi in tutto il Seicento. Le sole Metamorfosi 


— 112 - 


ebbero nel secolo XVI l'onore di tre traduzioni, oltre a 
quella doll’Anguillara; e dalle Metaformosi trassero ori- 
gine quei poemetti mitologici che deliziarono i lettori 
italiani giù giù tino aH'ultimo Secentismo. Nè il Cavalier 
G. B. Marino, il capo riconosciuto di questa scuola let- 
teraria, il glorioso principe delle Thoscane muse e vi- 
cereggente d’ Apollo ni mondo..., come l’ebbe a chiamare 
un contemporaneo (1), si sottrae all’imitazione d’Ovidio: 
anzi la favorisce col suo autorevole esempio. Poiché il 
Marino attinge anche altronde, da tutti i poeti antichi 
e specialmente dai decadenti di Grecia e di Roma: ma 
più trae da Ovidio con cui aveva affinità d’indole, d’in- 
gegno e di sentimenti. Di Ovidio infatti, e in particolar 
modo delle Metamorfosi, sono in gran parte quei miti 
ed episodi e leggende antiche, che entrano a formare 
il suo poema dell’.lrfone; tra gli altri ampiamente svolto 
quello di Giacinto. 

Ma la corrente medio-evale, che già ci è occorso di 
nominare, rinvigoritasi sotto l’influsso della reazione 
cattolica, non tardò a levarsi, non solo contro la corru- 
zione dei costumi diffusasi nel tempo del Rinascimento 
e forse per opera di esso, ma ancora contro i principi 
estetici e morali che informarono tutta l’arte che da 
quello era nata; e con maggior furore diresse i suoi strali 
contro il contenuto classico della letteratura e special- 
mente contro la mitologia, sia perchè era del pagane- 
simo antico la parte più genuina e vitale, e nell'arte e 
nella letteratura la più copiosa e appariscente, sia anche 
perchè veniva a offendere più direttamente la nuova 
coscienza religiosa fattasi più timorata e sensibile. Le 
polemiche contro la mitologia si fecero accanite in prin- 
cipio del Seicento, scendendo in campo gli avversari di 
essa, sebbene con tanta minor convinzione e tanta minore 
risolutezza, in nome di quegli stessi ideali e su per giù 


(1) Enea uegli Ohizzi, Poesie liriche, Ferrara, Maresti, 1670, 
pag. 120. 


- 113 — 


con quegli stessi argomenti, per i quali e con i quali due 
secoli dopo i Romantici battaglieranno contro i Classicisti. 
Ma troppa bellezza di poesia avevano in sè le finzioni 
antiche, troppa affascinante seduzione esercitavano su 
quegli spiriti imbevuti dei principi e degli ideali classici, 
troppo comodi erano anche tutti quei soggetti e quei 
mezzi d’arte — argomenti, concetti, immagini, elocu- 
zioni, ecc., ecc. — che i miti potevano offrire, perchè vi si 
potesse e volesse rinunziare. Successe allora che, mentre 
in teoria i miti antichi erano universalmente condannati 
in nome della religione e della morale, ben pochi in 
pratica si sottraevano al fascino di essi e quasi tutti, 
chi più chi meno, vi ricorrevano come a elementi d’arte 
di cui non sapevan fare a meno, giustificandosi poi ai 
propri occhi e Scolpandosi presso gli altri col mezzo 
termine e coll'ipocrisia (1). 


(1) Storia letteraria d' Italia scritta da una società di profes- 
sori- Antonio Bulloni, Il Seicento, cap. I, La lirica di gusto 
classico nella prima metà del seicento, pag. 21 e segg. 

Da queste incoerenze pochi poeti sono immuni e quelli che 
lo sono, più che poeti, sono moralisti e sermoneggiatoci. Ma il 
Marino tutti li trapassa nella ipocrisia e vorrà che un buon prete 
ricerchi l’allegoria morale religiosa nelle sue concezioni pagane 
e lascive. Già altri prima del Marino aveva interpretato allego- 
ricamente le favole antiche. Le Metamorfosi dell’Augustini erano 
state da lui stesso spiegate con le sue allegorie, signifìcationi et 
dichiaralioni... in prosa (vedi titolo dell’edizione sopra citata). 
Ma queste si riducevano più che altro a semplici parafrasi pro- 
sastiche. M. Giuseppe llorologii annota le Metamorfosi dell’An- 
guillara. Cosi è da lui commentato il mito di Giacinto: 

Giacinto trasformato nel fiore del suo nome da Apollo ci fa 
cedere che la virtù del sole che si rà compartendo nei semplici 
la mattina quando si rallegrano cedendolo comparire, come quello 
che con benignità sua rà purgando dalla soverchia umidità della 
notte, dece esser colta in tempo della s’ia giovinezza, che è che 
non la sia nè troppo morbida per la soverchia umidità nè 
troppo asciutta per il soverchio ardore dai raggi de! sole : colta 
dunque a tempo, si trasforma in fiore che non è altro che quella 

* 


— 114 - 


Quell’osci Ilare tra le due correnti che si contendevano 
il campo letterario, è appunto uno dei fatti, in cui si 
manifesta la coscienza secentistica, ibrida, superficiale, 
fiacca, irresoluta: non è rumor delle belle favole antiche 
che induce gli uomini del Seicento a fare uno strappo 
ai biro principi etico religiosi, come non è l’amor di 
questi principi che gli fan condannare le favole antiche: 
li spinge a queste incoerenze il non aver ben saldo nel- 
l’animo nè l'uno nè l'altro sentimento. A dimostrare in- 
fatti che non si avesse in quel tempo per la mitologia 
nessuna riverenza e che essa era tenuta in considerazione 
solo in quanto offriva un contenuto e un mezzo d'arte 
comodo e difficilmente sostituibile, stanno i poemi eroi- 
comici e giocosi e le rime burlesche; i quali viceversa 
nè in morale sono così austeri e pudibondi nè in religione 
così fervidi e convinti, come si sarebbe potuto pretendere 
da chi veniva a opporsi tanto decisamente alla corrente 
classica. 

Ad ogni modo è certo che gli avversari più coerenti, 
accaniti e terribili contro i bellissimi e bizzarri numi 
della mitologia furono gli autori eroicomici giocosi e 
burleschi. I quali gli Dei e le Dee in ogni peggior foggia 
travestendo e camuffando e i loro piacevoli e poetici 


parte più purgata, più nobile e più atta a operare e tare effetti mi- 
racoloni intorno la sanità, ette è come un tiare (Edizione cit. An- 
notazioni ni libro X, pag. 190). 

L’interpretazione è come si vede, naturale e leggermente 
morale. Ma ecco come interpreta don Lorenzo Scoto i miti che 
formano il contenuto del canto XIX deir.4tfone. Le /arate <h 
Giacinto, di Pampino , d’ Acide, di Carpo, di Leandro, d'Achille, 
et d' Adone stesso, morti nella più fresca età per fortunosi ac- 
cidenti et trasformali per lo più infiori e in altre sostarne fra- 
pili, son poste o per significare naturalmente V (‘(Tetto et le qualità 
di quelle cose, che son raffigurate in essi o per esprimere mo- 
ralmente la vanità della gioventù et la brevità della bellezza 
(Marino, Adone, ed. cit., pag. 478). Morale assai tempestiva in 
mezzo alle lascivie ond’é zeppo il poema ! ! 


— 115 — 


miti parodiando e burlando, li ricopersero di ridicolo e 
concorsero a spogliarli di tutta quella riverenza e poesia, 
onde Fanior di Grecia e di Roma li aveva circondati. 
E primo fra tutti Francesco Bracciolini. Il quale, pensato 
esser dovere che si deridano i favolosi , e falsi Dei, e 
mostrimi gli errori loro, e del volgo, o che gli crede 
o che di /or fa conto, o che pur gli nomina , affinchè, 

mas/ rondo al viro rii ratte, le lascivie, le stolli zie, 

te rapacità, le buffonerie, e l’empietà loro, imparino 
le stolte genti a non fasciarsi piò nè sedurre nè in- 
gannare, ed a schernir più tosto Venere, Marte, 

Giove, che cosi si conviene, e non tenerli più in nessun 
conto, nè pur nominarli (1), muove contro di loro flora 
battaglia, assaltandoli con l'arma formidabile del ridicolo, 
la loro figura, i loro atti, le loro gesta, i loro fasti gio- 
cosamente parodiando in quel suo poema che s’intitola 
Lo scherno degli Dei (2). 

Il suo materiale, il Bracciolini lo trae dagli scrittori 
antichi e specialmente dalle Metamorfosi di Ovidio. E 
poiché il mito di Giacinto era, come vedemmo, assai 
diffuso ai suoi tempi (3) ed è realmente uno dei più im- 
morali, e assai si prestava allo scherno il fatto di un 
Dio che discende a giocare alla palla con un fanciullo 
per certi suoi fini innominabili, egli lo sottopone alla 
sferza del suo ridicolo e riesce a farne una satira ame- 
nissima. Così due poeti, assai diversi tra loro per tem- 
peramento poetico, per il gemere letterario trattato, per 


(1) Lo scherno degli Dei, Prefazione, a pag. XXVIII dell’edi- 
zione sottocitata. 

(2) Francesco Bracciolini, Lo scherno degli Dei, Mdano, 
Società tipografica dei classici italiani, 1804. 

(8) li come diffuso nella letteratura, cosi anche nell’arte. Il 
Uomenichino (Domenico Zampieri) dipinse un quadro in cui si 
vede Giacinto morente. Una pietra incisa del Museo d’Orleans 
rappresenta la metamorfosi di Giacinto nel fiore che porta il suo 
nome. 


— 116 - 

l’essenza e il modo stesso dell’arte loro e, più forse, per 
lo scopo di essa, il Marino e il Bracciolini, derivano 
entrambi il medesimo episodio mitologico dalle Meta- 
morfosi passate attraverso alla riduzione delPAnguillara; 
anzi tutti e due traggono da questo motivi e forme d’arte: 
e l’uno anche ne trae dall’altro. Non sarà fuor di pro- 
posito esaminare il modo diverso con cui i due poeti 
trattano il comune argomento. Accogliendo l’episodio 
nel loro poema, essi lo adattano naturalmente allo svol- 
gimento di esso. Il poema del Marino ormai volge al 
suo fine: Adone è morto; Venere piange e s’aggira di- 
sperata per il vedovo palazzo (1); 

Et ecco a consolar le doglie amare 
Che le fan dei begl’occhi umidi i lampi 
Vengon Febo dal ciel, 'Peti dal mare 
Bacco dai colli, Cerere dai campi. 

E Apollo per confortarla (solatili in miseris...), narra 
la disgraziata (ine del suo amatissimo Giacinto. E questo 
tenue filo lega l’episodio al poema del Marino: più solido 
e consistente é invece il legame che lo concatena con 
quello del Braeciolini. L’argomento principale di questo 
son gli amori di Venere e di Marte: ma essi non tolgono 
che la volubile Dea, atteggiata a vera sgualdrinella, s’in- 
capricci anche di altri. Ella infatti 

... al pastorello Anchise 
Volge lo sguardo e se ne infiamma il core 12): 

ma quando gli si vuole avvicinare, la fugge egli, timido 
e disdegnoso; e poiché la Dea n’è disperata, la madre 
di lui, Drusilla, l’informa ch’essa potrà adescare col canto 
il giovanetto, il quale per gl’insegnamenti del suo pre- 
cettore Tamiri, autor di certo poema che parla di Giganti 
e di Dei, contrasse per la poesia una vera passione, la 
quale potrà servire d’irresistibile richiamo (3). 


(1) Adone , XIX, strofe I, XII. 

(2) Canto XII, argomento. 

(3) Cnnto XII. 


— m - 


Per trarre Anchise all’amorose voglie 
Venere il canto a dolce suono accorda (1) 

e canta, tra i vari disgraziati amori di Apollo, quello 
per Giacinto, nei lacci del quale lo gettò Cupido, perchè 
il biondo Dio, inesperto arciere, volle con lui gareggiare 
nel trar d’arco; onde Amore — cosi entra l’episodio nello 
svolgimento organico del poema — grato alle lodi della 
madre, saetta Anchise... e la cosa è fatta (2). 

Il fondo e lo svolgimento dell’episodio di Giacinto, 
conte anche le circostanze principali di esso, rimangono 
dunque identici nei poemi del Marino e del Bracciolini; 
ma un’analisi minuta e comparata dei due poeti e delle 
fonti, ond’ hanno attinto, dimostrerà che quest’ultimo, 
ingegno più originale, fa più sua la materia e muta di 
piu i particolari dell’azione: l’autor àe\Y Adone invece 
non ci mette nulla di suo, ma prende un po’ da tutti, 
dal Bracciolini, daH’Anguillara, da Ovidio, — quel poco 
che il traduttore ha omesso — e anche da altri. Nel- 
V Adone Apollo comincia ad accusar se stesso (3), preci- 
samente come in Ovidio: ego su>n (ibi funeris auctor (4), 
benché in entrambi subito soggiunga che il suo fu errore 
involontario; poi continua con la descrizione della bel- 
lezza di Giacinto. In Ovidio la descrizione non c’è: ma 
c'è nell’AnguilIara, appena accennata con due versi: 

Nè piè vago il pennel l’avria dipinto 
Nè fatto lo scalpel più bello in marmi (5), 

che il Marino subito ripete: 

Scultor in marmo ovver pittor in carta 
Di formar non si vanti un si bel viso (6). 


(1) Canto XIII, argomento. 

(2) Indico con l’iniziale maiuscola il nome dell’autore ; con 
il numero romano il Canto; con l’arabico la Strofa. XIII, 10-51. 

(3) M., 25. 

(4) 0., v. 199. 

(5) A., 69. 

(6) M., 26. 


— 118 — 


Ma come posso» bastare due tocchi così parchi alla 
sua smania di amplificare? Ed egli allora si rivolge al 
Bracciolini e prende in imprestilo da lui nuovi tratti e 
colori, che poi allarga e stempera a sua voglia. In <j ue- 
st’ultimo, si sa, la descrizione prende carattere scher- 
zevole da cima a fonilo. Ridicolo è subito il modo con 
cui Natura forma il bel fanciullo con il concorso delle 
Grazie, che le portano i due colori (li ligustri e di rose 
negli alberelli e poi runa fila oro fino e legger per far 
capelli; C altra /arnia ararlo indiano per far diti can- 
didi e belli; la terza pesca nel mar coralli eletti a 
colorir i due ì libretti (1). Da tutto questo tramestìo 
delle Grazie e di Natura per formare il fanciullo, sgorga 
certamente spontaneo il riso: ma quando vediamo il 
Marino non solo prender le mosse di qui per compir 
la descrizione del suo Giacinto, ma togliere ancor di peso 
una frase intiera, e la più strana, per incastonarla nel 
suo ritratto (l’oro dei crespi crini dalle Grazie filato 
[Marino]; e arena filato oro fino e legger per far capelli 
[Bracciolini]); ci vie» fatto di domandare s’ egli aveva 
il gusto cosi pervertito da non capire che quei versi erano 
una satira dello stile letterario dei tempi, oppure se il 
Bracciolini, per insufficienza d’arte, non seppe dare alla 
parodia un risalto bastante a far sì che il senso reale 
si distaccasse netto dal figurato. 

Ma tornando alla nostra analisi, così bello com’è e 
anche così forte e destro nell’armi (2), Giacinto innamora 
Apollo, il quale abbandona per lui non solo Delfo in 
Ovidio (3), e Delfo e il suo carro in cielo nell’Anguil- 
lara (4); ma anche il Lauro e il Cipresso e Leueothoe 
e Clitia e gli adorati altari di Delfo e le vittime di Deio 


(D B„ 26. 

(2) A., 70; M., 28. 

(3) 0., vv. 67-68. 

(4) A., 73-74. 


— 119 — 


e 7 fren dei suoi destrier fulgidi e chiari, nel Marino (1). 
E a Sparta e nei suoi dintorni ameni, l’ innamorato 
Apollo passa con il bel Giacinto giorni beati. Il giovane 
ora sale in groppa ai cigni del Dio, ora al cavallo alato 
di lui e visita non solo tutta la Laconia, ma gli ò con- 
cesso : 

talhora arrivar lieve e sublime 

Del bel Parnaso a le spedite cime (2). 

E sul Parnaso, nella sua spelonca raccolti, Apollo in- 
segna al giovane a cantar sulla cetra (3) e talvolta a 
tender l’arco, quantunque già vi fosse esperto (4) ; ma 
Ira tutti i diletti il più continuo e principale era quello 
di giocare alla palla (5). In Ovidio, Apollo e Giacinto 
cacciano (6) solo, pescano (7) e giuocano(8): nell’Anguil- 
lara già viaggiano a cercar d'Europa il lito e Giacinto 
tratta, ma inadeguatamente, il plettro e l’arco (9): nel 
Marino fanno tutto questo che s’è detto; nel Bracciolini 
non fanno nulla di tutto questo, se non il giuoco. Comicis- 
simo ò in lui il modo con cui Apollo avvicina Giacinto e lo 
lusinga a venir con lui; tanto più comico, in quanto che 
fu evidentemente suggerito all’autore dal giuoco stesso 
della palla, che è trastullo assai comune trai fanciulli, e 
accenna a una certa monelleria non rara tra di essi. 
Sta dunque in vedetta l’innamorato Iddio, e, visto il gio- 
vane avviarsi alla scuola, se gli accosta e, come un mo- 
nello qualsiasi d’oggidì, Io invita a marinar la scuola( 10). 
Alla scuola, gli dice, manca ancor sicuramente più di 


(1) M., 30-31. 

(2) M., 34. 

(3) M., 35. 

(4) M., 36. 

(6) M„ 36. 

(6) 0., v. 173. 

17 ) 0., v. 172. 

(8) 0., vv. 175 e segg. 

(9) A., 75. 

(10) B., 28. 


— 120 — 


un’ora (1); avrem tempo a divertirci ancora un po': del 
resto 

avete una catasta 

Di libri voi nella sacchetta accolta: 

K che studiar bisogna autor cotanti ? 

Muoiono i dotti e muoion gli ignoranti: 

E con questo studiar, debole e frale 
Divieti la forza e la complessione. 

Bisogna esercitarsi, che fa male 
Questo non dimenar delle persone. 

Vedete l'acqua ove si ferma eguale 
Subito tende alla corruzione : 
lo m’esercito sempre quando posso 
A palla, a palla maglio, a pallon grosso. 

Se per questa vietta entrar vogliamo, 

Non molti passi, al gioco della corda 
Merrovvi (2). 

A tali lusinghe e a tali consigli, dati con tanta gra- 
vità, coinè resistere? Giacinto cedo e vanno al giuoco 
e cominciano a palleggiare. Cosi finisce la giocosa cir- 
costanza dell’invito di quello sbarazzino d’Apollo e la 
narrazione si riaccosta a quelle delTAnguillara e del 
Marino. In tutti e tre dunque Apollo e Giacinto son nello 
sferisterio pronti a giocare. 

Lo sferisterio rieU’Anguillara è di Giacinto (3); nel Ma- 
rino non è determinato di chi sia; nel Bracciolini è di 
un pallonaio di sua conoscenza. 

Ed ecco incontro a lor mastro Beltramo 
Che ricuce le palle e le rincuoia : 

Porta a ciascuno una racchetta e presto 
Leva il mantel da dosso a quello e a questo (4); 

dove Tesser introdotte cose reali in finzioni della fan- 
tasia o mescolati personaggi mitologici con persone note 


(1) B., 29. 

(2) B., 30-32 

(3) A., 78. 

(4) B., 31. 


— 121 — 


e magari con tipi strani e originali, come forse era 
mastro Beltramo, è d'una comicità irresistibile. 

E continua il Bracciolini : 

Ma poiché palleggiato ebber alquanto, 

Giochiam qualche mercé, dinianila Apollo; 

Giochiam, dategli, e tl Sfibbiando il manto 
In un momento aperselo e spogliollo; 

K rimaso in camicia è bianco tanto, 

Le braccia e il petto e ’l delicato collo, 

Che non sai se la carne che rivela 
Dentro il candido liti, sia carne o tela (1). 

Abbiamo (pii due particolari che non si trovano nè 
in Ovidio nè nel suo traduttore, ma che non mancano 
nel Marino; e soli da lui espressi in guisa da non lasciar 
dubbio ch’egli innanzi a sè aveva i versi del Bracciolini, 
quando componeva i suoi. La scommessa è indicata dal 
Bracciolini con soli due versi; dal Marino con quattro; 
eppure in si breve giro di parole abbiamo un processo 
di svolgimento identico: in entrambi i due giocatori 
prima fanno alquante battute per celia : Ma poiché pai 
leggiato ebbero alquanto (Bracciolini) (2), Trattienisi in 
prima a palleggiar un poco (Marino) (3); e poi s’ accor- 
dano alla partita: Giochiam qualche mercè (Bracciolini) (4), 
Preposto un premio (Marino) (5). 

Lo svestirsi di Giacinto è poi descritto dal Marino 
in questo modo: 

Onde deposto un suo legger farsetto 
Indosso si lasciò semplice e schietto 
Sol dell’ultima spoglia il bianco lino 
E mi scopri del delicato petto 
Il polito candor alabastrino; 

Ma dal mio cor assai più forte e greve 
Crescea la fiamma in risguardar la neve (6). 


(1) B., 34. 

(2) IL, 34. 

(3) M., 39. 

(4) B., 34. 

(5) M„ 39. 

(6) M., 40. 


— 122 — 


Oltre le somiglianze esteriori evidentissime tra questa 
descrizione e quella del Bracciolini (delicato petto M. — 
il petto e il delicato collo B. (1); farsetto semplice e 
schietto M. — Buricco del color tinto (2); il color bianco 
che campeggia nell'ano e nell’altra pittura, in caria 
guisa stemperato) (3), spira ancora nelle due strofe quel 
soffio di impurità lasciva, che è caratteristico di tutta 
la letteratura mitologica e idillica di quel tempo. E se 
la presenza di quell’erotismo malsano non fa specie nel 
Marino, che è il capo riconosciuto di quella letteratura, 
meraviglia invece nel Bracciolini che con tanta intrepi- 
dezza e furore discendeva in campo contro le lascivie 
dei falsi Dei. E ci viene in capo di domandarci se non 
seppe, pure avendone intenzione, con un'opportuna pa- 
rodia della forma o giocando destramente sul sentimento, 
castigare ridendo il condannevole costume; oppure se, 
troppo ligio al gusto letterario dei tempi, non potè o 
non volle sottrarsi a quel sensualismo impuro, che pur 
si propone di combattere. Ad ogni modo anche in questo 
le due strofe si rassomigliano si da non lasciar dubbio 
che l’una derivi dall’altra. 

La partita intanto si è impegnata tra i due gioca- 
tori. Essa si svolge da principio in modo eguale nei tre 
poeti. Lasciato da parte il comico paragone che il Brac- 
ciolini fa dei due snelli giocatori, qua e là trascorrenti 
per le necessità del giuoco, con le rane saltellanti sulle 
rive dei fiumicelli e le lucertole sguiscianti per le forre (4), 
in tutti e tre (5) noi troviamo i medesimi atti e moti e 
salti distinti e tratteggiati dalla medesima congiunzione 
disgiuntiva (or o talor), che ricorda certi sonetti di cui 
avremo a parlare del Preti e dell’Obizi, i quali fermano 

(1) B., 34. 

(2) B., 33. 

(3) B., 34. 

(4) B., 35. 

(5) A., 81-82; M., 43-44: B., 36. 


— 123 — 


appunto in tocchi tuggevoli gli stessi atti e movimenti. 
Bisogna però dire che l’uniforme monotonia di <|iieste 
descrizioni è prodotta dalla natura stessa dell’argomento 
che non consento grande varietà. Ci sono inoltre in tutti 
e tre e le cacce (1) e la corda (2) e la racchetta (3) e 
il tetto (-1) (appena indicato con una perifrasi dall’ An- 
guillara nella descrizione dello sferisterio di Giacinto; 
onorato di una bella descrizione e diventato accessorio 
utile nel Marino; finito ingrediente necessario nel Brac- 
ciolini); ci sono, insieme con gli sforzi, le astuzie e le 
finzioni (5) per vincere, implicite nell’ Anguillara, più 
svolte nel Bracciolini, diluitissime, con aggiunte di scambi 
di sito e di battute, nel Marino, secondo il suo costume. 

Ma quando, infervoratosi il giuoco e accresciuto nei 
due avversari l’accanimento, si prepara la dolorosa ca- 
tastrofe, il Marino s’accosta aH’Anguillara, e il Braccio- 
lini s allontana da entrambi, per non avvicinarglisi più 
se non in tratti fuggevoli. 

In quel punto, in cui vedemmo rAnguillara, forse 
Iter scrupolo di traduttore forse per qualche altro mo- 
tivo, insieme mescolare e disco e palla, il Marino, o per 
amor di amplificare o per desiderio di sollevare il sog- 
getto a dignità di poema o per imprecisione di disegno 
derivata da un imperfetta conoscenza del giuoco, fa la 
stessa cosa, contraddicendosi però più apertamente con 
il soverchio caricar le tinte. Agli inizi del giuoco già 
aveva detto : 

Il più continuo e principal diletto 

Era giocar con la racchetta e il disco (6) , 


(1) A., 82; M., 46; B., 48-49. 

(2) A., 86; AI., 44; B., 38. 

(3) A., 82; M., 44 ; B., 32. 

(4) A., 78 ; M., 44 ; B., 38. 

(5) A., 81; AI.. 45-46-47; B., 37. 

(6) M., 36. 


— 124 - 


dove ancor disco si poteva intendere per sfera in ge- 
nere e quindi 'palla. Ma avviata la partita, presto com- 
pare in giuoco un disco vero e proprio, di pesante metallo, 
com'erano per lo più i dischi antichi: 

Quand’ecco il crudo disco (oimà) s'appresta 
a far che sia la pugna alfin decisa, 
ch’è di metallo ben massiccio e tondo 
quasi un paleo di smisurato pondo (1). 

Dunque non v’è più dubbio: ora che la catastrofe si 
avvicina è necessario che la sfera, che prima si colpiva 
con fragile racchetta, 

ch’entro il curvo legno 

Tesse in spessi cancelli attorte sete 
E da le tese o ben tirate fila 
Fa percossa lontan balzar la pila (2), 

e che è 

La rete, che di corde ha la treccierà (3), 

e 

Latte la pelle, che di vento è pregna (4) ; 
quella sfera che prima è l'enfiato cuoio (5), il quale 
anche 

Per lo tetto talhor vola lontano (6), 

è necessario che diventi un disco, anzi un volubil 
ferro (7) e un un bronzo grave (8), affinchè il colpo, 
ond’è il fanciul percosso, sia veramente mortale. 

Naturalmente da questa confusione derivano contrad- 
dizioni e incongruenze gravi in tutta la narrazione. Ecco 


(1) M., 47. 

(2) M., 38. 

(3) M., 42. 

(4) M., 42. 

(5) M., 44. 

(6) M., 44. 
(7> M., 51. 
(8) M., 55. 


— 125 — 


le ottave caratteristiche in cui il Marino descrive il giuoco 
l'atto da principio con palla e racchetta: 

La rete che ili corde ha la treccierà, 

Batte la pelle, che di vento è pregna, 

E con la gamba e con la man leggiera 
Di seguirla e raccorla ognun s’ingegna, 

Qual destra è delle due più destra arciera 
Vince e il numero conta e il consegna, 

S’avviene che non la investa o che la faccia 
Nella lune incontrar, perde la caccia. 

Somiglia il gioco, ond'io con lui combatto, 

Di duo mastri da scherma accorto assalto, 

Hor va per dritto, hor di rovescio il tratto 
Hor di porta, hor di balzo, hor basso, hor’alto 
Hor il colpo che vien rapido e ratto, 

S’incontra in aria et hor s’aspetta il salto. 

Mor si trincia la palla, et hor caduta 
Tra gli angoli del muro è ribattuta. 

Hor quinci, hor quindi et hor veloce, hor piano 
L’enfiato cuoio si saetta e scocca. 

Per lo tetto talhor vola lontano, 

Talhor rade la corda e non la tocca : 

K regolato da maestra mano 
Nè serpe per lo suol, nè si rimbocca 
Tosto ch’urtato vien da quella banda 
Si rimette da questa e si rimanda (1). 

Dunque noi abbiamo innanzi un vero giuoco con la 
palla, descritto con tale lusso di particolari, che allontana 
dalla nostra niente ogni idea del disco e del modo con 
cui si giocava. E se ancor aggiungessimo le astutie 
finte inaspettate e noce (2) e la flagellata e travagliata 
palla (3) e le carde segnate (d) e il cambiar di sito (5) 
e il pugno (6), ogni minimo dubbio sarebbe rimosso. 


(1) M., 12-4-1. 

(2) M., 45. 

(3) M., 45. 

(4) M., 46. 

(5) M., 46. 

(6) M., 46. 


- 126 — 


Ma tutto a un tratto, (lue strofe più giù, ecco die 
Toglie il figlio d’Amicla il vasto peso 

L'alza a fatica, altin. poiché l’ha preso. 

Le braccia allenta e il turbine veloce 
Segue con la persona e con la voce (1). 

E siamo nel disco e ci rimaniamo. Quando questo 
giunge ad Apollo, egli prende mille precauzioni: non lo 
solleva e rota, prima di averlo ben esaminato (2) ; poi 
guarda bene intorno l’arena e frega la mano sulla sabbia 
e si atteggia comodamente (3) e, quando alfin s’accinge 
a scagliarlo, 

Infra la base e ’l cuspite l’afferro 
E fortemente ad ambe man lo stringo; 

Con gran prestezza il pugno indi disserro, 

E <[uel colpo funesto avvento e spingo, 

Che finché sian del Ciel salde le tempre 
Eia memorando e lagrimabil sempre (4). 

È un discobolo insomma che noi abbiamo sottocchio* 
e se nulla qui vi è clic ci conduca in mente l’atteggia- 
mento della famosa statua greca, gli è forse perchè 
l’autore, per un’inesatta e oscura conoscenza del giuoco, 
non ha la visione plastica e scultoria del giocatore: ma 
i preparativi e gli atti son quelli di chi lancia il disco. 
Qui però entra in scena un nuovo personaggio die manca 
in Ovidio c nell’Anguillara e nel Bracciolini : e con lui 
c’entra una nuova contraddizione. Questo nuovo perso- 
naggio, il Marino lo derivò da Luciano (5) ed è Zeffiro, 
il (piale, innamorato di Cdacinto e geloso di Apollo, si 


(1) M., 48. 

(2) M., 49. 

(8) M., 50. 

(4) M., 51. 

(5) Luciano, toc. cit. 


— 127 — 


intromette nel giuoco, spinge il disco contro la tempia 
del fanciullo e l’uccide. Ma come abbia fatto il carez- 
zevole vento primaverile a deviare c dirigere il disco di 
incidilo massiccio e fondo , il volubil ferro, il bronzo 
{/rare, non si capisce. Personifichiamolo pure, diamogli 
tutta l'ira che viene dalla cieca gelosia e la forza che 
viene dall’ira ; sostituiamogli anche Borea violento, come 
altri con più naturalezza vorrebbe, ma non toglieremo 
la contraddizione. 

La quale deriva da un errore di tinte e di colorito 
nella dipintura del quadro. Per la preoccupazione di ren- 
der realmente mortale il colpo sulla testa del povero 
fanciullo, il poeta non solo accumula sul disco gli epiteti 
che servono a renderlo più grave e più immaneggiabile 
come massiccio, poi tondo , poi di grave bronzo, ecc. ecc., 
ma ancora fa sì che Zofiiro, un pondo simile, se lo ma- 
neggi e palleggi a sua posta. Quindi 

Torce a forza e distorna il bronzo grave 
E più leggici-, che fulmine o saetta, 

Ch’alcun riposo alfimpeto non bave, 

Con tanta furia per traverso il lancia 
Che và dritto a ferirlo in su la guancia (I): 

dove le esagerazioni dei concetti accrescono ognor più 
la sproporzione tra il peso del disco e la forza di 
Zeflìro, anche così infuriato, come ce lo rappresenta. E 
in simili contraddizioni cadrà sempre lo scrittore, il quale, 
curando troppo i particolari a danno dell’effetto com- 
plessivo dell’insieme e la forma a danno del contenuto 
perda il senso della misura, dell’equilibrio, delle pro- 
porzioni. 

Con quanta maggior naturalezza descrive il Braccio- 
lini la. catastrofe! Si vede in lui uno scrittore che ha 
precisa la visione della realtà che descrive e sa conte- 
nere i tratti del suo disegno nei termini della più ri- 


di M., 55. 






— 128 — 

porosa verosimiglianza. Giacinto ha vinto la 1.* caccia, o, 
dopo aver mutato sito e chiamato gioco, ha mandata 
la palla sul tetto (1). Questa, cadendo, tocca la spalla 
di Apollo, che perde quindici: 

E senza dimostrarla una sua fina 
Babbiuzza in mezzo al cor sentesi impressa (2). 

Ribattendo quindi la palla, 

O per desio ili vincerla o per ira 
Quanto più può di soprammano tira ; 

Tira, e giunge al fanciul il colpo orrendo 
Nel manco polso, e la percossa è tale 
Che d’un’artiglieria la palla ascendo 
Seco non porterebbe impeto uguale. 

Cade e muore Giacinto (3). 

Qui tutto è vero, tutto preciso; chi è pratico del 
giuoco della palla troverà qui anche il linguaggio tecnico 
di esso, senza che per questo la forma sia meno poetica. E 
tutto v’è anche verosimile. Che bisogno di ricorrere al 
disco e voler che sia di bronzo o di ferro e che l'avventi 
Zefflro, per fare il colpo? La palla che, lanciata da Apollo^ 
con più forza del solito, colpisce il fanciullo nella tempia, 
non ò sufficiente ? Così il poeta, colla sola esatta dipintura 
del vero e la giusta misura delle proporzioni, ha otte- 
nuto assai maggiore effetto che il Marino con le sue 
gonfiature ed esagerazioni. Il Bracciolini poi non rispar- 
mia neppur col suo ridicolo il tragico evento della morte 
di Giacinto: ma egli ha saputo cosi ben condurre la 
narrazione e disporre ogni cosa a tale effetto che ci stia 
sempre innanzi il pensiero che tutto è una finzione, e 
di quelle più condannabili, che non ce ne sentiamo of- 
fesi; anzi sorridiamo quando la palla più ratta che se 
uscisse dalf artiglieria fa mate al parerò Giacinto, che 


(1) B., 38. 

(2) B., 39. 

(3) B., 39-40. 


- 129 — 


in giù codi ’ come tordo coito nella lesto dolio balestrai) 
e quando il povero fanciullo, colpito, due o tre volle io 
piana terra sgambetta dolcemente e poi si muore (2). 

In Ovidio il lamento di Apollo c la metamorfosi ili Gia- 
cinto costituiscon la parte, forse pi ù lunga certo più prolissa, 
dell’episodio. Prolisso per riflesso è il medesimo lamento 
neH’Auguillara: e nella metamorfosi non solo Giacinto di- 
venta un flore (3), ma lo sferisterio un gran giardino e 

Lu rete, cli’a traverso era sospesa, 

Sopra la qual passar dovea la palla. 

Simile a quella vien che il ragno ha tesa 
l’er prendervi la mosca e la farfalla (4). 

Nel Marino avvengono le stesse metamorfosi e si 
cangiano del gioco lo steccato in borio, in arogno lo 
reticella (5) e Giacinto diviene non solo un flore, ma anche 
una gemma che ha diverse mirabili virtù, tra cui quella di 
prescrivere II fulmine, e di scacciai' lo peste e 7 mal 
del core (6). Ma, mentre ne\Y Adone è più diffusa la descri- 
zione dell'aspetto di Giacinto morto, è più parca l’espres- 
sione del dolore di Apollo. Il qual dolore, non ò, dirò così, 
di persona umana comi' in Ovidio e ncll’Anguillara, ma del 
Sole, il quale, dopo quella disgrazia, rotò gelato e anginoso 
il roggio e, passando di là sempre dolo di nubi otre e ma- 
ligne, sovra i campi versò piogge sanguigne (7). E in questo 
s’accosta al Bracciolini, il quale però, anche nel dolor del 
Sole, non tralascia di metterci una punta di ridicolo : 

dolente 

Con le nuvole attorno esce dal Gange 
E carreggiando singhiozzar si sente (8). 


(1) B., 40. 

(2) B., 41. 

(3) A., 94. 

(4) A., 95. 

(5) M., 61. 

(6) M., 62. 

(7) M., 55. 

(8) M., 55. 


t 


— 130 - 

Ma il riso che corre per tutto il racconto del Braccio- 
Uni qua velato e sommesso, là scoppiettando arguto e 
piamente, altrove risonando aperto e largo, s espande 
sonoro e irrefrenato nella chiusa per quella originale e 
inaspettata e lepidissima trovata di Apollo, il quale, 
poiché Giacinto è morto e morto da doterò ( ), gu 
aveva preso partito di lasciarlo stare (2); ma poi, per 
ZI avere a che far con la giuria, stabrhsce d. »• 
tarlo in fiore: 

E se n’andava già, quando temendo 
Che non costi de corpore delieti 
Ed ei costituir non si volendo, 

Nè processi firmar, difese o scritti, 

Torna, e di trasformar l’arte sapendo, 

Come sanno gli Dei mancini o ritti, 

Tramutò quel bel corpo in un bel flore 
Che spira come prima grazia e amore (3). 

Dove l’accenno alla responsabilità legale del latto 
e alle noie che al Dio potevano derivare, e 1 uso del 
linguaggio tecnico forense, sono di assai comico effe o. 
Conchiudendo insomma, risulta che il Marino in tutto 
l’episodio ha pochissime cose di sua invenzione e prende 
quasi tutto dagli altri: da Ovidio, dall’ Anguillaia, da 
Bracciolini, da Luciano e vedremo tra poco anche dal 
Preti le cose da altrui derivate fondendo insieme con la 
sua grande facilità di verseggiare e colla padronanza 

assoluta della forma poetica. _ 

Ma gli manca però la padronanza della materia, 
quindi in tutta la narrazione si avverte una non so qua 
sconnessione, un’incertezza di condotta, che dimostra ì 
poeta affannato a compor come m mosaico gli elemen ì 
accattati dagli altri, procedendo, direi quasi a tastoni, 
senz’ordine, senza sicura percezione della scelta e del 

collocazione. 


(1) B., 43. 

(2) B., 43. 

(3) B., 44. 


- 131 


['ii:) strofa àeWAdone ci concede ancora altri rav- 
vicinamenti. La tendenza del Secentismo, che sopra av- 
vertimmo, a dar maggiore importanza ai caratteri formali 
che ai sostanziali, portava gli scrittori ad accumunar 
le idee più disparate ed eterogenee, le quali avessero 
tra loro anche solo tenui note di somiglianza esteriore. 
Così, p. e., il giuoco del pallone e la caccia, anche col 
fucile, potevan diventar materia d’una poesia amorosa 
o almeno suggerire o anche solo rivestire concetti amo- 
rosi, perchè giocatore e cacciatore colpiscono, come ap- 
punto fa Cupido arderò. Ecco infatti come l'idea comune 
del colpire viene a riunire gradatamente le altre due di 
Giocatore e Amore nella sola persona di Giacinto: 

Le botte del suo braccio erano tali 
Che quante ei n’avventava o scarse o piene 
Tant’erano al mio cor piaghe mortali 
Tante al’ animo mio dure catene; 

E ben da tender laccio o scoccar strali 
Per legare o ferir con doppie pene, 

Nelle luci tenea serene e liete 

Vi è più che ne la man, l’arco, e la rete (1). 

Il concetto fondamentale dei primi quattro versi è 
questo : Giacinto, assestando bei colpi alla palla, accre- 
sceva l’amore nell’animo di Apollo; ed è questo un concetto 
psicologicamente vero : l'affetto tanto più cresce, quanti 
più meriti e virtù si scoprono nella persona amata. Ma 
il Marino d’una cosa così semplice e umana, non se 
n’accontenta. Sforza egli il concetto per ingrandirlo, per 
nobilitarlo; e per renderlo più poetico, lo fa mitologico: 
la palla è la freccia, le botte son le ferite d’amore di 
quell’alato putto sorridente, che, armato e terribile, svo- 
lazza tanto volentieri per la folta selva della poesia del 
tempo. E il concetto mitologico, non ancor ben deter- 
minato fin qui, si delinea meglio nei versi che seguono 
quando compaiono gli strali e l’arco. Se non che, sopra 


(l) M., 41. 


- 132 — 


a 


questo concetto di Giacinto, che assume le funzioni di 
Cupido, un altro no germoglia, che a poco a poco si 
sviluppa, finché, da accessorio latto principale e con il 
già principale intrecciatosi, corre con questo fino alla 
(ine della strofa. 11 nuovo concetto è quello d’amore elio 
è schiavitù e i sensi d’amore, lacci che legano l'un 
cuore con 1 altro. Quindi le botte alla palla diventano 
primapiaghe mortali e poi dure catene ; ma come l’autore 
vuole che Apollo sia più arridente che giocatore cioè più 
valga su di lui la bellezza del fanciullo che la sua va- 
lentia, ecco Giacinto tener nelle luci serene e liete vi è 
giu che ne la man l'arco e la rete per legare e ferire, 
con tanto di chiasmo. Il qual processo logico nello svolgi- 
mento del concetto, coin’ci sia falso, non v’è- chi non 
veda. 

Ma neppur cosi com’è questo concetto sembra nato 
dalla mente del Marino; egli lo deve aver preso da un 
sonetto di Gerolamo Preti, intitolato Per una donna, 
mentre vede il suo vago che giocava alla palla (1). Ge- 
rolamo Preti, poiché siamo nel Secentismo, fu uno dei 
più grossi pianeti che s’aggirarono nell’orbita del sole rna- 
riniano. Poeta dal verso facile e abbondante, cesella- 
tore di raffinate bellezze, egli si segnala in quell'uni- 
formità di soggetti, di forme e di motivi poetici, di frasi 
e di parole, per il suo gusto fine e aristocratico: gli 
nocque però il genio del tempo, cui troppo indulse, e 
l’influenza del Marino, clic stilli, quando di lui egli era 
caldo ammiratore e seguace fedele in arte: distaccatosi 


(1) Idilli c Rime di Girolamo Preti. AIPIII." 1 ® Signor il Signor 
I). Ascanio Pio di Savoia - Con Privilegio - In Venetia. Appresso 
Trivisan Bortolotti con licenza dei Superiori 1614, pag. 74, son. 8. 
L opuscolo del Preti è contenuto in una raccolta di poemetti 
mitologici e idillici, editi in anni diversi (dal 1612 al 1615) da 
editori diversi, in città diverse. Autori ne sono 12 altri poeti oltre 
il Preti, e tra gli altri vi figurano lo stesso Marino con 11 ra- 
pimento d’ Europa e II testamento amoroso e G. C. Gigli con 
La fallace Magia, illustrato con bellissima incisione. 


— 133 - 




più tardi da lui per dissensi letterari nati da ragioni 
che diremo, s’accostò alla maniera petrarchesca, la quale 
perdurava e ancora perdurò con prodigiosa vitalità, 
rappresentando il medio-evalismo nella poesia lirica (1). 
Il sonetto che parla del gioco della palla è questo: 

Ecco ch’amor novello un’arco stringe 
Onde scherza, ond’impiaga ogn’alma errante, 

Mpntre l’orbe volubile, e volante 
Con percosse iterate avventa, e spinge. 

Hor s’inoltra, hor s’arresta, hor si ristringe, 

Gira di qua, di là la man. le piante, 

E la chioma dorata, e ’l bel sembiante 
S’imperla di sudor, d’ostro si tinge. 

Quell’arco, arcoèd’amor, la palla è il dardo: 

Sento ben io la piaga aspra e pungente : 

E se scherza la man, fulmina il guardo. 

Colà ratto il mio cor vola sovente, 

E de’ la mano, ond’io mi struggo, ed ardo 
l’atto palla animata, i colpi sente. 

Il sonetto s'atteggia subito mitologicamente e non 
solo gli strumenti del giuoco diventano immediatamente 


(1) Chi si volesse lare un concetto delle due maniere della 
poesia del 1 j ri;ti, legga 1 Idillio l.° che narra la favola di Salmace 
ed Ermafrodito e l’Idillio 3 " in cui il poeta dichiara il suo amore 
e si duole delle pene che gliene derivano. Il 1." ha tutti i carat- 
teri di quella poesia derivata, come dicemmo, da Ovidio e di cui 
il Marino, con la sua Zampogna, è il più genuino rappresentante: 
mitologico il contenuto: abbondanti le reminiscenze mitologiche; 
cosi svolto, per manco del freno della fantasia, l’episodio ili Venere 
e Mercurio da costituire una vera sproporzione ; prolisso il la- 
mento di salmace secondo 1 esempio d’Ovidio; ben rappresentato 
il Secentismo con le solite esagerazioni, ripetizioni, antitesi, in- 
magmi strampalate (7/ lagop. e. si sente / 'remere (l'amore al!' entrar 
(/ krmq/'roclito ed è contento di baciar con te liquide labbra il 
bianco piede e alza te sue acque per bagnar, per baciar tutte le 
membra ; il fanciullo, deposto il manto che è come un reio di 
fose/ie nubi innamora di sua bellesxa il Cielo, ecc. ecc.) Il 2.» ha 
invece sapor petrarchesco : l’armonia, la natura dei concetti, il fra- 
seggiare, tutto ricorda assai da vicino le canzoni del l’etrarca, 
rivestito in qualche parte alla foggia del Seicento. 


— 134 - 


le armi di Amoro; ma il giocatore stesso — cosa che 
nel Marino non avviene — diventa Amore. E Giocatore 
e Amore, adunati in una sola persona, ora di conserva 
ora ciascuno da sè, rappresentano l'azione. La quale nei 
due primi versi non è ben distinta: Amor che stringe 
un arco novello (novello davvero ! una racchetta!) e im- 
piaga ogn’ alma errante, avventa poi l'orbe rotabile da 
vero giocatore: e giocatore rimane per tutti i sei seguenti 
versi, quando corre e salta e s’avanza e s’arresta e si 
rigira fino a sudare. Ma nel 9.° e nel IO. 0 verso ritorna 
Amore: Quell’arco, arco d'amor, la palla è il dardo 
che ferisce l’amante: finché, amore e giocatore, confu- 
sisi insieme, dileguano, per lasciar la scena libera al 
cuore, il quale, in una metafora degna di tutti i secen- 
tisti del mondo, si fa palla animata che sente i colpi 
de' la mano onde ramante si. strugge ed arde (1). Cosi 
termina questo sonetto, il quale, grossolano ed esa- 
gerato confò, non è veramente il saggio migliore e più 
degno dell’arte delicata che si ammira in altri componi- 
menti del Preti. 

Con esso e con l’ottava del Marino, trova il suo posto 
in egregia compagnia un altro sonetto di Pio Enea degli 
Obizi, che porta per titolo Giuoco della palla grossa 
ad istanza, della Signora (2). Vissuto in sul tra- 
monto del Secentismo, l’Obizi dimostra con le sue rime 
quanto più rilevanti siano i difetti di una scuola verso 
il decadere di essa e quanto maggiori negli epigoni che 
non nei corifei. Tutto ciò che una fantasia sbrigliata, 


(!) Il colpire, come base di un’identificazione di concetti etero- 
genei, si riscontra ancora nel sonetto 3.° a pag. 73 Per una che 
vede il suo vago ch’uccellava coll’ archibugio, il cui processo for- 
mativo è precisamente identico a quello che abbiamo or ora ana- 
lizzato. 

(2) Le poesie liriche del Signor Marchese Pio Elena degli 
Obizi, nell’ « Accademia Ricovrata » il «Rigenerato». Quinta 
impressione. In Ferrara per Alfonso e Giov. Battista Maresti, 
1670, p. 12. 


— 135 — 


che non abbia mai conosciuto lo fren dell’arte , può 
provare di più stravagante e iperbolico, lo si trova nel- 
TObizi. Un sonetto Per la sua donna che scende in 
fiume ( 1) comincia: 

Fiume elio non ti secchi, or che in te scende 
Quell’incendio mortai che il cor mi sface 

e continua : 

Oli che il cieco tiranno in questo loco 
Oggi congiunti a’ danni miei confonde, 

.Malgrado di Natura, acqua con foco; 

Solo perch'io, in le sue verdi sponde 
Resti con doppia morte a poco a poco 
Sommerso tra le fiamme, arso tra Fonde. 

E noi Caso Meriggiano (2) scrive: 

ad onta di natura, nacque 

Fiamma dal fiume e da l’ardore ardire. 

E lilialmente in una canzone ad Angela Veneziana ( 3): 

Fece accesa d’amor morir la morte, 

che è tutto dire. Però nel sonetto in questione i segni 
del Secentismo sono meno visibili. Se ne giudichi : 

Arma il braccio di quercia e ardito stringe 
Con la morbida man dentato legno 
Il mio Tirrenio, indi con dolce sdegno 
11 ventoso volume al ciel rispinge. 

Corre, incalza, s’arretra, incuora, finge 
Fer vincer nell’arringo il doppio segno, 

E mentre usa la forza, opra l'ingegno, 

Di vivace cinabro il volte tinge. 

Felice globo, preziosa palla 

Meriti, or che ti indora il mio bel foco 

Più che il cuoio di Frisse ir tra le stelle. 

E ricca me, se meco in molle loco 
l’rodur vedessi quelle guance belle 
Rose e rugiade a più soave gioco. 

(1) Loc. cit., pag. 8. 

(2) lb., pag. 13. 

(3) Ib., pag. 172. 


— 136 — 


C’è bene ancora il ventoso volume e il felice globo, 
che merita più che il cuoio di Fri sso ir tra le stelle, 
perchè l'indora il mio bel foco , ma sono inezie in con- 
fronto di altre strampalaterie dello stesso autore. Evi- 
dentissima è nel sonetto l’imitazione di quello del Preti, 
quantunque non compaia in esso l’idea mitologica del 
solito Amore armato. Il suo posto è, nel sonetto dell’Obizi, 
occupato dalla descrizione dei preparativi del giuoco: il 3. u 
ed il 4." verso s’assomigliano nei due sonetti, mentre la 
2.“ quartina v’è identica, così nel concetto come nello 
svolgimento. Le due terzine non contengono più nessuna 
reminiscenza del sonetto del Preti : elementi nuovi vi 
sono il cuoio di Frisso e più la chiusa assai realistica, 
la quale per nulla risente di quella raffinatezza di sen- 
sualismo che abbiam notato nel Marino, nei Marinisti e 
in generale in tutto il Secentismo. 


Finalmente, per compir la serie degli scrittori che, 
traendo argomento dal mito di Giacinto, trattarono del 
giuoco della palla, occorre che noi parliamo ancora di 
Giovati Battista Fagiuoli, autor di poesie giocose, che 
lo fanno considerare nell’ ultimo Seicento come un rin- 
novatore non indegno della maniera del Berni. Nel ca- 
pitolo XXXI della parte IV delle sue Rime piacevoli (1) 
si leggono le lodi che il poeta aveva fatto del sole in 
una seduta dell’accademia degli Apatisti, dopo che alla 
presenza ili illustri cavalieri e dame gentili, tre altri 
già avevano intessute quelle di tre altri pianeti. Il Fa- 
giuoli tra le molte altre favole antiche intorno ad Apollo 
narra anche quella di Giacinto. Le fonti del suo racconto 
sono le solite: Ovidio c l’Anguillara, con reminiscenze 


(1) Rime piacevoli di Gio. Battista Fagiuoli, Fiorentino. 
Lucca, Salvatore e Gian Domenico Marescaldoli, 1733. Parte IV, 
cap. XXXI, vv. 421-456, pag. 209 e segg. 


— 137 — 


del Marino e del Bracciolini : a quest'ultimo poi si riac- 
costa il Fagitioli per il carattere giocoso della poesia : 
lo supera per la menzione di regole speciali del giuoco 
e l'uso dei termini di esso: se ne distingue per minore 
acritudine e finezza di ironia contro il mito, e per certe 
punte satiriche contro costumi e persone contemporanee. 
La menzione dell’episodio è però assai concisa: tutto il 
prologo dell’innamoramento e la descrizione della bel- 
lezza del fanciullo e le smanie d 'Apollo sono omesse. 
Dopo aver parlato di Ciparisso, comincia senza pream- 
boli : 

L’ altro fanciullo, si che il travagliò : 

Era Giacinto nella Pallacorda 

E anche il Sole vi si ritrovò (1). 

I due giocatori cominciano la lor partita non all'In- 
gorda per non rovinarsi (2) (dove sono accennate im- 
plicitamente le battute fatte per celia che trovammo 
nel Marino e nel Bracciolini e non in Ovidio e nell’An- 
gtiillara); ma la scommessa non è più una scommessa: 
è un vantaggio che Apollo dà al fanciullo: 

Un bel partito il Sol, se mi sovviene, 

Fece al ragazzo, e dìcon, che gli diede 
Quindici, il tavolato e ’l mandar bene (3). 

Quindici ò uno dei quattro punti occorrenti per fare il 
giuoco: il tarolato ò quell’arnese che modernamente si 
chiama trampolino , il quale costituisce veramente un 
vantaggio per il battitore , dandogli maggiore slancio 
e forza nell’atto del colpire il pallone : il manda)' bene 
era probabilmente la facoltà di rifiutare tra le varie 
mandate del mandarino quella che non fosse bene accon- 
cia a esser battuta. Dico probabilmente, perché notizie dai 
trattati e dai lessici non n’ho potute avere. 

(1) Loc. cit. cap. XXXI, vv. 421-433. 

(2) XXXI, vv. 424-425. 

(3) XXXI, vv. 427-429. 


— 138 - 


Or, mentre giocano, si vede 

Che il sol trincia una palla con tal forza 
Che nelle tempia il giovanetto flede (1). 

Se il trincia è del Marino (2), il colpo nelle tempia , 
che dicemmo quanto naturale, è del Bracciolini (3), che 
però vi spiega un'arto assai più fine di umorista. Al 
colpo fatale accorre Apollo ; ma 

benché sia medico, a curarlo 

Non seppe ritrovar erba nè scorza (4). 

L’idea del medico, che nel Bracciolini non c'è, il Fagiuoli 
la ricava da alcuni fuggevoli tratti del Marino: 

Per dar con erbe a la gran piaga aita (5), 
e deH’Anguillara : 

E pone in opra invan lo studio e l’erba (6), 
o forse da quelli più sviluppati di Ovidio: 

Et modo te refovet (Deus) ; modo tristia vulnera siccat, 

Nunc animum adductis fugientem sustinet herbis: 

Nil prosunt artes (7). 

Cosi morì Giacinto, un giovane dato alle armi e allo 
lettere, dove le armi ricordano il Marino (8) e le lettere, la 
insidiosa monelleria del Bracciolini (9). I versi che se- 
guono contengono due allusioni personali. Grossolano e 
intempestivo è il paragone del sole che, nel riflettere 
al triste caso avvenutogli, diventa com’un ebreo che la 
roba rubata abbia a rimettere ( 10); piace invece la men- 


ti) XXXI, vv. 430-432. 

(2) M., 43. 

(3) 40. 

(4) XXXI, vv. 434-435. 

(5) M., 58. 

(6) A., 88. 

(7) 0., vv. 187-189. 

(8) M., 28. 

(9) n., 29 e segg. 

(10) XXXI, vv. 440-441. 


zione delle macchie scoperte da Galileo nel sole(l), vuoi 
perché tale scoperta è una gloria italiana, che più risalta 
nel tema faceto; vuoi perchè l’oscurarsi in l'accia e l’impal- 
lidire è effetto naturale deH’interno affanno. Umoristiche 
finalmente sono la metamorfosi di Giacinto in fiore, af- 
finchè Apollo ancor lo potesse vedere e fiutare (2), e la 
chiusa, la quale, dicendo che il Dio, dopo quell’accidente 
a studiar si messe (3), ricorda di nuovo il Bracciolini, 
col quale il Fagiuoli ha grande rassomiglianza per la na- 
tura dell’ingegno e per il genere del componimento. 


(1) XXXI, vv. 443-444. 

(2) XXXI, vv. 452-453. 

(3) XXXI, v. 456. 




CAPITOLO IV. 

Gruppo III [La letteratura d’imitazione Pindarica ed encomiastica 
del giuoco della palla]. Gabriello Chiabrera e le sue tre 
liriche del giuoco; Pindaro e i Secentisti; l’ imitazione 
ili Pindaro e l’arte nelle liriche del Chiabrera. — Jacopo 
Taruffi e La Montagnola di lìologna. — Il Leopardi e 
la canzone A un vincitor del pallone ; il contenuto di questa 
poesia e il pessimismo leopardiano. — Aleardo Aleardi e 
la poesia Per un giuoco della palla nella ralle di Fiumane ; 
l’arte di essa e le idee politico-sociali che l’informano. — 
Edmondo Di;-Amicis e Gli Azzurri e i Rosei: pregi di questo 
libro apologetico del giuoco della palla. 

Gabriello Chiabrera celebrò con tre liriche ( 1 ) le gare 
ni pallone avvenute nello sferisterio che Cosimo II aveva 
fatto costruire a Firenze nel 1018 ; e una delle canzoni 
è appunto di questo medesimo anno, le altre due sono 
appena dell’estate successivo. 

11 Rinascimento aveva messo il gioco in gran moda 
e i principi Io favorivano, come già si disse, un po' 
per questa ragione e un po’ por il gran concorso di 
gente che attirava alla città e l’entusiasmo che destava 
c la solennità che aggiungeva alle loro feste e il lustro 
che da tutto questo derivava al loro nome. 

Al Chiabrera, un primo incentivo a cantar le gare 
del pallone che si facevano in Firenze, gli venne senza 


(1) Rime di G. Chiabrera. Milano, Società Tipografica dei 
classici italiani, 1807, v. 1, pagg. 129-13(5. 


— 141 — 


dubbio dal desiderio di compiacere al granduca suo pro- 
tettore, esaltando in esse una delle splendidezze mag- 
giori della sua corte : e ciò faceva il poeta non senza 
il suo tornaconto; chè Cosimo II, come già il padre Fer- 
dinando I, s’era sempre dimostrato assai benevolo verso 
di Ini e spesso gli era largo di protezione e di sussidi. 
Confessa infatti egli stesso, nei cenni autobiografici che 
ci ha lasciato, che sempre per lo spazio di 35 anni 
diedero segno quei serenissimi signori di averlo caro, 
cliè mai /’ abbandonarono delle loro grazie. Ma affinchè 
quelle grazie non venissero nè troppo rare nè troppo tarde, 
conveniva di quando in quando rinfrescar la memoria 
al protettore : ed ecco il poeta compor poesie in suo onore, 
le quali fossero espressione di gratitudine pei passati 
benefizi e insieme invito a operarne dei nuovi. Imma- 
giniamoci dunque, se poteva lasciarsi sfuggir la buona 
occasione di ricordarsi al principe, ora che questi, nella 
penuria di altre glorie, si procurava quella di far co- 
struire uno sferisterio e di ordinare le famose gare, 
mettendosi alla pari, almeno, con le più illustri corti 
non solo d’Italia, ma di Francia anche e di Spagna. 

Ma oltre questa ragione che conveniva all'uomo, un’al- 
tra ve n’era che conveniva al poeta. Il quale da molto 
tempo s’era messo sulle orme di Pindaro e s’adoperava 
di rifare tra noi la lirica del grande Tcbano. Ora, non 
mai argomento che con quello solito delle canzoni ili 
Pindaro avesse più numerosi punti di somiglianza e di 
affinità, gli era venuto tra le mani. I solenni prepara- 
tivi del richiamo, lo sferisterio e tutto l’apparato sce- 
nico del campo, il concorso del popolo, gli applausi ai 
più valenti giocatori, il trionfo del vincitore, il favore 
stesso del principe, facevan rassomigliare un po’ codeste 
partite agli antichi giuochi greci, che avevan fornita a 
Pindaro la materia delle sue liriche gloriose. 

Mancava veramente alle gare di Firenze l’alto signi- 
ficato civile e politico dei giuochi antichi, il quale aveva 
dato ai carmi del Tebano il carattere della più vera e 


— 142 — 


sentita poesia nazionale: ma di questo, il Cbiabrera non 
se ne dava pensiero, o meglio, non so ne dava ragione: 
gli bastava d’avere un tema che, avvicinandosi più degli 
all ri a quelli trattati da Pindaro, gli permettesse di 
spiegare quella rara abilità di suo imitatore, per la 
quale egli andava tanto altero e per la quale i contem- 
poranei lo gratificarono col titolo onorifico di Pindaro 
toscano. 

Questo titolo — poiché mi toccò di nominarlo — non 
fu ratificato dai posteri : ma coni' esso sia potuto na- 
scere nel tempo del poeta e durare per parecchie gene- 
razioni, si può spiegare, oltreché con la tendenza alla 
esagerazione e all’adulazione propria di quell’età, anche 
con alcune considerazioni intorno allo stato degli animi 
e alle condizioni della letteratura del secolo XVII. 

Quella, in cui visse il Chiabrera, fu un’epoca di tran- 
sizione. La civiltà del Rinascimento, nata dall’ innesto 
della tradizione latina sul tronco rigoglioso della me- 
dioevalc, dati i suoi mirabili frutti e compiuto il suo ciclo 
storico, illanguidiva, in parte esaurendosi per progres- 
sivo deperimento, in parte trasformandosi sotto l'azione 
di nuovi agenti storici. Cosi tutto quel complesso di 
idee, di principi, di sentimenti, di aspirazioni, di bisogni, 
d’interessi, che quella civiltà avevano costituita, an- 
dava ogni giorno più perdendo vigore e importanza. E 
quel tanto del passato che o per inerzia o per abitu- 
dine ancor rimaneva nelle coscienze, più non valeva ad 
appagarle ; sicché esse si volgevano ansiose in traccia 
d’un cammino verso il loro avvenire. Ma intanto la sa- 
zietà insoddisfatta del passato, l’incertezza penosa del 
presente, la vaghezza inquieta dell’avvenire lo turbava 
e tormentava: e non solo il suo, ma un po’ i sentimenti 
di tutti interpretava il Chiabrera quando faceva canone 
dell'arte sua il motto : voler egli fare come il suo con- 
cittadino : scopri)- nuovo mondo od affogare. Quindi una 
universal disposizione ad applaudire qualsiasi tentativo 
di novità: quello del Marino che la ricercava nelle esa- 


— 143 — 


gerazioni e negli insoliti lenocinli della forma, come 
lineilo del Chiabrera che la rintracciava nell’imitazione 
dei poeti greci e specialmente di Pindaro. Cosi si spie- 
gano le lodi veramente soverchie, con le quali i con- 
temporanei esaltarono il poeta savonese: da quelle che 
egli stesso ci riferisce o ci lascia capire — senza men- 
dacia e senza prosunzione — nei cenni autobiografici (1), 
a quelle di cui gli è prodigo lo stesso Muratori, scrit- 
tore gravissimo, in più luoghi del suo trattato Della per- 
fetta poesia italiana (2). Nel coro delle quali lodi la 
meno esagerata ancor ci pare quella di Pindaro Toscano, 
se pensiamo che i contemporanei, quando videro ripro- 
dotta dal Chiabrera quella vita esteriore dell' andamento 
e del numero e la poesia dei passaggi (3), credettero, in 
vera buona fede, che quella fosse la poesia di Pindaro, 
rinnovata, per l’opera d’un ingegno grandemente lirico, 

(1) Di colti (da Firenze) fagli scritto, che alcuno lodavano 
fortemente le sue poesie. (Vita di G. Ciuabukka scritta da lui 
medesimo. Ed. cit.,pag. 22). K leggansi pure le accoglienze che 
con tanta compiacenza il poeta riferisce aver ricevuto dalle corti, 
più da quella di Firenze (pagg. 24-25) che da quella di Torino 
(pag. 20); e ancora il Greve scrittogli con grandi lodi da Ur- 
bano Vili, ch’egli riporta (pag. 28), e le straordinarie dimostra- 
zioni avute da quel papa (pag. 30) : e ancora il distico l'atto scrivere 
sopra la porta della camera ch’egli abitava nel palazzo di Giu- 
stiniani in Fossolo a Genova, ospite del signor Pier Giuseppe 
Giustiniani : 

Intus agit Gabriel, sacram ne rampe quietem 

Pum strepis, ah periit, nil minus Iliade. 

che il Chiabrera stesso ci trascrive (pag. 33), ecc. ecc. 

(2) Muratori, Dalla perfetta poesia italiana, Milano, Società 
Tipografica dei classici italiani, 1821, v. 1, pag. 218: G. C., il 
cui merito non è abbastanza conosciuto da alcuni. E a pag. 343 
del medesimo volume : E, fra tanti poeti italiani, dei (piali si am- 
mirano i componimenti poetici, non v'ha forse chi meglio di. 
G. Chiabrera si sia ingegnato di seguir le orme e i voti di Pindaro. 

(3) Il J{. Liceo Chiabrera in Savona nell'anno scolastico 
1877-78. La lirica e l'epopea di G. Chiabrera di T. T. Castelli, 
Savona Tipolitografia di Andrea llicci, 187'.), pag. 9. 


I 


— 144 — 

nella sostanza o nella forma, nello spirilo e nell'arte. 
Il vero è che nè il poeta nè i suoi lettori d’allora seppero 
addentrarsi nella grande poesia del lirico tetano e com- 
prenderla nella sua intima essenza. 

E per giustificare questa mia asserzione, non paia 
superfluo che, a spiegarla, io mi rifaccia un po’ da lon- 
tano. Ogni qual volta mi son fatto a considerare 1 in- 
fluenza delle due letterature classiche sopra la lettera- 
tura italiana, sempre m’è parso di poter paragonare il 
Latino a un parente prossimo, vissuto a lungo lontano 
da noi ma con noi in continua affettuosa corrispondenza, 
il quale ritorni in casa nostra e vi si istalli a tutto suo 
comodo c s’informi subito di tutti i nostri affari e ci 
informi dei suoi e dia e accetti consigli e suggerisca 
mutamenti nelle abitudini e nelle usanze. È insomma 
un nuovo membro ritornato ad accrescere la famiglia. 
Il Greco invece è il ricco parente lontano, disceso nella 
modesta casa borghese: entra tutto bello, elegante, 
riservato, dignitoso : subito si sente che le sue maniere 
son distinte, perfette, degne veramente d’essere imitate : 
e ci si prova, ma lo sforzo di farlo, devia l’attenzione 
dalle regole della più ovvia educazione, isterilisce il 
sentimento, soffoca la spontaneità dei tratti e li rende 
impacciati e sgraziati. Per molto tempo ospite e ospi- 
tato rimangono estranei l’uno all’altro e solo una lunga 
consuetudine riesce a far si che il primo si assimili un 
po’ della gran distinzione di modi, dell’eletta aristocrazia 
di spirito ilei secondo. 

E fu cosi infatti. Lasciando da parte il Petrarca e il 
Boccaccio, i quali il Greco ricercavano per un’istintiva 
e, quasi direi, inconscia aspirazione alla bellezza antica, 
lo studio di questa lingua cominciò veramente in Italia, 
come sa ognuno, allorché, dopo la caduta di Costanti- 
nopoli, numerosi dotti greci vennero tra di noi e inse- 
gnarono la loro lingua, fondarono centri di studi e crea- 
rono discepoli illustri. È dunque innegabile che il Greco 
potè esercitare una benefica influenza sulla cultura clas- 


— 145 — 


sica, completandola e insegnando quei principi di pura, 
serena, plastica bellezza, di cui troviamo tracce in molti 
scrittori del ’500. Eppure lo studio del Greco nel '500 
e nel ’ 600, a chi ben guarda, parrà più che altro un 
lavorio d’approccio. Anzitutto il popolo, vale adire l’anima 
italiana, nel ’ 500 e per alcuni secoli posteriori, rimase 
quasi del tutto estranea alla civiltà greca. I dotti, dal 
canto loro, si fecero padroni della lingua, lessero i ca- 
polavori di quella letteratura, discussero le regole d’A- 
ristotele, le ricercarono negli scrittori e le applicarono 
nelle loro opere ; ma essi s’avanzarono poco oltre la 
forma; non seppero nè poterono discendere giù nell’in- 
timo dell’essenza fino alla sicura ed esatta percezione 
e conoscenza dei grandi principi constitutivi e infor- 
mativi della vita e della letteratura greca. Perchè questo 
potesse avvenire, bisognò che, diluitosi l’elemento epico 
cavalleresco negli innumerabili e interminabili poemi 
posteriori, e inariditosi l'elemento erotico nella fiacca 
e stracca imitazione petrarchesca, le menti degli Italiani si 
vuotassero, quasi direi, della maggior parte del contenuto 
medioevale, e il rimanente trasformassero quasi sostan- 
zialmente: bisognò che alla vaga aspirazione a cose nuove 
subentrasse negli animi dei più la volontà conscia e ra- 
gionata di determinati e sicuri ideali che venissero a 
riempirli e guidarli: bisognò che per questo le menti 
acquistassero, per mezzo di studi più larghi e profondi, 
una maggior dimestichezza con la civiltà greca e, af- 
francatesi dal giogo della reazione cattolica, si facessero 
più capaci di comprendere e assimilarsi i grandi prin- 
cipi di giustizia, di libertà e di patria, che quella civiltà 
avevano informato e a questi principi si volgessero, 
come a faro nuovo di luce, come alla voce del nuovo 
verbo di progresso civile c morale. Solo allora l’Ellenismo 
potè avere reale e utile efficacia sulla coscienza ita- 
liana, determinando nella vita i conati alla libertà del 
secolo XVI II e del successivo e trionfando nella lettera- 
tura con i capolavori del Classicismo. Solo allora alla 


io 




— 146 — 

frigida tragedia cinquecentistica di tipo sofocleo potè suc- 
cedere la calda e violenta tragedia dell’Alfìeri ; agli uni- 
formi poemetti mitologici, in cui vorrebbe spirare un’aura 
di grecità e in cui non si sente che il soffio dell'arte 
ovidiana, I Sepolcri del Foscolo, nei quali si riaccen- 
dono i forti sensi deH’Ellade antica, e Le Grazie, che 
armonie pecche suonano; alla lirica del Cbiabrera, greca 
solo nella esteriore impronta imitata da Pindaro, la lirica 
delle canzoni civili del Leopardi, che riproducono e ri- 
vestono di bella forma italiana concetti e spiriti della più 
schietta grecità. 

Ma da quando lo studio del Greco comparve in Italia 
(ino ai giorni nostri, non vi fu tempo in cui esso si sia 
trovato in condizioni peggiori clic quello in cui fiori il 
Chiabrera. L’anno normale dello studio del Greco, dice 
il Burckardt, si può ritenere il 1500 (1); dopo di questo 
decadde, tanto clic ai tempi del Chiabrera la lingua 
greca era da pochi e male conosciuta e lo stesso poeta 
non ne ebbe una sufficiente conoscenza. Ce lo dimostra 
Girolamo Bertolotto, il quale, in una limpida disserta- 
zioncolla (2) persuasiva per l’ordine chiaro del ragiona- 
mento c l'uso discreto degli argomenti, pur riconoscendo 
che il Chiabrera aveva una vasta coltura classica, ma 
non attinta diretta mente dai prandi modelli preci, hens) 
da traduzioni, da un’assidua lettura e da erudite con- 
versazioni (3), dichiara apertamente d’esser d'avviso che 
il Chiabrera non fosse capace di interpretare da sè uno 
dei tanti autori greci, da cui s’era fatto, con tanta fortuna, 
imitatore (-1). Se così è — e la dimostrazione del Ber- 
tolotto non può lasciar dubbio — noi possiamo domandare 
come poteva il Cbiabrera, senza il sussidio della cono- 


(1) Ed. cit., v. 1, parte III, cap. Ili, pag. 230. 

(2) Il Chiabrera damati all’ Ellenismo nel diurnale Ligustico di 
Archeologia, storia e letteratura. Nuova Serie, v. I, pagg. 271-280. 

(3) Eoe. cit., pag. 272. 

(4) Loc. cit., pag. 280. 


- 147 


scenza della lingua, penetrare nel segreto della poesia 
di Pindaro, capirne tutta l’intima natura singolarissima, 
e afferrarne le recondite bellezze nobilissime e farle sue 
e trasportarle nella sua lirica. 

Chè l’esempio del Monti, messo innanzi dal Bertolotto 
per provare che l’ignoranza del greco non offusca la gloria 
del Cbiabrera, anzi la fa rifulgere di luce più viva, perchè 
colla sola potenza del suo ingegno seppe egli elevarsi a 
tanta altezza lirica , ove non giunsero gli altri Pia- 
da ri sii suoi coetanei, che disponevano di più validi sus- 
sidi esteriori e di una profonda cognizione del greco (1), 
non serve. 

Poiché, anche lasciando da parte che il Monti era 
un ingegno ben più altamente inspirato dalle Muse (2), 
Omero è poeta facile, ingenuo ed era già ai tempi del 
Monti popolare in Italia per le numerose versioni let- 
terali e libere; difficilissimo invece Pindaro, dallo studio 
del quale la singolare originalità della sua arte e la 
profondità dei concetti e le asperità dialettali della 
forma allontanavano anche gli intelletti più colti delle 
cose greche : tanto che osserva lo stesso Bertolotti, 
ostico riusciva pure a queir eletta schiera di ellenisti 
usciti dalla scuola del Crisòlora , quali il Guar ini da 
Verona, Leonardo Bruni ed altri, dui quali il poeta 
Telano non figura tradotto (3). Onde lo stesso Muratori, 
molti anni dopo ancora osservava: Vero è che per ben gu- 
star quel poeta (Pindaro) converrebbe possedere piena- 
mente V erudizione e la lingua greca, non giungendo 
le traduzioni che finora se ne sou fatte a rappresentare 
la forza e la leggiadria e vivezza di quel vasto ingegno, 
nè la magnificenza, il numero e la disposizione delle 
sue parole (4). È vero che soggiungeva subito: Con tutto 


(4) Bertolotto, loc. cit., pag. 280. 

(5) Loc. cit., pag. 274. 

(1) Muratori, Della perfetta poesia. Ed. cit., v. 2, 41-42. 

(2) Loc. cit., v. 2, pag. 42. 


- 148 — 

però il difetto delle traslazioni già fattene, potran 
gl’ingegni migliori in qualche parte gustar il genio di 
Pindaro, ponendo ben mente ai legami ch’egli nei savi 
poetici roti sempre fra lontanissime cose, e fa servire 
alP ornamento dei soggetti che tratta; ma la conse- 
guenza di questa proposizione è ovvia: poteva bensì il 
Chiabrera, ingegno tra i migliori, per mezzo delle tradu- 
zioni, sentire e fare suoi alcuni degli elementi esteriori 
dell’arte di Pindaro, come a dire: i trapassi e i voli fa- 
mosi che son di quella la caratteristica più evidente; ma 
non poteva addentrarsi nell’essenza della poesia di lui e 
impadronirsene, sempre per il motivo, che ancora una volta 
ripete il Muratori, che senza una grande sperienza del- 
l'idioma greco e dell'erudizione di quei tempi non si 
possono abbastan za comprendere le bellezze di questo 
poeta (1). 

Come insufficiente fu nel Chiabrera la conoscenza 
del greco per ben comprendere i principi e il processo 
formativo dell’arte di Pindaro, cosi troppo superficiale 
e imperfetta fu la nozione della civiltà greca, perchè egli 
potesse giungere a formarsi un concetto, anche appi <>s- 
simativo, dell’alta importanza civile dei giuochi pubblici 
in Grecia, e per conseguenza dell’efficacia educativa della 
poesia che li esaltava. La nozione del carattere religioso 
originario dei giuochi, i contemporanei di Pindaro fave- 
vano già forse perduta; ma era vivissimo in loro il senso 
della benefica influenza di essi sopra tutta la vita pubblica 


(1) Loc. cit., v. 2, pag. 47. Altrove (v. 1, pag. 44-45), sempre 
parlando della difficoltà di Pindaro, scrive: E tra tanti poeti ita- 
liani, dei liliali, s’ammirano i componimenti fioetici non v’ha forse 
chi meglio del Chiabrera si sia ingegnato di seguir le orme e i 
voli del mentovato Pindaro. Ma perchè solamente dai sublimi 
ingegni tal maniera di comporre è gustata, anzi non molti son 
coloro che conoscono la beltà dello sili pindarico : non ha il Chia- 
brera .finora, almen di qua dall' Appennino, ottenuto quel seggio 
ch'egli meritò e che dai più saggi gli vien conceduto. 


— 149 - 


e privata della nazione greca. Secondo il concetto greco, 
gli esercizi ginnastici, assidui e lunghi, rendevano, già 
l’ accennammo, i giovani belli, sani e forti, cioè vera- 
mente atti alla vita e capaci delle migliori virtù: tali 
insomma da corrispondere, sotto l'aspetto estetico, morale 
e civile, al tipo ideale di cittadino perfetto, quale i Greci 
s’erano formato. Di qui la solennità straordinaria dei pub- 
blici giuochi e il concorso stragrande di spettatori d ogni 
parte della Grecia e l’entusiasmo onde si salutava la 
vittoria: di qui per conseguenza rimportanza della poesia 
che con la magnificenza e lo splendore dell’arte glori- 
ficava il vincitore. Il quale, nel delirio dell’apoteosi, era 
messo alla pari con gli eroi antichi, la cui memoria si 
conservava venerata nei miti nazionali, parte viva e sen- 
sibile della coscienza greca, come nella coscienza di tutti 
i popoli son sempre parte viva e sensibile il ricordo 
delle glorie degli avi e l'onore dei fasti della patria. Così 
quando il poeta, coi trapassi fulminei della fantasia ecci- 
tata, volava, nell’inno trionfale, dalla esaltazione del vinci- 
tore a quella delle leggende gloriose che si riferivano 
o alla gente, onde quegli era sorto, o ad un altro eroe 
della medesima stirpe, o alla città dov’era nato o alla città 
dov’erano avvenuti i giuochi, sempre l’anima greca aveva 
fremiti di legittimo orgoglio nell’udir celebrare, in una 
poesia senza pari per impeto di persuasa e cosciente 
inspirazione, le glorie avite: e con slancio più ardente 
concedeva ogni onore all’olimpionice, il (piale, nel canto 
del suo poeta, queste veniva a ricordare, come con la 
sua vittoria aveva attestato ch'esse potevano essere 
rinnovate. I famosi voli, che Pindaro usava, non erano 
dunque un vano artificio retorico, come pur troppo sa- 
ranno nelle poesie dei Pindaristi, Italiani o Francesi, 
del Cinquecento e del Seicento; ma erano il mezzo efficace 
d’ interessare l’anima di tutti gli Elioni, di quelli dell’Asia 
minore, come di quelli di Grecia, di Italia o di Sicilia, 
allargando la poesia dal cittadino a cui si doveva onore, 
alla patria a cui si doveva gloria, e parlando al senti- 


— 150 - 


mento nazionale fattosi più profondo e pronto dopo la 
minaccia del pericolo persiano (1). 

Ora tutto questo mondo grandioso di ideali, di af- 
fetti, di sentimenti, di emozioni che costituivano l'es- 
senza della poesia di Pindaro per noi moderni è in gran 
parte spento (1); ma non sì, che non ne sentiamo almeno il 
ridosso; chè la conoscenza più profonda ed esatta della 
grecità, la memoria gloriosa di alcune epopee del no- 
stro Risorgimento, le libere insti i azioni pubbliche sotto 
molti aspetti analoghe a quelle della Grecia antica, con- 
cedono a noi certe affinità di spirito e certe disposizioni 
d'animo consentanee con quelle del popolo che la lirica 
di Pindaro applaudiva, udendola scendere, qual fiume 
sonoro, dalle labbra di lui. E sotto questo rispetto nes- 
sun’altra età fu in condizioni migliori della nostra per 
comprendere la poesia del grande Tebano. 

Ma prescindendo da tutto ciò, noi moderni abbiamo 
riacquistato, quasi in tutta la sua interezza, il concetto 
antico della grande e singolare utilità degli esercizi 
ginnastici. Nell’assidua e acuta aspirazione a una vita 
pubblica e privata più sana, più virtuosa e più felice, noi 
sentiamo con dolore che, per conseguirla, le forze in- 
debolite del nostro corpo sono troppo sposso impari alla 
somma del lavoro che c'incombe e alla volontà di com- 
pierlo: sentiamo con dolore che troppo spesso ci manca 
la serenità gioconda dello spirito, la padronanza asso- 
luta e la sicurezza conscia di noi, la prudenza necessaria 
del consiglio, la costanza dei propositi e tante tante 
altre virtù, senza le quali, nò come cittadini nè come 
privati, si può essere, come esser si dovrebbe, buoni e 
felici. E come ben sentiamo c’ogni virtù dipende dalla 
salute e dalla forza del corpo, salute e forza domandiamo 
ansiosi agli esercizi fisici, con un risveglio salutare di 


(1) Cfr. Le odi di Pindaro, dichiarate e tradotte da G. Fraccà- 
roli, Verona, Franchini, 1904, pagg. 29-32. 


— 151 — 


volontà ferma e decisa, che si manifesta negli sporta 
più svariati e in mille altri aspetti della vita moderna. 

Essendo dunque noi in queste condizioni di mente 
e di cuore, (piando mai si fu, dai tempi antichi in poi, 
così in grado di apprezzare l’efficacia civile e morale 
della poesia pindarica, che è appunto la glorificazione 
delle virtù che dalla forza originano e degli esercizi che 
diinno la forza? 

Ma il carattere educativo e patriottico di questa poesia, 
il Seicento, secolo fluttuante tra un passato che più non 
l’appagava e un avvenire che già sospirava senza ancor 
bene intuire, nel quale l’assenza d’ogni idealità deter- 
minava l’assenza di salde coscienze, di nobili e caldi 
sentimenti, di forti e risoluti caratteri, non lo poteva 
capire. L’ideale della patria, solo concreto e prpfondo 
in qualche pensatore e poeta solitario, è in quel tempo 
vana retorica nei più, e da pochissimi veramente sen- 
tito, sebbene se ne faccia un gran parlare. Gli esercizi 
ginnastici, già in tanta stima presso i pedagogisti 
del Cinquecento, sono solo più apprezzati in quanto 
avviano e dispongono alle arti guerresche; ma questo 
concetto stesso rimane lì a mezzo, senza giungere a 
una qualsiasi determinatezza significativa. Sotto questo 
aspetto, astratto e teorico, esso ci si presenta appunto 
ogni qual volta compare nelle poesie del Chiabrera (1); 
il quale non lo sa spingere un po’ più in là per metterlo 
in relazione col cittadino o colla patria, e solo l’ha caro 
come contenuto pomposo della sua poesia. Se la patria 
e se la virtù dei ginnici esercizi così sommessamente 
parlavano al suo pensiero e al suo sentimento, che 
meraviglia dunque s’egli non potè, neppur nella misura 
che lo possiam far noi, comprendere il valore della poesia 
di Pindaro? Lo lascia capire egli stesso in una lettera 
scritta ad Ambrogio Salineri, per dedicargli le sue cun- 


ei) Liriche Eroiche, loc. cit., LXI, vv. 5-13-2Ò-29 ; LXII, 
vv. 3-8; LXUI, vv. 21-3(1; vv. 41-50. 


— 152 — 


zoili (1): La prima rolla che io lessi Pindaro, posso 
dire con verità che io sospirai sopra la ventura di 
motti uomini nostri; perciocché io pensava che se i 
principi delta Grecia per la velocità nel corso o per 
la destrezza loro nella lotta meritarono divine lodi da 
quello eccellentissimo ingegno , i Cavalieri d'Italia pel- 
le maggiori prove nei pericoli della guerra maggior- 
mente le avevano meritate: ma gli scrittori dei nostri 
secoli hanno solamente di loro detta nelle istorie la 
verità ; e non hanno adoperala la virtù della poesia 
a fare meravigliose le loro azioni. Dal quale passo si 
vede chiaramente cbe il poeta aveva solo dinanzi al suo 
pensiero la vittoria materiale in esercizi ch’egli, come 
s’arguisce dalle frasi crude e quasi sdegnose con cui li 
nomina, doveva stimare poco più d'un trastullo: ma nulla 
gli trapelava dell’alto significato civile c morale di essa 
vittoria e per riflesso della poesia di Pindaro. E non molto 
diversamente da lui dimostrò di giudicare, ancor molti 
anni dopo, un Ellenista famoso, cbe nello studio della 
grecità passò tutta la sua vita e la grecità adorò con 
tanto fervore da giudicarla unico modello degno d’essere 
imitato e da non permettere cbe il suo alunno, nato a 
voli liberi e personali, lui vivo, mai se ne allontanasse; 
voglio dire Vincenzo Gravina. 11 quale, parlando di Pin- 
daro, scrive : Per dar quest'aspetto grande alle cose senza 
alterarle, fu egli costretto a tirar materia di fuori, 
perchè l'opera stessa, quaVera la vittoria in un gioco, 
non glie la porgeva. Onde è costretto ad appigliarsi alle 
lodi o della patria o dei maggiori; o col pretesto di 
qualche gi-ave sentenza, da lui francamente frammi- 
schiata, trascorrere alle pruove di essa con gli esempi 
per poi vestirne il suo soggetto, ed in tal maniera tirar 
più a lungo l'ode, la quale (piando il poeta si fosse 


(1) T. T. Casteli.i, La lirica e l'epopea del C/dabrera, loco 
citato, pag. IX. 


— 153 — 


ristretto a quel fatto solo, sarebbe stata mollo asciutta 
e meschina : ovvero bisognava che il poeta si fosse, 
all' usanza della maggior parte dei nostri, trattenuto 
in lodi generali della virtù che si potessero applicare 
a tutti e che non con venissero ad alcuno. L’«sempio del 
Gravina dimostra quanta poca affinità vi fosse tra Fanima 
di Pindaro e quella degli uomini del Seicento: e quanto 
questi fossero lontani dal poter capire la poesia del Tebano 
e dal potersene assimilare lo spirito e le forme. Tutto 
ciò considerato, nessuna meraviglia se i posteri giudi- 
carono che le liriche, con le quali il Chiabrera pensava 
e i coetanei credevano che le corde della cetra dorica 
si fossero venute ad aggiungere a quelle della cetra 
ausonia, non sono che un’imitazione esteriore e super- 
ficiale della lirica di Pindaro, come l’esame delle tre 
canzoni, in cui il poeta savonese tratta del giuoco della 
palla, e in generale di tutta la sua lirica, varrà a dimo- 
strare. 

Le famose digressioni, con le quali Pindaro passa 
dalle lodi del vincitore a quella di fatti o persone già 
note e lodate, estendendo normalmente la sua poesia 
oltre i confini dell’argomento personale, ci sono in quasi 
tutte le liriche del Chiabrera, e tutte sono di natura mi- 
tologica: ma appunto per questa loro natura esse troppo 
s’allontanano e, quasi direi, s'estraniano dall’argomento, 
perchè possano trarre con sò tutto quel movimento di 
sentimenti, di idee, di ricordi che destavano le digres- 
sioni di Pindaro negli animi dei Greci: rimangono in lui 
come vane reminiscenze, come mera erudizione, lettera 
morta per noi e aspetti visibili d’un’arte ricercata o 
artificiosa. 

Nella prima poesia infatti dell’anno 1018, dopo aver 
con una serie di più strofe dimostrato che bene operava 
la gioventù toscana, la quale cogli r esercizi i del corpo 
s'apprestava ad acquistar ('arti guerriere (1); e dopo 


(1) Indicherò le tre Liriche del pallone coi numeri che esse 


— 154 — 


fermata con pochi ma abili tocchi la descrizione del 
giuoco (1), e accennato al diletto degli spettatori (2), tra- 
passa a ricercar l’origine del giuoco, che immagina sia 
nato allora quando Ulisse, per calmare lo stani seguace, 
che, arrestato in porto dalle tempeste avverse d’ Aquilone, 
mal soffriva l’indugio e già dimostrava d’adirarsi, gli 
dittò dall’ aure avverse atri gonfiati (fi) e lo invitò a 
vendicarsene e poi... a vincere le miserie e i mali con 
la sofferenza (4). Alle parole di Ulisse 

La sciocca plebe 

E con piedi, e con mano 

llattea le pelli e tea balzarne i venti : 

l’oscia le snggie menti 

Spesero intorno a ciò l'ingegno e l'arte: 

E quinci in ogni loco 

E per ogni stagion fu visto il gioco 

Che a ragion si può dir gioco di Marte (5). 

Questa, secondo il poeta, sarebbe l’origine del giuoco 
della palla. 

Non mancano in Pindaro esempi di invenzioni di fatti 
e di particolari di fatti a illustrazione del suo soggetto 
e a glorificazione del suo eroe. Lasciando da parte 
l’Olimpica V,che la critica ormai ha giudicata spuria (fi), 
nella quale la città di Camarilla, personificata in una bella 
ninfa, si fa incontro al vincitor Psaumida per riceverlo 
con festevole accoglienza, nella famosa Olimpica VII, che 
celebra il pugile Diagora di Rodi, immagina il poeta che 
Apollo, scontento della spartizione del mondo fatta da 
Giove, chieda per sè fimpero di Ródi che sta sorgendo 


hanno nell’edizione citata delle opere del Chiabrera, cioè I.X1 ~ 1 ; 
LXII = 2: LXIII = 3; LXI, strofa 1-2, v. 27. 

(1) LXI. strofa 5. 

(2) LXI, strofa 6. 

(3) LXI, v. 65. 

(4) LXI, strofa 7-9. 

(5) LXI, strofa 10, vv. 83-90. 

(6) Fraccaroli, nell'edizione citata di Pindaro, pagg. 226-230. 


dalle acque ; e, avutolo per suo regno terrestre, s’inva- 
ghisca della vaghissima ninfa Rodi, figlia di Nettuno e 
di Venere, che gli procrea numerosa prole e dà il nome 
alla città principale dell'isola : invenzione fatta per lu- 
singar quei di Rodi che si credevano figli del Sole e a 
questo avevan consacrato il meraviglioso colosso. Altrove 
si riscontrano pure libere interpretazioni di miti e leg- 
gende che la tradizione già aveva composto in una forma 
fissa: nell’Olimpica I modifica a suo talento la colpa di 
Tantalo; nella citata Olimpica VII, dissentendo da Omero 
che ricorda Astioche(l) per madre di Tlepolemo, gli 
assegna Astidamia, figlia d'Amintore, discendente da 
Giove; nella Pizia VI ora concorda con Omero ora da 
lui discorda nella narrazione del sagrifizio che ili sò fece 
Antiloco per salvar la vita del genitore (2). 

Era quindi lecito al Chiabrera, sull’esempio di Pin- 
daro stesso, inventare fatti nuovi e modificare le leg- 
gende antiche nello circostanze e anche nella sostanza. 
Però le sue invenzioni avrebbero dovuto essere con- 
sentanee al carattere del mito e del personaggio antico, 
degne di essi e convenienti al suo argomento. Ma l’in- 
venzione degli otri, ond’egli amplia la sua poesia e la 
atteggia sullo schema pindarico, natagli forse nella 
mente dal ricordo dell’episodio dell’Odissea nel quale la 
voracità dei compagni apre gli otri in cui Ulisse tien 
chiusi i venti contrari avuti in dono da Eolo (3), ò barocca e 


(1) Iliade, II, vv. 657-658. 

(2) Intatti nell’episodio in cui il cavallo ili Nestore è ferito 
da Paride, come si legge nell 'Iliade (Vili, vv. SO e segg.), non 
è il figlio Antiloco clic salva Nestore; esso è soccorso da Diomede 
e accolto sul cocchio di lui. Nè da questo passo dell7//<?rfe nè 
da altri passi di essa o dell’CWmea risulta che Antiloco abbia 
sagrificato sè per salvare il padre. Pindaro modifica liberamente 
le circostanze, per meglio dimostrare il suo assunto. 

(3) Odissea, X, vv. 1-55. Un giuoco, veramente, che si faceva 
con otri pieni di vino, v’era nei tempi antichi ed è cosi descritto 
ila Mercuriale: Erant qui super utres ateo unctns et fino plenos 


— 156 - 


irriverente. Il molto accorto e paziente eroe che ricorre 
al grossolano stratagemma per ingannare i suoi com- 
pagni; e questi, i gloriosi domator di Troia, che, diven- 
tati qui plebe credula e sciocca, sfogano la loro ira 
inutile e impotente sopra otri gonfiati, son semplice- 
mente l’uno e gli altri ridicoli. 

L’invenzione quindi, die di certo non fa onore al- 
l'immaginativa del poeta, onora nemmeno quel suo gusto 
e quella sua proprietà elegante e discreta, che son pregi 
della maggior parte delle sue poesie : abbassati infatti 
e quasi vilipesi i personaggi del mito e il mito stesso, 
dei quali la canzone vorrebbe onorarsi, ne rimane ab- 
bassato e vilipeso l'argomento stesso, che il poeta si 
propone di esaltare. Ma il peggio è che la mancanza di 
discernimento nella scelta del fatto illustrativo e la te- 
pidezza della fantasia nell'immaginazione di essa derivano 
in fondo dall’avere il poeta concepito il tema inadegua- 


pedibus saltarcnt : inter guos rictores ii censebantur , qui ita fte.se 
dextere t/erebant, ut prae lubricitate /turni non cadereni; atque 
hi prò rictoriae proemio utrem cum oino ferebanl; </ui vero terroni 
manibus percutiebant, non sine magna voluptate speetatoribus ri- 
sani rnocebant. Id miteni obseroatum in Bacc/to ladis dieatis, guos 
ascolias vocabant , proditur; in quibus utres caprinis pellibus 
conflati saltiòus calcabantur in caprarum contemplimi, quae adeo 
riti bus in/'estae rider entur. De bis Virgili tts : 

... atque inter pocula laeti 
Mollibus in pratis unetos saliere per utres. 

(Georg. II, vv. 382-383). 

Questo dice Mercuriale (De Arte Ggmnastiea, lib. II, cap. XI, 
coll. 572-573) immaginandoli pieni di vino. Ma gli otri in questo 
passatempo volgare potevano anch’esser pieni di sola aria. Pol- 
luce infatti definisce il giuoco in questo modo: Ascoliàzein si 
dice anche il saltar sopra un otre vuoto, ma gonfiato d'aria ed 
unto in modo che per la lubricità si poteva scivolare (loc. cit., 
lib. IX, cap. VII, segni. 121, pag. 1107). Che sia dai versi citati 
di Virgilio o da un trattato qualsiasi di ginnastica che parlasse 
della ascolia che il Chiabrera trasse l’idea della sua peregrina 
invenzione? 




— 157 — 

tamente; egli, dopo aver lodato il giuoco come fonte di 
valor guerresco (1) e averlo paragonato alle prore di 
possanza fatte dalla gioventute Argiva sul campo Eleo (2), 
ed essersi domandato: 

Quali armati furori 

Virtù d’uomini si destri e sì possenti 

Unqua terranno a segno t (3), 

quasi stanco e pentito di aver spinto il suo tema a pro- 
porzioni immeritate, esce fuori con quei due versi: 

Trastullo militar, scherzo ben degno 
Del saggio Re, che n’arricliì le genti (4), 

coi quali par che ci voglia ammonire che le lodi fatte 
del giuoco sono eccessive e che in fondo non van presi 
sul serio nò il giuoco nè le lodi di esso. Così raffred- 
datasi ancor più la non giù accesa inspirazione e ab- 
bassatosi il tono della concezione, il poeta cade senza 
neppur accorgersene in quella bislaccca e intempestiva 
invenzione degli otri gonfiati; la quale tenta poi invano 
di rialzare nelle ultime battute con le saggie menti che 
spesero poi l’ingegno e l’arte intorno al giuoco e con 
il titolo pomposo di Gioco di Marte (5). 

La seconda delle tre poesie in questione è intitolata 
Per li giocatori del pallone in Firenze restate dell' anno 
1019. In essa la digressione, fatta, a imitazione di Pin- 
daro, con lo scopo di ampliare e di illustrare il tema, 
è assai più propria e opportuna della precedente ; non 
spiace questo allargarsi della poesia a ricercar l’origine 
della fronda, onde si devono incoronare i vincitori nel 
giuoco; anzi l'invenzione ha più dell’altra sapor pinda- 
rico, perchè un processo su per giù eguale troviamo 
nell’Olimpica III, in cui si legge come Ercole trapiantò 


(1) LXI, strofa 3. 

(2) LXI, strofa 4. 

(3) LXI, strofa 6, vv. 50-52. 

(4) LXI, vv. 53-54. 

(5) LXI, strofa 10, vv. 86-90. 


- 158 — 


sulle rive dell’Alfeo gli alberi eletti a incoronar i vincitori 
nei giuochi. Nella canzone del Cliiabrera, la musa stessa, 
Melpomene, interrogata dal poeta, narra come nacque 
l’albero, che dovrà fornir la fronda delle nuove vittorie. 

Era Acero un bello e biondo e forte guerreggiai or 
di belve per le frigie selve (1), e la ninfa Elvida si strug- 
geva d'amore per lui. Ma poiché a nulla valevano i suoi 
lamenti nè i pianti nè le preghiere a smuovere il cuore 
del crudo garzone, al line la ninfa, disperata, prega Ci- 
bele di far le sue vendette. L'ascolta la Dea e la vendica. 
Un giorno mentre Acero era a caccia per le selve, sentì 
il piede piantarsi e ficcarsi in terra e tutte le sue forme 
tramutarsi in quell’albero, che da Acero è chiamato e 
dà le fronde al vincitor del pallone. 

La favola, come si vede, non ha grande pregio di 
originalità: è una variante di quella notissima di Dafne, 
cambiata in lauro, mentre fuggiva da Apollo. Anzi non 
solo si sente in essa l’influenza della narrazione ovidiana 
delle Metamorfosi (2) e specialmente dei versi che ac- 
cennano alla instituzione dei giuochi Pitici (3), ma ancora 
la descrizione della trasformazione di Elvida ha punti 
di contatto e anche frasi comuni con quella della me- 
tamorfosi di Dafne, che si legge nella traduzione del- 
PAnguillara (4), poiché il piè veloce che piantasi a terra 
del Chiabrera (5), ricorda assai da vicino il piè veloce che 
s'appiglia al corso (6)dell’Anguillara; e i versi del primo: 

E verdi rami gli si ter le braccia 

E rozza scorza gli adombrò la faccia (7) 

ci chiamano subito alla mente quelli del secondo: 


(1) LXll, vv. 22-23. 

(2) I, vv. 450-567. 

(3) I, vv. 445-452. 

(4) I, strofe 119-154. 

(5) LXII, vv. 57-58. 

(6) I, strofa 151. 

(7) LXII, vv. 59-60. 


— 159 - 


Le cinge intorno una novella scorza 
Che dal capo alle piante si distende 
Crescon le braccia in rami e in verdi fronde 
Si spargon l’agitate chiome bionde (1). 

Eppure, dopo questa, se non originale, propria almeno 
e opportuna amplificazione, la quale non avvilisce l'ar- 
gomento come la trovata meschina degli otri gonfiati 
di Ulisse e della sua sciocca plebe, ma l’innalza ade- 
guatamente; dopo un altro accenno ai giuochi antichi, 
il quale di nuovo dimostra che nel pensiero del poeta 
i giuochi del suo tempo con gli antichi potevano egua- 
gliarsi (2); dopo l’espressione d’un concetto veramente 
pindarico: che basta cioè come premio ai vincitori una 
bella fronda (3), e il vanto della poesia (4); è singolare 
e doloroso notare come il poeta lasci cader l’alto tono, 
in cui aveva accordato la sua cetra, e termini meschi- 
namente il suo canto. 

Infatti, se già pare fuor di posto la dichiarazione 
ch’egli più volentieri coronerà con la fronda dell’acero 
il capo dei giovani altieri , perchè dice : 

Del tronco istesso anco guernite 
Il nudo braccio, ove a contesa uscite (5), 

spiace poi assolutamente la chiusa: 

Ma Cosmo, la cui luce alma richiama 
D’Italia i bei sembianti, 

1 cui fulgidi vanti 

Anco l’invidia a riverire impara. 

Di cui poggiano al ciel pensieri e voglie 
Largo dell’oro arricchirà le foglie (6); 

dove non so se sia più da lamentare l’esagerata adu- 
lazione o l’inopportuno richiamo alla generosità del prin- 


(1) I, strofa 150. 

(2) LXII, vv. 3-8. 

(3) LXII, vv. 68-69. 

(4) LXII, vv. 71-74. 

(5) LXII, vv. 69-70. 

(6) LXII, vv. 75-80. 


— 160 — 


cipo. È certo però che il nobile concetto, tutto greco e ve- 
ramente pindarico, della corona e dell’innó unici premi 
al vincitore, è sciupato completamente daH’ultimo verso. 
Voleva con esso il poeta dire che Cosimo era, o pre- 
gare che Cosimo fosse, generoso coi soli giocatori oppure 
anche un po’ con chi lui e loro esaltava in tanti bei 
versi? 

La terza poesia, Per Cintio Venanzio da (agli vin- 
cilo)' ne’ ginoc/ti del pallone celebrati in Vivenze l cala le 
dell’anno 1619, non è solo la più bella delle tre che 
trattano del giuoco della palla, ma è una tra le più belle 
liriche del Chiabrera (1). 

Essa non ha, còme le altre due e come tant’altre dello 
stesso poeta, digressione mitologica: ma si svolge tutta 
con pensieri tratti dalle viscere stesse dell’argomento. 
Comincia dal concorso dei giocatori : ne son venuti da 
ogni parte d’Italia: dal vago Urbino (2), da Venezia, 
allevo albergo Dell’ aurea liberlade (3), da Milano dal- 
V ampie strade { 4) e da Osino e da Ancona (5) e da Verona 
di Marte e di Permesso (6). 

E con sembiante a rimirar sereno 
Firenze mia ben gli raccolse in seno (7). 

E son tutta 


(1) Prova ne è che essa ricorre più frequente delle altre nelle 
antologie e nei manuali di letteratura che van per le mani della 
gioventù studiosa. Essa fa bella mostra di sò, tra gli altri, nel- 
I’Ambrosoli, nel Carducci, nel Torraca, nel Bacci e D’An- 
cona: e questi valentuomini non son tali da copiarsi gli uni dagli 
altri. 

(2) LXI1I, v. 4. 

(3) LXIII, vv. 11-12. 

(4) LXIII, v. 14. 

(5) LXIII, v. 16. 

(6) LXIII, vv. 17-18. 

(7) LXIII, vv. 19-20. 






- 161 — 

Gente quadrata e che nervoso il braccio 
I pie’ quasi ha di piume (1) 

od è tollerante del freddo e del caldo e d’ogni disagio (2). 

E pure di valor Cintio la vinse 
E dell’Acero illustre il crin si cinse (3). 

Tatto quest'esordio, se da una parte è grandioso 
perchè ci fa pensare involontariamente alla grande so- 
lennità dei giuochi greci, ai quali straordinaria folla di 
popolo accorreva da tutta l’Ellade e dalle Colonie, dal- 
l’altra è vero e opportunissimo, perchè è innegabile 
che, se destavano gli spettacoli di tal natura grande 
entusiasmo ai tempi del Chiabrera, se frenetiche accla- 
mazioni salutavano i più valenti giocatori e onor stra- 
grande si concedeva al vincitore, se lo spirito del poeta 
in mezzo a tutta questa eccitazione si poteva riscal- 
dare da averne destata l’inspirazione, tutto questo pur si 
doveva in gran parte al trovarsi nelle medesime gare 
concorrenti di parti diverse d’Italia e al parteggiar che 
facevano gli spettatori per i giocatori dell’una e del- 
l'altra regione (4). 

La menzione di Cintio invita poi il poeta a dipingerne 
la robusta e snella persona e a contemplarne la pos- 
sanza e valentia; questi due vocaboli veramente egli 
non li nomina: ma alla valentia accenna e dà risalto 
con una perifrasi mirabile per forza di sintesi e per 
energia e lucidezza rappresentativa: dar legge al volo 
delle grosse palle (5); la possanza indica efficacemente, 


(1) LXIIl, vv. 21-22. 

(2) LXIIl, vv. 23-24. 

(3) LXIIl, vv. 29-30. 

(4) Chi conosce ciò che avviene ancora oggidì, quando nei 
piccoli centri di provincia si l'anno le gare col pallone e vi con- 
corrono i giocatori dei paesi circonvicini, avrà un’immagine, certo 
un po’ sbiadita, di quel che succedeva allora. 

(5) V. 36. 


u 


— 162 — 


riproducendo nel verso l’impressione che di essa ha con- 
servato l’udito, che forse fu dei suoi sensi quello che 
l’ebbe più profonda. Ho detto forse, perchè quando un 
poeta, nel descrivere un fatto, ricorre a questo mezzo 
efficacissimo e quasi suggestivo di rappresentarlo con 
una delle impressioni che ('gli ne ha riportato, noi non 
possiamo discutere se egli avrebbe fatto meglio a sce- 
gliere piuttosto I’una che l’altra impressione; questo è 
affai’ soggettivo di lui; noi abbiam solo il diritto di con- 
trollare, prima, se l’impressione fu verace ed è sincera- 
mente riprodotta; poi, se essa fu profonda sì da destar 
la fantasia e spingerla a comporre e ritrovare un'imma- 
gine viva e poetica da deporre nel verso. Ora il Chia- 
brera, scegliendo l’impressione acustica avuta dai colpi 
di Ci ntio per rappresentar la sua forza e destrezza, foce 
invero una buona e opportuna scelta, perchè il rimbombo 
del colpo sta in relazione diretta con la violenza di questo 
e la violenza di questo con la forza con cui fu dato. Sicché 
dalla frase 

E tutto rimbombar l’aereo calle 

Alle percosse intorno(l) 

balza fuori viva e spontanea l’idea della forza del gio- 
catore. Il che avviene, perchè il poeta, tra le varie im- 
pressioni riportate dallo spettacolo, fu pronto e docile 
ad accettar quella che, per essere stata la più profonda, 
era anche stata la più durevole e nell’atto del comporre 
era ancora in lui la più potente cioè la più atta a de- 
stargli e riscaldargli l’inspirazione. 

Mi son trattenuto alquanto a ricercar la genesi e la 
formazione estetica di questi versi, non solo perchè mi 
parvero belli in sè, ma anche perchè diedero argomento 
ad alcune critiche che non sarà inopportuno discutere. 
L’Ambrosoli, riportando nel suo Manuale questa can- 


dì Vv. 37-38. 


— 163 — 


zone ilei Chiabrera, al verso Dar legge al volo delle grosse 
■ galle , appone questa eli iosa : 

Grosse palle — L'autore si studia di dare al suo sog- 
getto quella nobiltà che nel cero non gli appartiene 
uà per questo può sollevarlo alla dignità lirica. Non 
ogni cosa à degna di essere celebrata poeticamente : e 
la frivolezza ha un difetto intrinseco che non può 
essere pienamente ammendato da nessuna bellezza di 
stile o di verso (1). 

Lasciando da parte che grosse palle è un termine 
tecnico, il quale indica, delle varie forme di giuoco, la 
più nobile e difficile c faticosa, che era quella appunto 
a cui Cintio giocava, l'Ainbrosoli basa la sua critica sopra 
i principi di un’estetica ormai tramontala. Se si dovesse 
sopprimere tutta la poesia che ha per argomento sog- 
getti frivoli e leggeri, si eliminerebbe gran parte, quasi 
direi la massima parte, della letteratura antica e mo- 
derna. Il che vai quanto dire che non ò la materia che fa 
la vera ed eterna poesia, ma l’arte con cui è trattata ; 
quell'arte divina che col suo soffio anima di vita im- 
mortale qualsiasi argomento e basta da sola a sollevarlo 
a qualsiasi dignità e nobilitarlo pei- qualsiasi più ele- 
vata forma poetica. E se anche alla mente dell’Ambrosoli, 
chiusa nel pregiudizio della sua teoria estetica, non si 
affollarono gl’ influiti esempi, antichi e moderni, a farlo 
ricredere del suo errore, come potè egli dimenticare che 
il medesimo soggetto, trattato dal Leopardi, aveva acqui- 
stalo dignità e bellezza lirica pari a quella che si riscontra 
in tutte le altre poesie di lui? 

II Venturi poi, riferendosi a questa nota dell'Ambro- 
soli. nega chi- l'argomento scelto dal Chiabrera sia per se 
sfosso frivolo, lo non credo, scrive l’illustre critico, che 
i difetti di questa canzone provengano dalla frivolezza 


(1) Manuale della Letteratura Italiana, compilato da F. A.vi- 
brosoli, Firenze, Barbera, 1372, v. Ili, pag. 35, nota 3. 


— 164 — 


del tema, perchè la forza e la destrezza possono be- 
nissimo inspirar lìoesia (1). E ha ragione. Al Goothe 
infatti, l’intelletto forse più pagano dei tempi moderni e 
quindi il più atto a sentire tutta la poesia della forza 
e della destrezza, la visione dei giocatori ammirati a 
Verona si converte subito in un’immagine di bellezza. 
K naturalmente, senza sfm'zo, si producono delie mo- 

reme e degli atteggiamenti bellissimi Specialmente 

bello è V atteggiamento di chi, correndo già dal tram- 
polino incontro alla palla, lancia il primo colpo. Si. 
avvicina molto al gladiatore della galleria Borghese (2). 
11 Goethe dunque, che aveva fine, acuto e pronto il senso 
della bellezza plastica, che gli antichi, i Greci specialmente, 
prediligevano sovra ogni altra bellezza, subito la scopre 
nelle movenze e negli atteggiamenti dei giocatori e, 
compiacendosi nel ripresentarsela e nell’ammirarla, ecco 
il suo ricordo atteggiarsi in fantasma poetico e richia- 
margli al pensiero l’immagine della bella statua antica. 
E che è questo, se non una delle bellezze del giuoco, 
capaci di diventar poesia in chi le sa rilevare e sentire? 
Nel rimpianto con cui il grande poeta fluisce la sua no- 
terella Perchè non farlo nell' anfiteatro, ette sarebbe 
così bello? (3), noi già sentiamo accenderulisi la fantasia e 
quasi vediamo delinearsi e agitarsi nel suo spirito un 
complesso di sensazioni, d’impressioni, di visioni este- 
tiche e di reminiscenze antiche, le quali, poco più che la 
mente vi si fosse fermata sopra, si sarebbero avviate a 
divenir vera e propria poesia. Il giuoco dunque, esercizio 
di forza e di destrezza, ha in sè la virtù di destare imma- 
gini di bellezza in una mente atta a riceverle. Ora, se 
a questa sua virtù si aggiunge il concetto della sua 


(1) Giornate Storico della Letteratura Italiana, voi. IX, pa- 
gina 437. 

(2) W. Goethe, Viaggio in Italia, Horaa, Officina poligrafica 
italiana, 1905. Traduzione di A. Tomei, pag. 31. 

(3) 11)., pag. 32. 


— 165 — 

benefica efficacia sopra lo sviluppo delle forze fisiche e 
morali ; e se il concettò pindarico, rimasto astratto e 
teorico nel Chiabrera, delle virtù militari che per mezzo 
di quest’esercizio si acquistano, si mette in relazione 
con quello d'una patria bisognosa di buoni cittadini e 
valorosi soldati, il giuoco non può non diventare argo- 
mentò di alta poesia patriottica e civile. 

Ma poiché queste fonti, dond’avrebhe potuto derivare 
nelle sue tre liriche un materiale poetico intrinseco e 
sostanziale, nonché nobile e utile, vennero a mancare 
al Chiabrera, egli s’aggira per lo più intorno al suo 
argomento senza approfondirlo, spingendo innanzi lo svol- 
gimento con concetti esterni e accessori, ricorrendo 
spesso alle amplificazioni digressive all'uso di Pindaro 
e mutuando non raramente da lui idee e forme. Di qui 
quella innegabile superficialità e leggerezza che l’Am- 
brosoli rimprovera al soggetto, ma che più giustamente 
si dovrebbe addebitare alla qualità dell'ingegno del poeta 
e alle condizioni tristi del suo secolo: di qui anche il 
falso modo onde questi (il Chiabrera) considera e tratta 
il tema per ingrandirlo e gonfiarlo, per imitar Pin- 
daro, per inalzare ed esaltare il suo braco giocatore 
di pallone, come fosse esso vincitore di pubblici giuochi 
nel circo all'oliato dei popoli di Grecia, che spiacque 
al Venturi (1). 

Ma per tornare all’analisi della poesia, lo stesso Venturi 
biasima come esagerata e sforzata la similitudine con 
cui si chiude il passo finora discusso: 

Qual se Giove talor fulmini avventa 
E squarcia i nembi e i peccator sgomenta (2). 

Ma salvo l’accenno mitologico, suggeritoevidentemente 
al poeta dal desiderio di dare alla poesia un’intonazione 


(1; Loc. cit., pag. 43s. 
(2) LXIII, vv. 89-40. 


— 166 — 


sempre più pindarica, io non trovo nell’immagine tutta 
quella esagerazione e quello sforzo che ci vuol vedere il 
Venturi. Anzitutto bisogna tenere a mente che ilChiabrera 
era naturalmente inclinato a colorire con forti tinte 
quell’impressione acustica che dovette essere, come si 
disse, la più forte ch'egli riportò del giuoco, e che la 
similitudine continua benissimo un linguaggio già colorito 
qual’è il rimbombar dell'aereo calle per le percosse. 
In secondo luogo è ancor dubbio se la similitudine sia 
realmente esagerata. Certi colpi, dati da giocatori valenti 
e robusti, sembrali veramente scoppi di tuonò; o lo può 
sapere chi sia stato, anche una volta sola, in uno ste- 
risterio: tant’è vero che anche altri poeti non rifuggi- 
rono daH’adoprarla in semplici descrizioni, senza avere 
forse quelle buone ragioni di farlo che il Chiabrera 
aveva. Taccio del Marino, gonfio anch’esso, il quale spinge 
veramente l’immagine fino all’ultimo limite della verosi- 
miglianza. È Apollo che parla: 

Perchè vo’ che con scoppio e con rimbombo 
Stiglia a le nubi e poi trabocchi a piombo (1). 

Ma il Forteguerri è poeta semplice e schivo d’ogni gon- 
fiezza di forma e di concetto. Eppure non si peritò di 
scrivere: 

Citi ha veduto giocare al pallon grosso 
Può dir d’aver veduto la tempesta (2). 

E per aggiungere ancora la testimonianza auricolare 
(l’un moderno, il De-Ainieis dice del Bossotto che faceva 
delle battute come cannonate (3). 

Quindi, da questo lato, la similitudine non ha nulla 
di esagerato; ma se il Venturi non avesse fermato troppo 
su di essa la sua attenzione, avrebbe sentito il Seicento 


(1) Adone, XIX, strofa 50. 

(2) Ricciardetto, canto XXI, strofa 60. 

(8) De-Amicis, Gli Azzurri e i Rossi, Torino, Casanova, 1897, 
pag. 82. 


— 107 — 


entrar più clamorosamente, con tutto il corteo delle 
suo turgidezze e stravaganze, nei versi elio seguono: 

K tu se il corpo lasso 
Lavar desii, e rinfrescar le vene, 

Non ricercar quaggiù acque terrene. 

Figlie d’alpestre sasso: 

Chè a ristorar delle fatiche oneste 
Altrui versi di l'indo acqua celeste (1). 

Nei quali, se appai* veramente inesperta l’arto con la 
quale il linguaggio proprio si intreccia col figurato, l’im- 
magino dell’acqua di l’indo, la quale, versata dal poeta, 
deve ristoravi’ il suo campione delle fatiche Oreste non 
solo, ma tarargli il corpo tasso e rinfrescar le rene, 
è quanto di più secentistico si potrebbe trovare. 

A questo punto il poeta, abbandonata la trattazione 
oggettiva del tema, piega questa sua canzone, come 
già aveva fatto con la precedente, a dir le lodi del Gran- 
duca. Il trapasso però ò singolare. Il poeta quasi sgo- 
mento della promessa d’essere il glorificatore del suo eroe 
tutto si conturba : 

Deli che promisi ? In sul formar gli accenti 
Quasi cangio sembianti, 

Chè darli alla bilancia delle genti 
E’ risco ai nuovi canti (2). 

A parte quest’ultra esagerazione del cangiar sembianti 
che dovrebbe essere l’effetto d’una commozione che noi 
non sentiamo nel poeta, che cosa intend’egli con i nuoci 
canti? Non certo canti d’imitazione pindarica, poiché 
prima di queste liriche del pallone altre e altre di 
stampo pindarico n’aveva egli già pubblicate ed erano 
state accolte con tale favore da non dover più aver dubbio 
alcuno su di esso. Dunque non della nuova arte (‘gli 
poteva dubitare: piuttosto dubita del soggetto preso a 


(1) LXIII, vv. 55-60. 

(2) LXIII, vv. 61-64. 


— 168 — 


trattare, cioè del giuoco. E infatti il poeta, non essendo 
potuto assurgere a considerar questo sotto i tre aspetti 
che abbiali detto sopra, i quali lo avrebbero reso degno 
di qualunque forma poetica, par quasi che diffidi che 
un cosi semplice esercizio potesse essere approvato come 
argomento d'una lirica pindarica, o almeno potesse esser 
creduto capace di dar tanto onore, quant’egli n’aveva 
promesso: si trova quindi qui nelle medesime condi 
zioni di sentimento, in cui si era trovato quando aveva 
chiamato il giuoco trastullo militar, scherzo ben degno; 
e in entrambi i casi quelle condizioni furono determinate 
nell’animo suo da un’ insufficiente estimazione del tema. 
Il soggetto, quindi, poco valido per sè, si valga dell’alta 
protezione di Cosimo: 

Ma sia vano il sospetto 

In sulla cetra vo’ seguir mio stile ; 

Esser cosa non può, salvo gentile 
Ove Cosmo ha diletto. 

Invidia taci, e le rie labbria serra ; 

Il Re dell’Arno in suo piacer non erra(I). 

« 

Cosi si spiega come tuia poesia cosi bella abbia potuto 
avere una chiusa cosi infelice, se pur non si vogliono 
ricercare altre ragioni più personali, che certo avrebbero 
pur esse il loro valore. 

Le digressioni amplificative ed esornative non sono 
il solo amminicolo dell’arte pindarica che il Chiabrera 
abbia trasportato nella sua poesia : un altro, anche più 
frequento, è la comparsa della persona del poeta nel- 
l’argomento oggettivo del tema. Ogni momento l'io 
compare a interrogare, a rispondere, a ricordare, ad 
ammonire, a giudicare, a lodare, a correggere secondo le 
esigenze del contesto. Ma in Pindaro, questo suo intro- 
mettersi nella poesia aveva una ben alta ragione. Poeta 


(1) LXIII, vv. 65-70. 


169 — 


e profeta a un tempo, egli era ai suoi stessi occhi 
e a quelli dell’eroe celebrato e a quelli del popolo plau- 
dente il dispensiere di gloria, l’alunno caro alle muse, 
il quale doveva immortalare coi suoi canti i grandi fasti 
<lella patria e con essi la gloria del vincitore. Santa era 
quindi la riverenza verso di lui, indiscussa la sua auto- 
rità; la sua parola inspirata aveva quasi il valore del 
responso dell’oracolo. Libero quindi egli, scelto il suo 
eroe e i modi della sua canzone, non solo di lanciarsi 
a volo sulle ali dell’inspirazione ad afferrar lontano quel 
mito o quella leggenda o quella tradizione che più va- 
lessero a illustrar il suo argomento, ma d’intervenire 
a spiegare il senso della digressione scelta, a metterla 
in relazione col tema, a sottolinearla nei punti più im- 
portanti, a fissarla negli incerti, a correggerla negli errati ; 
spesso poi a dar sentenze gravi, che diventavan massime 
di sapienza e di giustizia. 

Quello quindi che in Pindaro ò il prodotto di condi- 
zioni particolari del suo ingegno e dello spirilo dei tempi, 
nel Chiabrera è invece un metodo esteriore di compo- 
sizione, un vezzo così abituale che, per ripetersi troppo 
spesso e senza necessità, diventa alfine monotono e te- 
dioso. 1 pretesti per intromettersi sono talvolta addirittura 
futili, come quello, per esempio, con cui incomincia la 
canzone a Cintio, dove il poeta dice alla Musa: « lo son 
vecchio: mal mi reggon le gambe; va tu, Euterpe, a l'r- 
bino ad annunziar la vittoria del germe di Cagli »; sicché 
la poesia comincia e, come s’è veduto, finisce con pre- 
sente la persona del poeta. Nella prima delle tre liriche 
del pallone, dopo un breve e ben fedele quadro dello 
opere di pace in cui si va esercitando la gioventù to 
scana, volendo il Chiabrera ricordare che il medesimo 
facevan gli efebi greci, non ci trasporta dilettamente a 
quei tempi con un cosi sul campo Eleo, ecc., che avrebbe 
data al passo tanta più forza e vivezza, ma ci trascina 
sulla scena dei giuochi antichi, facendoci passare attra- 
verso a una sua reminiscenza soggettiva : 


— 170 — 


Io ben già mi rammento 

Sul campo Eleo la gioventute Argiva 

Far prova di possanza (1), 

la quale reminiscenza ritarda in noi la visione di quella 
scena e raffredda per conseguenza la rappresentazione. 
Nella lirica seconda ancora il poeta interroga la Musa: 

Or sull’Arno a Gioventù che spande 
Sudore in giuochi egregi. 

Melpomene, quai fregi, 

Deh dimmi, e quali si daran ghirlande ? (2), 

interrogazione che ricorda l’apostrol'e di Pindaro nel 
principio della seconda Olimpica; e nella stessa lirica è 
ancora lui che promette al vincitore di incoronarlo con le 
proprie mani (3): cosa che ripete poi, come vedemmo 
nella canzone a Cinlio, togliendola anche (pii da 1 in- 
duro (d). Ma a che moltiplicar gli esempi, se, omettendo 
quelle in lode del sommo pontefice Urbano Vili, delle 
ottanta canzoni eroiche del Chiabrera, solo in otto non 
compare direttamente la persona del poeta e ancora in 
queste si potrebbe trovar la ragione perchè non com- 
pare ? Dato del resto il carattere morale del Chiabrera, 
abbastanza amante di sè e non privo di una certa qual 
superbietta, d’un’ambizioncella che non lo rendeva punto 
schivo ‘dalle distinzioni e dagli onori, non ò a stupire 
che tanto volentieri facesse della persona prima quel 
cosi largo uso che, mentre soddisfaceva al suo amor 
proprio, aveva la sanzione di abbondanti esempi nell’opera 
del maestro (5). 

Lo invocazioni alla Musa in generale o a qualcuna delle 


(1) LXI, vv. 32-34. 

(2) LX1I, vv. 11-14. 

(3) LXI 1 1 , strofa 7. 

(4) 01. 1, strofa 15. 

(5) Delle 14 Olimpiche in 11 entra la persona del poeta; nelle 
Pitie, nelle Nemee e nelle Istmiche, entra in tutte, tranne nella 
seconda Nemea e nella terza Istmica. 


— 171 - 


Muse in particolare son troppo frequenti presso i poeti, 
perchè il ritrovarne spesso e in Pindaro e nel Chiabrera 
possa ritenersi come una nuova prova della dipendenza 
del secondo dal primo: benché l’abbondanza di esse e il 
metodo quasi omogeneo di usarle, indichi lontanamente 
una stessa maniera di poetare, come pure la indicano 
le frequenti interrogazioni comuni ai due poeti. Però 
più notevoli sono le apostrofi alla cetra. Di queste Pin- 
daro ne ha due che son note: quella con cui comincia 
l’Olimpica prima e l'altra della Pitica seconda. Il Cliia- 
brera di apostrofi dirette alla cetra ha un solo esempio 
nella sua prima canzone eroica (1); può darsi che, latto 
più cauto, si sia astenuto in seguito da un’imitazione 
cosi palese; ma gli accenni alla cetra son tuttaltio cln 
rari nelle sue liriche (2). Non meno caratteristiche e a 
quelle affini sono le apostrofi al cuore, all’anima, all in- 
gegno. Pindaro ne ha una al core nell Olimpica seconda: 

Ma al segno ornai l’arco dirigasi. 

Or su, cor mio, chi colpirem dall’ilare 
Mente scagliando ancora i dardi splendidi ? (3). 

Un’altra pure al core ha in uno scolio frammentario al 
giovinetto Teosseno, sulle cui ginocchia egli sarebbe 
spirato secondo la leggenda: 

Meglio era duopo cogliere, cor mio, 

Con giovinezza a sua stagion l’amor Off. 

Nè dissimile da queste, dal lato logico come da quello 
della formazione tecnica, è l’apostrofe bellissima alla 
bocca 


(1) I, strofa 1 e 7. 

(2) IV, strofa 9; IX, strofa 1; XXII, Strofa ultima; XXIX, 
strofa 2; XXXI, strofa 8; XXXII. strofa 8; XIII, strofa 5 e 10; 
LXXII, strofa 2, ecc. 

(3) Pindaro, tradotto dal Fraccaroli, ed. cit., 01. H, ami- 
strofa 5, pag. 210. 

(4) Ib-, pag. 17. 


O bocca, gittalo 

Lungi questo discorso; chè offendere i Numi 

[è inviso studio, 

E il vanto inopportun s’accorda al suor; 

Del folle. Or non presumere 

Cianciar tai cose; lasciale 

Le battaglie dei Superi 

Starsi e le guerre, e la tua lingua recala 

Di l’rotogenia all’auree ... ecc. (1). 

Il Chiabrera, secondo l’esempio di Pindaro, parla assai 
volentieri al suo core e alla sua anima: 

Anima, eccoci intorno un mar che freme, 

Mar che nasconde i lidi... (2), 

che è una variante del concetto di Pindaro espresso nella 
Nemea IV : 

Or s’anco in mezzo un’ampia 
Marina onda distendasi 
Sii tu a resister provvido (3), 

dal quale derivati pure le altre due apostrofi al core; 

Cor mio, non veniam meno; 

Fatti franco per via (4) 

e 

Cor mio, soverchio ardito 
Oggi inalzi le vele (51. 

Ma, messosi per questa via. il Chiabrera spinge la 
cosa lino all’esagerazione: cosi spesso ama rivolgere il 
discorso a sè, seguendo la naturai sua inclinazione a 
parlar della propria persona; e per lo più questo fa per 
interrompere una simulata inspirazione, dalla quale egli 
finge di temere d’esser trasportato troppo lontano: 


(1) Ib., Ol. IX, strofa 2, antistrofa 2, pag. 288. 

(2) Chiabrera, XLI, strofa 7. 

(3) Fraccaroli, loc. cit-, strofa 5, pag. 565. 

(4) Chiabrera, LXXIII, strofa 8. 

(5) Ib., LXY, strofa 7. 


Dove corro io? di si veraci lidi 
Per lo ciel cosi puro 
Ben potrei sulle piume in vari modi 
Per lunga via dedaleggiar securo : 

Ma fren severo e duro 
Che di bell’inno ai canti 
Piccolo spazio trasvolar consente 
Fa ch’io non passi avanti (1); 

e altrove: 

Vaneggio forse che per l’aria a volo 
Sembrano i versi miei batter le piume? (2); 

e ancora: 

Deh dove corro ? oblio 
L’uso del mondo? (3). 

Tra i quai modi di arte, che invano cercano di masche- 
rare una simulata inspirazione, io non esito a mettere il 
Ma che promisi ? ecc. (4) 

della canzone a Cintio e tutti far derivare dall’uso pin- 
darico di dirigere la parola alla cetra o al core o al- 
l'ingegno. 

Le sentenze, gravi e gravemente espresse, tratte sem- 
pre daH'intima essenza dell’argomento, sono una delle' 
particolarità più note dell'arte «li Pindaro. Anche in queste 
lo imita il Chiabrera. Nelle tre liriche del giuoco della 
palla, tre ne ha, una per ciascuna ode: nella LXI, lo- 
data la gioventù toscana di prepararsi con gli esercizi 
all’arte guerresca, dice: 

Non è vii meraviglia 

Dal diletto crearsi il giovamento, 

Quinci ben si consiglia 

Un cor nell’ozio alle bell’opre intento (5). 


(1) XLIII, strofa 8. 

(2) LI, strofa 8. 

(3) LXXIII, strofa 12. 

(4) LXXIII, vv. 61-64. 

(5) Vv. 30-34. 


— 174 — 


Leggera sentenza forse, perchè troppo ovvia: inoltre i due 
concetti che la compongono, avendo tra loro poco nesso, 
non le dànno quelLimpronta saldamente fusa che è ne- 


cessaria all'aforisma. 

La sentenza della lirica LXI, che la virtù s’avanza 
or’ e Ila di merci* prende speranza (1), è poco significante 
per l’ambiguith del vocabolo merci», il quale, se da una 
parte si può riferire alla corona che si dava al vinci- 
tore sul campo Eleo, poco prima menzionata, dall alti a 
fa pensare troppo facilmente al concetto prettamente 
utilitario con cui si chiude la poesia, perdendo cosi ogni 
efficacia gnomica. 

Nobile in sè e nobilmente espressa è la sentenza della 


lirica a Cintio: 


Cintio, sentier di desiata gloria 
Ila passi gravi e forti: 

Ma pena di virtù, siati in memoria, 
Non è senza conforti (2). 


È, come ognun vede, il concetto dantesco del In fumo non 
si rieri , ecc., degno veramente d’uiia poesia di carattere 
pindarico. Esso segna il punto culminante a cui arriva 
la bellezza della canzone a Cintio, la quale dopo discende 
e degenera nella falsa immagine secentistica dell'acqua 
celeste di Pindo che deve ristorar le fatiche oneste di 
Cintio , per finire con un dubbio inopportuno e con la 
solita adulazione. La presenza delle tre sentenze nelle 
tre liriche dimostra ancora chiaramente quanto abbia 
influito Limitazione pindarica a render monotona e uni- 
forme la tecnica dell’arte chiabreresca. 

Nelle due prime liriche la sentenza che precorre o 
segue immediatamente il ricordo degli onorati giuochi sul 
campo Eleo è una prova che l’occhio del poeta era ancor 
tutto intento al modello greco. Nella lirica a Cintio, il 


(1) w. n-12. 

(2) Vv. 51-54. 


— 175 — 


Chhtévora si sforza evidentemente di distaccarsi da esso : 
non fa più nessuna menzione dei giuochi antichi: non 
fa più nessuna citazione mitologica: la scena è tutta 
nei tempi suoi, popolata ila gente sua contemporanca. 
V’è quindi dentro un soffio di vita; vi s’ammira un quadro 
abbastanza fedele o caldo della realtà. Pare in essa che 
il poeta, affrancatosi, almeno in parte, dal giogo dell'imi- 
tazione pindarica e remota l’ombra fredda d’ogni remi- 
niscenza classica e mitologica, si senta più libero di 
esplicare le qualità migliori del suo ingegno, cioè il suo 
spirito sagace di osservatore e la sua arte di descrit- 
tore (1). E ci vien fatto di pensare che se il Gbiabrera, 
per ricondurre tra di noi la lirica di Pindaro, non si 
fosse cimentato con una l’orma letteraria da cui erano 
troppo disformi le forze del suo ingegno e che gli era 
contesa dalla tristizia dei tempi, e se le varie attitudini 
sue di descrittore e di figuratore e di stilista avesse ri- 
volto ad altri generi letterari, in cui dimostrò di saper 
meglio riuscire, avrebbe senza dubbio raggiunto un più 
alto segno di perfezione. Ma non erano atti i suoi tempi 
a una lirica civile e patriottica, quale sarebbe dovuta 
essere quella imitata dal poeta Tebano: prima che 1 Italia 
abbia potuto avere una lirica clic alla pindarica si avvici- 
nasse, convenne che tutta la coscienza popolare si trasfor- 
masse radicalmente sotto il benefico influsso della civiltà 
greca penetrata finalmente nell'anima italiana. Solo col 
classicismo, cioè con il rinascimento più completo e più 
vitale della civiltà greca, essa potè sorgere per opera 
del Parini, del Foscolo e del Leopardi. 


(1) La rara abilità e la rara valentia pittorica del Chiabrera 
si rileva specialmente nell’uso dell'epiteto. Pochi poeti furono ori- 
ginali (pianto lui nel ritrovarne dei nuovi e nell’unire vocaboli 
solitamente disgiunti , tanto che ne sgorgasse la eosidetta « felix 
coniunctio ». Molti poeti posteriori derivarono da lui concezioni 
poetiche, giri di frasi ; come il Monti il Foscolo d Pindemonie 
(Venturi, loc. cit-, pag. 431), a cui io aggiungerei il Parini e il 
Manzoni. 


— 176 — 


• # 

Fu l’influenza del carattere pindarico delle tre liriche 
ilei Chiabrera c’abbiamo esaminate, oppur la reale af- 
fluita dello spettacolo d’un giuoco di palla fatto con 
pompa in un grande sferisterio con i solenni giuochi 
antichi, la ragione per cui noi, a proposito appunto di 
quell’esercizio, troviamo menzionato Pindaro in un poe- 
metto d’un poeta bolognese della fine del secolo XVIII? 
Non saprei rispondere; ma sia l’una cosa sia l’altra, è 
questa di certo una prova novella che in quello spet- 
tacolo qualcosa c’i'* dei giuochi antichi e che altro ar- 
gomento più pindarico nei tempi moderni non esiste. 

Bologna, insieme con Firenze e Ferrara (1) (e aggiun- 
giamo, col Ricci, anche Urbino) (2) fu sempre una delle 
città italiane, dove il giuoco della palla era tenuto in 
maggior onore; lo tracce di esso, antiche e frequenti, 
ne sono una testimonianza luminosa: il giuoco dopo aver 
vagato qua e là per le vie cittadine (3), s’era fermato 
nei pressi della Montagnola, ove s’era costruito un gran- 
dioso sferisterio di classica architettura (4), che divenne 
il campo di gare illustri. Lo sferisterio fu costruito nel 
177G ed il poemetto menzionato fu pubblicato nel 1780. 
S’intitola La Montagnola di Bologna e ne ò autore un tale 
Iacopo Tarulli (5). Il quale, volendo illustrare le bellezze 
della Montagnola, passa in rassegna gli splendidi monu- 
menti che l’adornano : il magnifico e sontuoso palazzo 
arcivescovile, la Chiesa Metropolitana, il placido util 
canale detto il Guazzatoio, la chiusa di Casalecchio fatta 


(1) Frati, La vita privata di Bologna, pag. 138. 

(2) Ricci, 1 teatri di Bologna , pag. 674. 

(3) Cfr. Ricci e Frati, loc. cit. 

(4) Jb. 

(5) La Montagnola di Bologna , Bologna MDCCLXXX, poe- 
metto dedicato da Iacopo Taruffi a 1* rancesco Albergati-Ca- 
pacelli, Patrizio e Senatore di Bologna, ecc. ecc. 


— 177 - 


costruire dal celebre Albornoz governatore a latere di 
Bologna e il nobile albergo 

Alle tre intitolato arti preclare 

Ed a I’allade sacro e al biondo nume, 

e finalmente lo sferisterio (1). 

Ma qual s’affaccia alle inarcate ciglia, 

Contemplatrici dell’aperto cielo 
Globo volante lenditor dell’etra, 

Che il prescritto intervallo or quinci or quindi 
In disugual parabola misura ? 

Ecco, veramente quel subito veder colle inarcale 
ciglia , contemplatrici dell’aperto cielo, il globo volatile 
che misura or quinci or quindi il prescritto intervallo 
prima di scojfrir con lo sguardo l’edificio non tanto pic- 
colo e tale dwservir per giocarvi alla palla, mi pare un 
po’ strano; ma lasciamo correre. 11 poeta vede tosto i 
giocatori nella quadrilunga arena. 

Di cesto armati il nerboruto braccio, 

pronti a disputarsi l’onor della vittoria; e gode ammi- 
rando il campimi primo, che, appostatosi con feroce 
gravità, sta fisso al 

Buttator, che si chiama il Mandarino, 

mentre tutti gli spettatori pendono dalle sue voglie. Fi- 
nalmente ei si lancia 9 

A vibrar con precipitevol lena 
Contra un pallon buttato il primo colpo. 

Il rivale attende la ribattuta e, se può, raffronta egli 
stesso; altrimenti 

Del compagno ledei chiama il soccorso, 

Che pacifico al balzo il globo attende. 

Cominciate così le vicende dell' ardente mischia, il poeta 


(1) Pag. 2 e segg. 


12 


descrive con meticolosa abbondanza di particolari i mo- 
vimenti dei giocatori, 

Finché in tratti più corti e al suol vicini 
Fra gli emuli minor cessa il contrasto. 

L’appuntatore intanto nota il segno di due fermate, 
cioè le cacce (che chiama anche marche)', e le squadre, 
cambiato posto, se le vanno disputare; e neppur tralascia 
l’autore di notare la regola del giuoco a cacce, le quali 
vanno entrambe guadagnate da una sola parte, perchè 
il giuoco si compia; altrimenti esso rinasce, tranne il 
caso che vi sia una caccia sola, chè allor basta vincere 
questa. 

A questo punto viene in campo la folla degli spet- 
tatori, che partecipa con passione alla partita e 

Or plaude, e approva i snelli, or coce e sprona 
I neghittosi... 

e ondeggia tra le vicende del giuoco 

Qual bionda messe alla stagione estiva 
Per lo spirar di placid’aura. 

Gli occhi di tutti però non sono solo attenti ad osser- 
vare le vicende del votante pallone 

Ma ad evitarlo ancora e aprirgli il passo 
Ovunque il caso e l’impeto lo spinga, 

con premura non minore di quella con la quale l’affollata 
turba cede il passo alla guardia elvetica, con paragone 
che non spiace, perchè sono evidenti c proprio e con 
sufficiente abilità messe in rilievo le varie note di somi- 
glianza che uniscon tra loro i due concetti. 

Sovra il vulgo degli spettatori dunque, cosi intento 
a schermirsi del minacciante globo, non erano tese reti 
che lo difendessero: e se per essere l’arena più vasta 
e capace, più difficilmente potevano accadere disgrazie 
mortali, come quella che s’ebbe a lamentare in un giuoco 
fatto nel 1602 nel salone del palazzo del Podestà, quando 
uno degli astanti ebbe sfracellato il cranio da un colpo 


(li bracciale (1), credo che ancor fosser questi del Tarlili! 
i tempi barbari in cui si portarmi via dallo sferisterio 
donne svenute, radazzi con un occhio pesto, uomini 
col naso spiaccicato (2). Ma che fanno al poeta queste 
piccole miserie del volgo? Egli vede difeso lo stuol degli 
spettatori gentili e gli basta: non che troppo questi 
gli interessino in sè; ma egli si rallegra di veder cosi 
evitato il pericolo che il pallone cadendo or sulle curve 
spalle di Severo Caton del secol nostro, or di Narciso 
sull’ambrata chioma venisse 

Nel vulgo ìiB eccitar proterve risa 
E di scherrW a turbar l’altrui piacere. 

A certe pallonate insemina, che non avevan nessun 
rispetto nemmen per la boria nobilesca degli illustrissimi 
signori, pare che il volgo ci provasse un gusto matto e 
s'abbandonasse a clamorose risate, che turbavan la tran- 
quillità e la regolarità del giuoco. Ciò spiaceva al poeta 
e lascia capire che le reti lo interessavano in quanto ve- 
nivano a ovviare a un simile inconveniente. 

Eppure un giuoco che ò 

Nobile e antica e dilettevol gara; 

un passatempo che ò così delizioso e cosi atto ad in- 
gannar la noia del caldo vespertino decade e il poeta 
soffre vedendo che 

V’ha chi trapassando appena appena 
La solenne trincea degna d’un guardo. 

La ragione? Eccola: Variano i gusti 

... e da diverse fonti 
Proporzionato aH’Uoni nasce il piacere. 

Causa generica e indeterminala, non sufficiente a spie- 
gare un effetto determinato e particolare. Forse un em- 


(1) Cronica Rianchina della Regia Università di Bologna, 
n. 896 presso Ricci, loe. cit., pag. 677. 

(2) I)e-Amicis, Gli Azzurri e i Rossi , pag. 51. 


- 180 — 


brione di concetto più preciso aveva in niente l’autore 
e vi accenna con quel proporzionato all’Uom. Sarebbe: 
la piccola gente contemporanea ama i diletti piccoli: il 
giuoco, esercizio grandioso e violento dà diletto grande ed 
energico: fu quindi amore d’altri tempi e d’altri uomini: 
non lo potrebbe essere dei nostri. Ma questo concetto, 
che potrebbe avere il suo valore, occorreva svolgerlo e 
anche dimostrarlo; l’autore non fa nò l'una nè 1 altra 
cosa, rivelando la grande imperizia dell’arte sua. E ve- 
ramente egli non ba profondità nò di concetti nè di sen- 
timenti: concepisce gli uni con poca chiarezza e preci- 
sione, sente gli altri con poca forza e vivezza: ci son 
quindi nella sua poesia oscurità di pensieri, sovrabbon- 
danza d’idee accessorie, indeterminatezza di contorni, 
incertezza di tocco. La causa della decadenza del giuoco 
così vagamente e genericamente espressa ne è un esempio. 

Un altro esempio ò la perifrasi del severo Caton del 
seroi nostro, per indicare i vecchi dell’aristocrazia: peri 
frasi che non ha col contesto nessuna relazione di sorta. 
Oh che si sarebbe meno sganasciato dalle risa il volgo, 
se il pallone, invece d’un severo Catone, avesse colpito 
un vecchio libertino, dato ch’osso rideva, quando vedeva 
colpita una persona dell’aristocrazia? Con quanta mag- 
giore intuito della realtà e maggior senso di comicità, 
il De-Amicis, allo stesso proposito e forse traendo di qui 
l'idea prima, introduce nella descrizione delle visite del 
pallone nella tribuna degli spettatori le tube pericolanti 
e ricerca il riso nei ridicoli modi diversi con cui i visitati 
cercali di schivare l’importuno visitatore ! (1). 

Ma tornando al Taruffl, egli non è poeta: è un discreto 
verseggiatore che ha una certa eleganza e disinvoltura 
e sa variare il suo stile di immagini abbastanza proprie 
e talvolta originali : ma gli manca l’inspirazione, gli manca 
la scintilla animatrice che dà vita alla materia più arida. 


(1) Gli Azzurri e i Rossi, cap. Vili, pag. 52 e segg. 


— 181 — 


Clic fa quando rievoca i fasti del giuoco in Bologna per 
ravvivarne il culto? Registra in sette versi una filza di 
diciasette nomi di giocatori famosi, e si raccomanda a 
Pindaro. Entrato il grande vate Tetano nella poesia, la 
concentra tutta su di sè: so ancor si accenna al giuoco, 

10 si vede attraverso lui. Pindaro immenso incoronerà 
coi suoi robusti carmi l’alto valor di si gagliardi eroi 
e Bologna udrà nel canto angusto di lui 

... 11 sublime chiarissimo argomento 
Dei vincitori elèi posto al confronto. 

Ma dopo avere, con l’aiuto di Pindaro, trasportato il suo 
soggetto cosi in alto, il poeta ricade nelle solite astrazioni 
generiche e oscure. Il giuoco diventa gli oggetti lontan, 
eh e, benché solenni, benchiidi pinti del color più viro, 
non han più forza di ni/fy-er e d'eccitare. Ma questo, 

11 poeta lo doveva sapere anche prima; a che prò’ quindi 
disturbar Pindaro? a che prò’ far sentire ai Bolognesi 

Del gran vate Teban l’augusto canto, 

se questo non poteva valere a scuotere di dosso ai buoni 
Petroniani l’indifferenza pel giuoco? C’ò nel passo o un 
enigma indecifrabile o una contraddizione palese. 

La taumaturgo verga poi, con la quale il poeta vor- 
rebbe evocar Pindaro immenso, e l’urna e revocazione 
sono luoghi comuni di quella poesia romantica, che, ve- 
nuta di moda nella 2.” metà del secolo XVIII per Pili 
tluenza di Joung e di altri scrittori nordici, prese il nome 
di poesia sepolcrale. Le tracce, troppo evidenti, di questa 
poesia io non noterei, se l’autore non avesse atteggiato 
fa.nebremente il suo poemetto proprio nel suo inizio: 

Dei solitari miei foschi pensieri, 

Collinetta gentil, deh vieni a parte 

E soffri ch’io horror teco divida 

Di mille spettri, onde ho la mente ingombra. 

Senza inoltrar malinconioso il guardo 
Colà del tetro Young entro alle notti, 

Ben so che a guisa di vapore o lampo 
Questa vita mortai dilegua e passa... 


— 182 


Come possa un esordio cosi funereo dispor l’animo 
del lettore a ricevere e gustare le bellezze descritte 
nel carme, io non so. Ma il Tarulli povero di fantasia 
e di sentimento, non poteva trarre la materia poetica 
di dentro a sè stesso: egli quindi raccatta di fuori. La 
poesia dei cimiteri gli dà in imprestito l’esordio, il quale 
cosi lugubre com’ò, li in principio d'nn poemetto in cui 
si cantano le bellezze della natura e delle opere dell’uomo, 
le laudi cioft di uomini e ili cose, mi fa Tuffetto d’un 
velo per lutto sopra uno sfarzoso vestito da ballo. 

# 

« * 

Il Leopardi prese il giuoco della palla ad argomento 
della sua canzone Ad un r incitar nel pallone. Nelle 
Marche il giuoco che, come già vedemmo dalla lirica 
del Chiabrera a Ci nt.it) di Cagli, aveva tradizioni an- 
tiche, era ancora popolarissimo ai tempi del Leopardi. 
Recanati stessa aveva flato a esso valenti campioni e, 
come si rileva dalle Notes biografivi ques della vedova 
di Carlo Leopardi, Luigi, fratello del poeta, era morto d’un 
malanno presosi giocando a questo giuoco (1). Certamente 
dunque il Leopardi dovette assistere più e più volte alle 
frequenti partite col pallone che si facevano in Recanati, 
le quali costituivano una delle poche distrazioni nella 
vita monotona del natio borgo selvaggio (2); ed è verosi- 
mile che egli, mirando esercitarsi in mezzo alle accla- 
mazioni del popolo entusiasmato quei valenti e robusti 
campioni, abbia sentito in quel suo animo così pieno ili 
Grecia e di Roma e così convinto della necessità di esser 
sani e vigorosi e della utilità dei ginnici esercizi, de- 
starsi quel tumulto di sentimenti e di idee che son 
materia vera e propria d’ogni buona poesia; e sia 


(1) I canti di G. Leopardi, commentati da G. Piergili, Pa- 
ravia, 1905, A un cincitor nel pallone, nota a 4. 

(2) Ricordanze, v. 30. 


- 183 — 


stato così senz’altro spinto a cantare in versi quel forte 
e nobile esercizio. Può anche darsi che non sia stato 
estraneo in questo proposito l’esempio del Chiabrera e 
la tentazione di emulare un poeta, ch’egli sempre tenne 
in grandissimo conto (1), e fors’anche il desiderio di provar 
col fatto quanto due anni prima circa aveva scritto al 
Giordani, che la lirica cioè era un componimento che 
ancora aveva da nascere in Italia (2), cimentandosi nello 
stesso argomento con un lirico dei più famosi c’avessero 
avuto le età passate e dimostrando come si poteva far 
meglio. Ma sia come si vuole, è certo che il Leopardi, 
una volta messosi alla prova, fece tutto di suo e da par 
suo: e tutta la materia trasse di dentro a sò: dalle sue 
impressioni, dalle suo convinzioni, dai* suoi sentimenti, 
come si vedrà analizzando il contenuto della sua canzone. 

11 poeta, anzitutto, non riuscì forse a percepire nelle 
movenze e nelle pose dei giocatori quella bellezza pla- 
stica che al Goethe ricordava il Gladiadore Borghese. 
Non che egli, il poeta dell’infiri£a^3) entusiasta dell’in- 
definito (4), lo spirito proclive a lasciar vagare la mente 
pei campi della speculazione filosofica, l’ingegno pronto 
a rompere la forma materiale per circonfonderla d’im- 
materiale e a trarre dal positivo concreto considerazioni 
astratte c teoriche, non avesse la capacità o l'abito del- 
l’osservazione e insieme una notevole attitudine a ri- 
levare le linee e i contorni delle cose: chè anzi il Graf 
dimostrò con evidenza, clic se egli non vede molto in- 
tensamente la luce e i colori, vede molto spiccatamente 
le forme (5) e che, se non buon colorista, il Leopardi 
avrebbe potuto riuscire buon disegnatore (e disegnò con 


(1) Leopardi, Pensieri I, III e segg. 

(2) Lettera al Giordani del 10 febbraio 1810, Firenze, Le 
Monnier, 1856, pag. 110. 

(8) L’infinito, XII. 

(4) Pensieri, III, 156 e anche III, 155. 

(5) Foscolo, Manzoni, Leopardi, Loescher, 1898, pag. 360. 


— 184 — 


garbo da fanciullo) e forse scultore più buono an- 
cora (1). Egli è cbe il Leopardi, con i suoi occhi miopi e 
ammalati, non poteva percepire a quella distanza nò i 
gesti nè gli atteggiamenti dei giocatori: onde di essi 
non fa egli menzione alcuna nella sua canzone, mentre 
nel Chiabrera gli accenni ne sono frequenti (2). Ma se 
per deficienza della virtù visiva il Leopardi non potè 
introdurre nella sua canzone questo elemento di bellezza, 
che vi avrebbe cosi ben figurato, la seppe adornare di 
un altro concetto, bello di grande bellezza morale e ci- 
vile, che manca, come vedemmo, nel Chiabrera, ma che 
gli studi lunghi e indefessi dell'antichità e le stesse 
sue conclusioni filosofiche avevano reso ben familiare 
alla mente di lui: il concetto cioè della viva e benefica 
efficacia degli esercizi, non solo nella vita fisica, ma sulla 
psichica e sulla morale; o non solo sulle disposizioni 
momentanee e transitorie dello spirito e dcH’anirao, ma 
bensì ancora sul valore stesso delle sensazioni, sulla 
natura delle idee, sulla qualità essenziale dei sentimenti. 
Gli esercizi, scrive egli infatti, con gli antichi giuochi 
si procacciavano il vigore del corpo, non erano sola- 
mente utili alla guerra o ad eccitare rumor della 
gloria ecc., tua contribuivano anzi erano necessari a 
mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, 
l’entusiasmo, che non saranno mai in un corpo debole; 
insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’e- 
roismo della nazione (3). 

Ma ancor più caratteristico, perchè più esplicito 
per il confronto tra gli uomini antichi e i contemporanei, 
è il seguente passo del Dialogo di Tristano e di un amico: 

Amico. — Credete che in fatti la specie umana rada 
ogni giorno migliorando? 

Tristano. — S'i certo, h’ ben vero che alcune volte 


(1) Ib-, pag. 360. 

(2) LXIII, vv. 21,31,32. 

(3) Pensieri, I, 226. 


— 185 — 


penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo . 
ciascuno per quattro di noi. E il corpo è ritorno; perchè 
( lasciando tutto il resto) la magnanimità , il coraggio, 
le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, 
tutto ciò che fa nobile e viva la vita dipende dal vi- 
gore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che 
sia debole di corpo, non è uomo ma bambino ; anzi 
peggio; perchè la sua sorte è di stare a vedere gli all ri 
che vivono, ed esso al più chiaccherare, ma la vita non 
è per lui. E però anticamente la debolezza de! corpo 
fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma da noi 
già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna 
di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta : pensa 
allo spirito v e appunto volendo coltivare lo spirito, 
rovina il corpo : sen za avvedersi che rovinando questo 
rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si po- 
tesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe 
mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della 
società, trovare rimedio che valesse dine alle altre 
parti della vita privata e pubblica, che tutte, di pro- 
prietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o 
a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. 
L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco 
più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro 
si può dire più che mai che furono uomini. Parlo cosi 
degl'individui paragonati agl ’ individui, come delle 
masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) 
paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi fu- 
rono incomparabilmente più virili di noi anche nei 
sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non 
mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo co- 
stantemente che la specie umana vada sempre acqui- 
stando (1). 


(1) Le prose morali di G. L. commentate da 1. Della Gio- 
vanna, Firenze, Sansoni, 1903, Dialogo di Tristano e di un amico, 
pagg. 267-268. 


— 186 — 


Da questi e da altri pensieri consimili (1) noi appren- 
diamo che il Leopardi, alla maniera degli antichi, ben 
capiva il nesso indissolubile che passa tra la vita della 
spii'ito e quello del corpo e che in un corpo frale e 
ammalato non vi può essere un’anima forte e sana e che 
chi vuol conservare in sè quelle migliori virtù che fanno 
onesto il cittadino e prospera la nazione, e quelle più 
grandi idealità (da lui chiamate illusioni) che fanno l’uno 
felice e l’altra gloriosa, si deve procurar con gli esercizi 
la sanità c la robustezza del corpo. E a proposito del 
giuoco della palla, da lui considerato come un esercizio 
utilissimo, il poeta si domanderà: 

Vano dirai quel che disserra e scote 
Della virili nativa 
Le riposte faville ? e che del fioco 
Spirito vital negli egri petti avviva 
Il caduco fervor ? (2). 

E: No, che non è vano il giuoco, risponderà, sel’energie 
occulte della stirpe ereditate dai padri per legittimo retag- 
gio o le naturali disposizioni latenti esso varrà a rivelare 
e a scuotere e a spingere aH’azione; no, che non è vano, 
se esso varrà a riaccendere nell’animo i sentimenti ge- 
nerosi e a ridare a questo i fervidi entusiasmi che lan- 
guono o si spengono, quando è debole il corpo. E par 
che ci ammonisca: Benedetto questo giuoco e benedetti 
tutti gli esercizi fisici che, rinforzando il corpo, rinvigori- 
scono ogni virtù dell’animo. Esercitatevi in essi affinchè 
voi siate per voi buoni, forti, felici; affinchè voi siate 
per la patria capaci, generosi, pronti a ogni sacrifìcio. 


(1) Sei corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non 
altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ( Pensieri , I, 346). E 
ancora Sei corpo servo l'anima è serva (I, 346). E a pag. 250, 
v. IV, dello Zibaldone riporta il detto di Socrate presso Senofonte 
(Economico, IV, 2). Tón db somdton thelgnoménon kal ai psi/kaì 
polg drrastóterai gtgnontai. 

(2) V, vv. 27-31. 


— 187 — 


E sotto questo aspetto io convengo perfettamente 
col Piergili, quando commenta : In questa c nella pre- 
cedente canzone (Nelle nozze della sorella Paolina) è 
tutto un programma di educazione civile e patriottica: 
qui prevale la parte fisica, là la morale ( 1). Sicuro: un 
vero programma di educazione civile e patriottica. Poiché 
il Leopardi, tanto nel pensiero citato, comesi vede, quanto 
nella canzone, mette in rapporto l'individuo col cittadino 
e il cittadino colla patria; gli esercizi giovano a chi li 
pratica, perchè lo rendono forte e felice; ma giovano 
anche alla patria, perché non vi saranno mai in un 
corpo debole quelle cose che cagionano la grandezza 
e l’eroismo della nazione (2). 

Il Chiabrera già loda nelle sue liriche la gioventù 
toscana che per mezzo degli esercizi si dispone ad acqui- 
star Tarli guerriere (3) : ma la sua mente non si spinge 
più in là: a eli i dovranno servire codeste arti ? perchè 
e per chi la gioventù dovrà combattere? L’idea di patria 
è in lui assente, come si disse: nè egli Tha nè, dati i 
tempi, l'avrebbe potuta avere. Nella canzone del Leo- 
pardi invece, appena ci è stato presentato il suo eroe, 
ecco comparir l'idea della patria: 

Te rigoglioso dell’età novella 

Oggi la patria cara 

Oli antichi esempi a rinnovar prepara. 

E l'esempio storico che segue nei versi immediatamente 
successivi sta a dimostrare quanto s'avvantaggi la patria 
da questi esercizi che rendon forti e sani i cittadini (4). 


(1) / Vanti, commentati da E. Piergili, pag. 40, nota ("). 

(2) Pensiero citato. 

(3) LXI, vv. 19-27, LXIII, vv. 43-44. E al Chiabrera dà lode 
il Carducci. (Prose citate, pag. 1421) d’essersi proposto la virtù 
e la gloria militare d’Italia, pur non tacendo ch’egli si dà da 
fare per essere inteso come chi parla di cose che non son più 
del suo tempo. 

(4) V, vv. 14-26. 




— 188 — 


Cosi i due concetti, quello individuale dell’eroe e dei 
vantaggi che egli trae dagli esercizi e quello collettivo 
della patria resa prospera e gloriosa dai cittadini amanti 
degli esercizi, si intrecciano e s’alternano per tutta la 
poesia, la quale su d’essi appunto si svolge come sulle 
sue basi fondamentali : e come quei due concetti sono 
essenzialmente greci, e pindarici direi, perchè nell’ef- 
ficacia dei pubblici giuoohi antichi sul benessere fisico 
da una parte e sulla educazione patriottica e civile dei 
cittadini dall’altra, consisteva appunto gran parte della 
loro importanza, anzi della loro stessa ragion di essere, 
essi accostano il Leopardi a Pindaro assai più che non 
se gli sia avvicinato il Chiabrera, che pur si era pro- 
posto d'imitarlo. 

E infatti, sebbene l’ autore stesso abbia dichiarato 
che essa canzone Ad un vinetto}' nel giuoco del gallone 
non è un’imitazione di Pindaro (1) e sebbene ci sian 
tutte le ragioni per credere che nè in questa nè in altre 
canzoni non fu mai suo proposito deliberato di cammi- 
nare sulle orine di lui, pur tuttavia si sente spirare 
in quella lirica un tale soffio di pindarica poesia, che 
il nostro pensiero non può astenersi dal correre spon- 
taneamente e insistentemente alle grandi liriche del 
poeta tebano. Anzitutto c’è l’affinità del soggetto: infatti 
anche lasciando da parte quello che già altrove avemmo 
occasione di dire, cioè che il giuoco della palla così 
fatto appunto come il Leopardi lo aveva potuto osservare, 
è l’argomento più pindarico che si possa trovar nei tempi 
moderni, è da notare che la canzone è un epinicio nel 


(1) Opere, di G. Lkopardi, v. IH, Studi filosofici raccolti e 
ordinati da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani, Firenze, Le 
Monnier, 1883, pag. 282. Cfr. altresì, a proposito dell’imitazione 
pindarica nel Leopardi, G. Setti, La Grecia letteraria nei pensieri 
di G. L., Livorno, Giusti, 1906, pagg. 86-89: e Carducci, Degli 
spiriti e delle forme nella poesia di G. L., pag. 64. 


— 189 - 

vero senso della parola, tal quale un’ode qualsiasi di Pin- 
daro. 11 Leopardi inoltre, come Pindaro, astraendo da 
ogni circostanza di tempo e di luogo, omettendo ogni de- 
scrizione del giuoco o del personaggio, subito nelle prime 
strofe, ci mette innanzi il suo eroe nel momento fulgido 
in cui, vinta la prova, egli gusta i frutti saporosi della 
sua vittoria. Egli è, come Pindaro, nota il Piergili, un 
sapiente, che interpreta la sorte all’eroe da lui cele- 
brato, scorgendolo ad un ordine superiore di cose, dove 

10 splendido e fulgente momento della vita, ond’ei gode, 
trovi la sua ragione (1). Quindi, ancora come Pindaro, 

11 Leopardi rompe i confini del fatto individuale e si stende 
a ricercar la relazione di esso con la vita nazionale del 
popolo e anche con quella universale di tutti gli esseri, 
estendendo il tema a dimensioni grandiose e inaspet- 
tate. Lo svolgimento della trattazione e la tecnica del- 
l’arte, sono in questo, come si vede, analoghi. 

Ma a questo punto, a partir dalla scelta stessa del- 
l'esempio storico, il Leopardi comincia a distaccarsi da 
Pindaro e sempre più se ne va allontanando fino a riu- 
scire agli antipodi di esso. Le condizioni politiche e l’in- 
dole dei tempi in cui vissero i due poeti e lo stesso 
temperamento particolare a ciascuno di essi, mettono 
tra loro un abisso incolmabile. Pindaro è oggettivo : il 
mondo dei fatti, delle idee, dei sentimenti, ond’è ma- 
teriata la sua poesia, è fuori di lui; egli vede la sua 
patria credente nei suoi Dei, fidente nei suoi fati, glo- 
riosa nelle sue imprese, libera nelle sue leggi, felice 
nello splendore delle sue arti e della sua letteratura; e 
questa grandezza multiforme della patria egli fa materia 
della sua poesia. La sua è quindi la voce del vate na- 
zionale; voce universale che parla a tutti i Greci sparsi 
per il bacino Mediterraneo, proclamante nella luce del 
sole la loro fede, le loro glorie, i loro orgogli, le loro 
speranze. 


(1) Loc. cit., pag. 40, nota (*). 


- 190 - 


Il Leopardi invece è soggettivo; non solo la materia 
della sua poesia egli la prende in maggior parte nella 
sua mente e nel suo animo, ma ancora quella che prende 
fuori di sè, la fa passare attraverso al crogiuolo delle 
sue idee e dei suoi sentimenti, tutta di sè improntandola. 
Oh lo stato miserando della patria, serva dello straniero, 
senza libertà nelle sue leggi, senza gloria presente, dimen- 
tica delle glorie passate, avvilita, umile, assonnata! Dove 
prenderà egli, gettato dai fati in tempi così perversi, 
l’esempio storico d'una patria vittoriosa e grande per 
la virtù dei suoi figli ? Cosi il poeta esce subito fuor 
della sua patria c attraverso alle sue idealità di cittadino 
e ai suoi ricordi di studioso, vola alla Grecia, madre vera 
d’eroi, immagine vagheggiata di una patria felice; e dal 
periodo più splendido della sua storia egli trae l’esempio 
illustrativo e dimostrativo. Ma dallo spettacolo dell’avvili- 
mento presente della sua patria, fatto più sensibile e dolo- 
roso dalla contemplazione della fulgida visione della patria 
ideale, viene neU'animo del poeta un’amarezza sconsolata: 
la sua è quindi voce di lamento, di ammonizione, di rim- 
provero; è la voce di quel pessimismo civile, al quale 
si informano tutte le sue liriche che furon dette patriot- 
tiche. 

Ma è notevole il fatto che questo pessimismo si fa 
in poco tempo tanto profondo e largo che dalla canzone 
All'Italia del 1818 a quella Ad un vincitor nel pallone 
del 1821, a soli tre anni di distanza, da puramente ci- 
vile c patriottico, è diventato filosofico e universale e, 
peggio anche, quasi disperato. Che cosa era successo nel 
frattempo? Ce lo dice il Leopardi stesso conia solita fran- 
chezza e sincerità: Nella mia carriera poetica, il mio spi- 
rito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in 
generale. Da principio il mio forte era la fantasia ei miei 
versi erano pieni di immaginazioni e dalle mie letture 
poetiche cercavo di profittare riguardo all’immagina- 
zione. Non aveva meditato ancora intorno alle cose e della 
filosofia non aveva che un barlume La mutazione 


- 191 — 


totale in me e il passaggio dello stato aulico al mo- 
derno, sega), si pub dire , dentro un anno, cioè nel 
18 W, dorè, privalo dell’uso della cista e della continua 
distrazione della lettura cominciai a sentire in un modo 
assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la spe- 
ranza, a riflettere profondamente sopra le cose e a 
divenire filosofo di professione (di poeta ch'io ero), a 
sentire l'Infelicità certa del mondo in luogo di cono- 
scerla (1). 

La mutazione totale nell'animo dell’infelico poeta, elio 
produsse quella concezione pessimistica della vita umana 
in particolare e degli esseri in generale, avvenne dunque 
nel 181 U (2). Infatti le due prime canzoni All’ Italia e Sopra 
il monumento di Dante in Firenze anteriori a quell’anno 
ne sono perfettamente immuni : del pessimismo ve n'è 
anche in esse : ma è patriottico e civile nel carattere 
e retorico nella figurazione poetica. Non di' io intenda 
dire con questo che il dolore del poeta per le sciagure 
d’Italia fosse solo nella sua mente e non nel suo animo, 
chè i suoi, o dolore o ira o vergogna, sono veri senti- 
menti, che diventali nelle sue canzoni vera e sentita 
poesia : ma certo l'immagine dell'Italia, quale noi la scor- 
giamo nelle due canzoni, è assai somigliante a quella 
della canzone famosa del Petrarca e alle altre delle altre 
canzoni che da questa son derivate (3). 


(1) Pensieri, I, 249-251. 

(2) Avvenne essa per evoluzione o pei- rivoluzione? Forse 
per entrambe le forme, comecché le condizioni speciali del corpo 
e dello spirito del poeta e anche i casi e i modi della sua vita 
facessero nascere nell’animo del poeta quell’inclinazione al pes- 
simismo, che trovò poi la ragione del suo manifestarsi nell’infer- 
mità che distrasse il poeta dalle continue letture e l’obbligò a 
concentrarsi e meditare sugli uomini e sulle cose. 

(3) Tracce dell’inlluenza petrarchesca sono visibili special- 
mente nel colorito nell’armonia e perfin nel fraseggiare della se- 
conda canzone Sopra il monumento di Dante in Firenze. 


192 — 


Ad ogni modo in quelle due prime canzoni il dolore del 
poeta è il dolore del cittadino che vede la sua patria infe- 
lice: ma esso è ancor puro d'ogni infiltrazione di quel pes- 
simismo filosofico universale che più tardi colori di sè 
tutti i fenomeni della vita psichica di lui e fece sì che 
anche il suo dolore civile divenisse senza consolazione e 
senza speranza. 

Quando furono composte le canzoni Ad Angelo Mai 
(1820) e Nelle noz.se della sorella Paniina (1821) (senza 
stare a ricercare se quest’ultima sia anteriore o poste- 
riore a quella per il rincitor nel pallone , cbè solo im- 
porta a noi sapere ch’esse sono posteriori al 1819), la 
totale mutazione nella psiche del Leopardi già s’era ef- 
fettuata; e del conseguente suo pessimismo filosofico e 
dell’abito d'allora in poi contratto di abbandonar la 
speranza e sentire l’infelicità certa del mondo in luogo 
di conoscerla (1) se ne hanno in vari luoghi delle due 
canzoni tracce evidenti: più nella canzone al Mai, dov’è 
preannunziata la totale mutazione (2) : 

... lo son distrutto 
Nò schermo alcuno ho dal dolor, citò scuro 
M'è l'avvenire e tutto quanto io scemo 
È tal che sogno e fola 
Fa parer la speranza (3), 

e dove si lamenta che i nostri sogni leggiadri son giti {A) 
e che il vero uccise il caro immaginar (5) e che disco- 
prendo questo vero, il nulla s'accresce intorno a noi (6); 
meno nella canzone alla sorella, dove però compaiono 
anche e le larve beate e l’antico errore (7) e altri accenni 


(1) Pensieri, 1, 249-251. 

(2) Cfr. appunto la citazione stessa del Leopardi: Pensieri, 
I, 249-251. 

(3) III, vv. 34-38. 

(4) IH, v. 91. 

(5) III, vv. 102-1(13. 

(6) III, v. 100. 

(7) IV, vv. 2-3. 


- 193 — 


al dolore universale. Però, conio quelli dei suoi Pensieri 
che urtano troppo contro le idee correnti, egli talora li 
attenua o smuzza e quasi si perita di enunciarli (1), così 
in queste due canzoni non osa trarre le sue teorie pes- 
simistiche, che pur erano ben maturate nel suo cervello, 
alle ultime conseguenze. 

Nè lo poteva fare senza mancar di riguardo alle per- 
sone, alle quali le canzoni erano indirizzate, c senza con- 
traddire a se stesso. Poiché quello al Mai era pur sempre, 
e ben a ragione, un canto encomiastico in esaltazione del 
più grande filologo vivente, del quale il poeta ammirava le 
scoperte insigni (2), e di queste apprezzava, da quel coscien- 
zioso e competente estimatore che era, tutta l'importanza 
e il bene e l’onore che ne veniva all'Italia; e quello alla 
sorella era un canto solennemente parenetico insieme e 
augurale e ognun vede quanto mal s’associno la paranesi 
e rauguriocon la disperazione. 11 poeta quindi non poteva 
rappresentare la patria in condizioni disperate, come il 
suo pessimismo avrebbe voluto; e la speranza infatti 
aleggia, tenue come un sodio, in entrambe le canzoni. 
Quando nella canzone al Mai il poeta afferma che prov- 
vida confi è che la voce dei padri antichi vengano a 
rinfacciare ai fardi figli degeneri la /or codardia e 
sonnolenza e soggiunge che essi ora o mai più si sco- 
leranno (3), espiamo una vera e propria speranza, por 
quanto egli, in omaggio alle sue nuove teorie, se ne voglia 
personalmente escludere (4). Nella canzone alla sorella 
corre da cima a fondo il concetto che la risurrezione 
d'Italia dipende dalla retta e virile educazione che le 


(1) Dico così per non offendere le orecchie e non urtar troppo 
le opinioni ; per altro io son persuaso, e si potrebbe dimostrare, 
che il male c’è di gran lunga più che il pene ( Zibaldone , VII, 
pag. 198-199). 

(2) Vedi lettera al Mai in data 10 gennaio 1870. 

(3) III, vv. 16-30. 

(4) III, vv. 34-38. 


13 


- 194 - 


madri sapranno impartire ai loro fluii; se il poeta dunque 
pensa che la patria può, in un modo qualsiasi, rigenerarsi, 
ancora accoglie neH’aniiuo la speranza. Nella canzone 
Ad un vincìtor nel pallone l’applicazione delle teorie 
pessimistiche è invece completa, esplicita, rigorosa. In- 
fatti lasciando da parte l’accenno al pessimismo univer- 
sale fatto con le meste rote che Febo istiga, e con V opre 
dei mortoli che nuWaltro son che giuoco e con il cero 
chi' non e men cono detta menzogna, ecc. (1), in nessuna 
delle canzoni precedenti il poeta ci ha rappresentata la 
patria nell’estrema e irreparabile rovina, come in questa. 

Era inerme e nuda e coperta di ferite e corca di 
catene e sedera in terra negletta e sconsolata nella can- 
zone Alt' Italia (2). Era misera ed afflitta, nella canzone 
Per il monumento di Dante e neramente corsa da sol- 
dati stranieri (11) e in essa, come nella precedente, mo- 
rirono i suoi figli, non per la moribonda madre, ma 
per i tiranni suoi (4). Era ignara e accolla duina nebbia 
di tedio (5), d’ozio, di oìdio, di viltà, dappoiché att'anime 
prodi era successa immonda inonorata plebe (fl), nella 
canzono al Mai. Era infelice la famiglia nei!' infelici- 
Italia (7) c obbrobriosa Velate (8) e luttuosi i tempi (9), 
corrotto il costume (10), spenta la fiamma di gioventù, 
attenuata e franta nostra natura, assonnate le menti 
e le coglie indegne (lì) in quella alla sorella Paolina. Ma 


(1) V, vv. 31-34. 

(2) I, vv. 6-16. 

(3) II, vv. 92-119. 

(4) II, vv. 134-136. 

(5) III, vv. 4-5. 

(6) HI, vv. 38-45. 

(7) IV, vv. 10-11. 

(8) IV, v. 6. 

(9) IV, v. 9. 

(10) IV, v. 19. 

(11) IV, vv. 39-43. 


- 195 - 


nella canzone Ad un r indi or nel pallone si presenta 
agli occhi «lei misero poeta come distrutta: 

Tempo forse verrà ch’alle mine 
Delle italiche moli 
Insultino gli armenti, e che l’aratro 
Sentano i sette colli; e pochi soli 
Forse fleti volti, e le città latine 
Abiterà la cauta volpe e l’atro 
Bosco mormorerà fra le alte mura (1). 

Ma a (piai condizione si dovrà avverare la terribile 
profezia del poeta, che ormai non Ita più speranza nei 
destini della patria? Se i suoi tigli traviati continueranno 
a dar Taiuto del loro senno e del loro braccio non alla 
madre ma ai suoi nemici come nella prima e seconda 
canzone? 0 so altre glorie più splendide o altre voci 
antiche più severe non verranno a scotere i degeneri 
Agli dal loro letargo oblioso, come in quella al Mai? 0 
non saranno educati a spiriti alti, forti e vigorosi, come 
in quella alla sorella Paolina? Nulla più di tutto questo: 
nè il non morto valor negli italici petti, nè le memorie 
grandi e i forti esempi dei padri, nè una più retta e 
vigorosa educazione, nè tutte le varie e possenti energie 
della stirpe ridestate e rinnovate nei contemporanei non 
varranno più a scongiurar la matura elude (2), se la 
cieca forza del fato o la bontà del Cielo non soccorre- 
ranno alla patria in rovina (3). È insomma necessario 
l’intervento d’una potenza sovrumana; la salvezza d’Italia 
non è più in potere dell’uomo. Così fa capolino in quest’ode, 
superba per tanta bellezza formale e per tanta novità e no- 
biltà di concetti, una delle forme peggiori di pessimismo: 
la fatalislica. 

Il dissidio dunque tra il sentimento del poeta, il quale, 


(1) V, vv. 40-46. 

(2) V, v. 50. 

(3) V, vv. 47-52. 


— 196 — 


nutrito ancora dai forti errori ( 1) e magnanimi che abbel- 
liscono o pia veramente compongono la nostra vita (2), 
lusingato da quelle opinioni, benché false che generano 
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi ed alili 
al ben comune e privalo e da quelle immaginazioni 
belle, benché vane, che danno pregio alla vita (3), va- 
gheggia una patria ideale sullo stampo della greca antica, 
e la sua ragione guidata dalle sue nuove teorie dell'infe- 
licità universale, che gli rappresenta le condizioni della 
patria come disperate e più non gli lascia scemerò via 
di risurrezione, s’è fatto nel poeta incomponihile: e questo 
dissidio si ripercote nella poesia del vincitor nel pallone, 
la «piale risulta appunto composta di due parti, nelle 
quali si svolgono due concetti non solo distinti, ma con- 
trari tra di loro; essendo le due prime strofe perfetta- 
mente antitetiche con le due ultime e stando la terza 
come anello di congiunzione in mezzo a loro non a ten- 
tarne la conciliazione, ma solo a spiegare o giustificare 
la ragione delfinio e dell'altro membro dell’antitesi (-1). 
Per conseguenza il poeta, quando di nuovo nell’ultima 
strofa rivolge la parola al suo campione, non solo vuol 
ch’egli oblìi quanto gli ha promesso in principio del canto: 
le gioie della vittoria, la felicità conscia del benessere 
fìsico, e il vanto del sentirsi degno e capace di rinnovar 
gli esempi antichi in prò’ della patria; ma la causa di 


(1) V, v. 37. 

(2) Dialogo della Comparazione delle sentenze dì Bruto e 
Teo/'rasto in Le prose morati «li G. L., ed. Sansoni 19(13, curato 
dal Della Giovanna, pag. 286, lin. 6. 

(3) Dialogo di Timandro ed Eleandro, loc. cit., pag. 226, 
lin. 30 e segg. 

(4) I due concetti antitetici si ricongiungono appunto nella 
3.“ strofa, che si divide quindi in due parti. La prima spiega come 
il poeta abbia potuto lusingarsi che un bene potesse derivare alla 
patria dalla educazione fisica. La seconda invece è l’espressione 
esplicita del suo pessimismo, che nega che qualche cosa ancor 
possa alla patria giovare. 


— 197 — 


questa subito distacca, per così dire, da quella di lui: 
non darti più pensiero della patria — par che gii dica — 
e non ti rincresca che la tua fama muoia con essa (1) 
cioè non abbia lunga durata. Pensa solo a te; fatti forte 
e coraggioso, per gettarti nella lotta, per obliar in essa 
le patri e lente ore, sensa doverne misurare il danno 
e ascoltarne il flutto (2), per esporre la vita al pericolo 
che t’insegni a maggiormente apprezzarla. 

Cosi la canzone cominciata con un ottimismo vago e 
piacevole, allargatasi alla visione della patria salvata e 
glorificata dai figli fatti forti e magnanimi dagli esercizi 
fisici, allargatasi ancor più alla triste concezione dell’infe- 
licità universale che viene d’un tratto a sgombrar dal- 
l’animo del poeta ogni rosea illusione e dalla poesia ogni 
senso di ottimismo; si restringe di nuovo alla contem- 
plazione della patria che, ora, attraverso al velo nero 
del pessimismo, spenta gli appare nel deserto d’Italia, 
per restringersi ancor più alla persona del bennato gar- 
zone e chiudersi in una massima del più puro egoismo: 
nel lutto della patria, nella vanità infinita d’ogni cosa, 
cerchi il giovane di trar dalla sua forza e dalla sua va- 
lentia tutto il vantaggio che può per sè nù si curi degli 
altri. Così la canzone del Leopardi si viene ognor più sco- 
stando, nell’intonazione e nello svolgimento, ma sopratutto 
nei sentimenti e nello spirito, dalle odi di Pindaro. 

Eppure dal fin «pii detto ognun si persuaderà che il 
Leopardi è a Pindaro più vicino che non il Chiabrera. 
Anche lasciando da parte la maggior perfezione dell'arte 
e la grandezza maggiore dell’ingegno poetico e la più 


fi) Mi distacco dagli altri commentatori (Clr. Straccali, 
I canti di (f. L. f 2." ed., Sansoni, 1902, pag. 89, nota ai vv. 53-65) 
i quali per lo più interpretano : Tu cerca di non sopravviverle, 
cimentando la vita per lei . Ma percliò cimentar la vita, s’ella 
è morta? E se conchiude appunto il poeta: cimenta la vita, non 
per la patria, ma solo perchè essa vita ti divenga più cara? 

(2) V. vv. 61-63. 


— 198 — 


nobile dignità dei concetti e i trapassi pure audaci e 
insieme strettamente logici, si riscontrano nell'infelice 
poeta recanatese un sentimento più profondo della gre- 
cità e quindi un’affinità maggiore di spirito con il poeta 
tebano. Ma sopratutto si sente vibrare in tutte le sue 
canzoni civili, qualunque ne sia l'origine e qualunque 
l'espressione, un sicuro e caldo amor di patria. Egli 
l'ama, la sua patria, e si affiigge per le sin* sventure o 
si vergogna della sua ignavia e la rimbrotta e smania 
e piange e... spera, anche quando par che più disperi. Ora 
come in tutte le cose umane chi più desidera un oggetto, 
più s’affligge della sua privazione; e chi più se n'arro- 
vella, più ne è degno; e chi più ne è degno, più vicino è 
a possederlo, così più degno della patria e più prossimo 
a essa è Giacomo Leopardi, e quindi più degno di Pin- 
daro e più prossimo a lui. 


# 

* # 

La canzone del Leopardi Ad un vincitor nel pallone, 
per l’identità dell’argomento da cui trae origine e per 
una certa qual rassomiglianza negli intenti civili e politici 

0 nel modo stesso della composizione fa ricordare quella 
dell’ Aleardi la quale s’intitola Per un giuoco di palla 
nella valle di Fiumane e figura nell’edizione delle sue 
poesie del 18(54, curata dal poeta stesso (1). 

Nelle due prime strofe la vita arcadica e tranquilla 
del piccolo villaggio, nel quale gii abitanti se ne vivono 
felici, paghi dei soliti svaghi innocenti e semplici, con- 
cordi negli stessi sentimenti e uniti tutti come da vin- 
coli d’un’affezione familiare, è assai bene rappresentata. 
Il poeta sente da lontano i colpi del tamburello che per- 
ente e respinge la palla e s'affretta ad assistere al giuoco. 

1 pochi tratti, buttati giù alla lesta, con cui rappresenta 


(1) Canti di Aleardo Aleakdi, edizione notabilmente ac- 
cresciuta e rivista dall’autore. Volume unico, Firenze, Barbèra 
editore, 1804. 


— 199 — 


il noto suono che lo richiama sulla piazzetta dove si 
giuoca, sono una parca ma nitida descrizione onomato- 
peica, se non del tutto originale: 

Echeggia all’iterato 

Suon di battute e ili respinte palle 

Con pronto magistero 

Colte sull’impugnato 

Disco ili tesa pelle, echeggia intorno 

La vitifera valle (1). 

Ma tosto il poeta si distacca dal giuoco e. seguendo 
la naturai sua inclinazione al dipingere e al rilevare con 
troppa diligenza i particolari (2), s’indugia soverchiamente 
a descriverci la sua rapida passeggiata attraverso la 
campagna, in cui trova però modo di notare le locaste 
pronte (?) (3) e il ramarro lesto a la fuga (A) e il re di 
macchia , che gli svolazza trinanti e allato od h felice 
se Dio gli conceda una falena a la solinga cena (5). 
Ma finalmente arriva sul luogo del giuoco e la vista 
di esso, attraverso ai cari ricordi lo trasporta alle ore 
gaie che al tempo della sua gioventù trascorreva nel- 
l’esercizio salutare e alle amabili vittorie sudate, le (piali 
gli sono ancora adesso, dopo tanti e tanti anni, impresse 
nel cuore e ancor gli dettano accenti di vera poesia: 


(1) Vv. 1-6. 

(2) C’informa egli stesso che questo era una sua debolezza. 
In un luogo dichiara: Se io per avventura ero nolo a qualche 
cosa, ero nato al pittore; e per questo se qualche cosa ci è di non 
cattivissimo nella roba mia, è tutta pittura. (Due pagine autobio- 
grajlche ad uso di prefazione, ed. cit. , pag. XVIII). In un altro 
luogo confessa : Non avendo dunque potuto adoperare il pennello 
ò adoperato la penna. E appunto perciò ella (la poesia) sente 
troppo di pennelli, appunto perciò sono sovente troppo natura- 
lista e amo troppo perdermi in particolari (loc. cit., pag. XIX). 

(3) Vv. 13-14. 

(4) Vv. 15-18. 

(5) Vv. 18-23. 




— 200 — 

Oh amabili vittorie, o gentil loco! 

Oh di salute rosea feconde 
Sudate ore gioconde 
Della mia giovinezza! (1). 

La fantasia, cosi ridesta dai ricordi, rivede 

linei bei mattini che ferveva il giuoco 
Bulla piazza di rustica villetta 
Humoreggiando (2). 

E il quadretto in cui è dipinta la scena del giuoco, 
con quella frasca di nocciuolo a segnare i termini della 
lizza e il parteggiar della gente alla parlila e le fan- 
ciulle che compaiono dal sommo dell’altana tra un firn' 
di limo e un por di maggiorana a far più bella l’in- 
nocente festa (3), ha sapore veramente fiammingo. 

Ma a un tratto suona la campana del mezzogiorno 
e la gente prega. Questo del pregare, quando la cam- 
pana ne dà il segno, pare che fosse un costume caro 
e abituale al poeta. Infatti gli accenni alla squilla che 
invita alla preghiera, o la mattutina o la meridiana o la 
vespertina, sono frequenti nella poesia dell’Aleardi. Nelle 
citate note autobiografiche, di appena una quindicina di 
pagine, vi accenna due volte (4). Così pure entra la 
campana nella canzone Un’ora della mia giovinezza (5) 
e in quella a Cesare Betteioni, nella quale ultima la squilla 
in vila alla preghiera perfino il vigli cacciatore (6), che 
cessa quindi di esser vigile a tutto profitto della selvag- 
gina. Ma io credo che questo motivo della campana ritorni 
così spesso nella poesia dell'Aleardi per una certa qual 
sua inclinazione alle fantasticherie e al sentimentalismo 


(1) Vv. 24-27. 

(2) Vv. 28-30. 

(3) Vv. 30-38. 

(4) Pag. XI fi. 

(5) Ed. cit., pag. 14, vv. 254-255. 

(l>) Tornerà, a Cesare Betteioni, ib. pag. 388, vv. 1-4. 


— 201 — 


romantico. Egli infatti, per quanto lo voglia negare (1), 
per la sua maniera e per lo stesso temperamento poetico 
fu c rimane un romantico; e la squilla che invita a pre- 
gare, da quando Dante v’ha infuso tanto sentimento di 
soave melanconia coi notissimi versi, è sempre stato un 
tema caro a tutti i romantici del mondo. 

Dopo la preghiera e dopo la vaga e indeterminata 
perifrasi del silenzio che prega e che sublima (2), il poeta 
torna poi al giuoco, cioè, con un bel verso, la folla tor- 
nava al plauso e al favellìo di pria (3). 

Nella strofa terza la visione s’allarga da un episodio 
singolo e anche umile della vita quotidiana alla consi- 
derazione generale della vita di tutto il paesello, anzi a 
quella di tutta la società del tempo; ma il passaggio è 
fondato sul tenue filo cronologico; un’altra qualsiasi tran- 
quilla manifestazione della vita del paese: una partita 
alle bocce, una fiera di beneficenza, una quieta conver- 
sazione sotto l'olmo secolare del paese, avrebbe potuto 
porgere al poeta occasione a simili considerazioni; ben 
diverso in questo l’ Aleardi dal Leopardi, il quale, allar- 
gando lo svolgimento della sua poesia col sottomettere 
il giuoco stesso, da cui prende le mosse, al servizio 
della patria che v’avrebbe potuto trovare un mezzo 
della sua rigenerazione, la fonda sopra il rapporto assai 
più stretto di causa ed effetto. Ma anche se più super- 
ficiale, il modo della composizione di questa canzone 
dell* Aleardi ricorda tuttavia quello consueto del poeta 
recanatese di estendere il concetto particolare a concetti 
generali: al contrario del processo solitamente seguito 
dal poeta veronese di restringere un fatto generico o 
storico al caso suo personale, come in La badia (4) ne 


(1) Quanto a romantici e classici io ne ò capito sempre poco 
(Note uutobiografiche, pag. XXI). 

(2) V. 48. 


(3) V. 49. 

(4) Ed. cit-, pag. 20. 


— 202 — 


La ralle della Morte { 1) no 11 cantore Sellali houli (2) e 
altrove. 

Ancor risente la medesima poesia della influenza 
Leopardiana in quella tecnica speciale consistente nel 
contrapporre tra loro condizioni storiche diverse o stati 
psicologici diversi per trarre dalla energia dell’antitesi 
una più forte ragione dimostrativa; ma in questa tecnica 
appunto sta il difetto più grave della canzone, perchè 
o per inesatta visione della realtà storica o per una 
indeterminatezza e superficialità di concezione o per im- 
precisione nella espressione di questa, i termini dell’an- 
titesi non sono così ben delineati e posti che se ne abbia 
un'impressione viva e profonda. Esaminiamo infatti. Nel- 
l’assistere ora dopo tanti anni a quel giuoco in cui 
era valentissimo ancor pare al poeta di essere sbrac- 
cialo, sudan te sai piazzale e respirare la sventata aria 
dei veni’ anni (3). E nella poesia si sente che la fan- 
tasia del poeta, eccitata dai dolci ricordi, rivede con 
verità e rievoca con evidenza tutte le virtù e le bellezze 
della vita del paese ai bei tempi della sua giovinezza. 
Erano allora sicure le case {4), sicuri i frulli dei campi (5), 
sicure le persone (0), sicura l'onestà delle spose e delle 
fanciulle (7), rispettala la vecchiaia (8), santo il giura- 
mento (!)), soccorsi i miseri (10), viva la religione di Dio 
e dei morti (11); insomma, era allora una vita patriarcale, 


(1) Ed. cit., pag. 21G. 

(2) Ed. cit., pag. 219. 

(3) Lettera a V. Baffi clic si 
Ed. cit., pag. 321-322. 

(4) Vv. 50-51. 

(5) Vv. 52-54. 

(6) Vv. 55-57. 

(7) Vv. 58-60. 

(8) Vv. 61-62. 

(9) V. 63. 

(10) Vv. 63-67. 

(11) Vv. 68-73. 


legge nelle note alla poesia. 


— 203 — 


elio l’onestà, la pietà, la fede rendevano tranquilla e 
gioconda. E il poeta sospira e rimpiange: Quanto mutato 
ormai da quel di pria Veggo il villaggio! (1). 

Ma la giovinezza del poeta, nato nel 1812, cade in- 
torno al 1830, nel qual tempo già esistevano tutte le 
cause che il poeta adduce del doloroso mutamento. 

Leggi severe e lungo giogo (2)? Ma dal '15 in poi 
leggi e giogo erano gli stessi. La corruzione (3)? Ma 
doveva essere dessa maggiore nel periodo che va dal 
1851 al 1850, cioè quando l’Italia diede tanti nobili ed 
eroici esempi di virtù civili e patrie? La gioventù ita- 
liana tolta alla famiglia e alla patria e mandata in terra 
straniera (4)? Ma questa dolorosa usanza era praticata 
dall’Austria nel 1830 non meno, e forse più, che nel 1857. 
E il clero italiano (5), se si eccettua il breve periodo 
a cui Pio IX diede l’intonazione liberale, fu mai pa- 
triotta? È inutile negarlo: sebbene il poeta abbia collocato 
questo suo canto Urti quelli che intitolò putrii , non è 
quello della patria il pensiero dominante di esso; chè 
altrimenti il poeta si sarebbe accorto che quell’età, che 
egli vagheggiava e rimpiangeva come perduta, era stata 
per la patria la più dolorosa. Spento infatti il ricordo 
ili quei principi di libertà e d’eguaglianza civile che l’89 
aveva insegnato e non ancora accesi gli entusiasmi una- 
nimi e irrefrenabili che fecero nel ’48 l’Italia provviso- 
riamente libera e idealmente una, più profondo che mai 
era nel ’30 il servaggio d’Italia, appunto perchè la grande 
maggioranza dei cittadini, a malgrado degli sforzi isolati 
dei pochi generosi, ancor non ne sentiva tutta la vergogna 
e il dolore. Ma se la patria fosse stata più vicina allo 
spirito del poeta quando componeva la sua poesia, si 


(1) Vv. 74-75. 

(2) V. 78. 

(3) Vv. 79-80. 

(4) Vv. 81-88. 

(5) Vv. 89-100. 


— 204 - 


sarebbe egli accorto che le cose erano ben diverse nel 
1857, alla vigilia di quel '59 che recò con sè il compi- 
mento di gran parte delle speranze da lungo tempo ac- 
carezzate; e avrebbe sentiti i fremiti degli animi im 
pazienti e trepidi nell’aspettazione dello scioglimento 
imminente del gran dramma storico; e avrebbe visto i 
germi, maturati nel silenzio e nel sacrifizio e germogliali 
già fuori del suolo delle congiure e delle aspirazioni, 
prossimi ormai a dare il frutto giocondo della patria; 
e avrebbe dagl' indizi ormai certi, e a tutti visibili e da 
lui stesso altrove cantati, tratto il vaticinio lieto pei' le 
sorti d’Italia. 

Ma invece il concetto fondamentale della poesia non 
è patrio, ma è sociale. 

Tra le varie cause delle mutate condizioni nella vita 
del villaggio, che enumera il poeta, una sola ve n’è che 
ancor non esistesse nel 1830 ed è l’ impuro Fumo di 
studi (1), col quale egli accenna alle nuove dottrine 
comunistiche, il cui rappresentante più famoso era il 
Proudhon. Il poeta le abborrisce, vuoi perchè le condan- 
navano i suoi principi, vuoi per la dolorosa impressione 
prodotta in lui dalle orrende (jiornate del ghigno IS IS 
che fecero di Parigi un macello di cristiani, alle quali 
aveva assistito terrorizzato (2); più per i principi però, che 
per l’impressione; poiché già l’anno precedente a quello 
della poesia in discorso, con il canto II comuniSmo e 
Federico Bastia! egli le aveva severamente condannate 
come quelle che non potevano altro che partorir l’odio e la 
lotta di classe; e quest’ultimo canto è appunto un elogio 
encomiastico del grande economista Maionese, sorto a 
combatterle in nome del dritto, della libertà e della reli- 
gione. E veramente questo canto al Bastiat è, a mio giu- 
dizio, per movimento lirico e per serrato e logico svolgi- 


ti) Vv. 78-79. 

(2) Lettera dedicata a un amico con la data 13 febbraio 1859. 


— 205 — 


mento e per precisione di contorni, uno dei più belli 
dell’ Aleardi e l’odio dello nuove dottrine e il terror della 
lotta civile «rii dettano accenti di vera poesia; le strofe 
IV, V e VI, ad esempio, non si posson leggere senza 
raccapriccio; si vede chiaramente che in questo tempo 
(1856-1857) quell’odio e quel terrore erano i sentimenti 
predominanti nell’anima «lei poeta. 

I quali finiscono anche di prevalere nella poesia 
Per un giuoco di pallone..., di cui informano tutta l'ul- 
tima strofa. Infatti, obbedendo all’ impulso di essi il 
poeta si scaglia d’un tratto contro i contadini con vee- 
menza brutale: Ah! villano, villano! Ahi vecchio seme 
degenerato ! (1) e con amaro sarcasmo gli rimprovera 
la gioia dimostrata per la catastrofe del ’49 (2) e per le 
stragi di Belfiore (3). 

Ma queste dimostrazioni, che sarebbero nefandezze 
degne d’ogni maggior biasimo e castigo, non si sono 
fortunatamente mai avverate, nel senso almeno che vor- 
rebbe il poeta. Può darsi che qualcosa di simile si sia 
perpetrato in quelle occasioni dal partito austriacante 
nel Veneto: ma tali scelleratezze non erano imputabili 
ai contadini; e quel che più monta per il giusto giu- 
dizio della poesia, non erano conseguenza delle teorie 
comunistiche, le quali tanto orrore destavano nell’animo 
del poeta. Ed è quest’orrore appunto che lo fa veder 
grosso e gli detta quelle parole tanto più amare quanto 
più ingiuste; cosa tanto vera, che quando egli vuol cercar 
un esempio dei tristi effetti delle esecrate dottrine, lo 
va a trovare in Galizia. Scrive egli: Ognuno conosce i 
selvaggi macelli di Galizia, provocati dalla politica 
iniquamente ipocrita dell' Austria. Il giuoco stesso dello 
aizzare il villano contro il signore, rotea, la scellerata, 
tentare nelle nostre bande; ma la non bestiale indole 


(1) Vv. 101-102. 

(2) Vv. 107-119. 


— 206 — 

dei nostri campag nuoti sventò la trama bestiale (1). È 
confortevole che il poeta stesso lo confessi; ma la ri- 
trattazione non 6 sufficiente. Se i tristi fatti fossero av- 
venuti sarebbe stata carità di patria tacerli; ma simu- 
larli o accrescerli fu ingiustizia più che mai atroce e 
intempestiva in un tempo che gli animi di tutti i citta- 
dini di tutti i ceti, assorti nell'unico pensiero della patria, 
dimostrarono tanto unanime consentimento e tanta mi- 
rabile virtù di concordia. 

lo son ben lungi dall' approvare lo critiche troppo 
acerbe e talvolta inurbane che V. Imbriani (2) mosse 
contro l’Aleardi, il quale ebbe amor di patria vero e 
sincero e per la patria operò non inutilmente nel ISIS 
come inviato dal governo provvisorio di Venezia e soffrì 
per la patria persecuzioni dall’Austria nel ’52 e la patria 
cantò nobilmente e amorosamente in poesie, che dagli 
Austriaci gli procurarono il carcere, ma gli meritarono 
però l’ammirazione e ancor gli meritano la riconoscenza 
degli Italiani. Ma il bizzarro critico napoletano aveva in 
gran parte ragione, quando sentenziava che tra il fanta- 
sma (poetico) contemplata e ini (il poeta) contemplatore 
s’inframmette sempre un'altra immani ne: quella della 
sua persona (3). L’Aleardi infatti è una di quelle nature 
poetiche fornite di poca oggettività, cioè poco capaci di 
astrarre la propria persona dal loro soggetto : i concetti 
sono in esse più precisi, i sentimenti più profondi, laflgura- 
zione più sicura, se passano attraverso al loro io soggettivo 
che è, come dire, l’etere cosmico attraverso il quale av- 
viene il fenomeno. Nella canzone, che abbiam sotto esame, 
succede appunto che la personalità del poeta, o uno 
dei suoi sentimenti più profondi che in fondo è la stessa 
cosa, si sovrappone a poco a poco al tema e finisce per so- 


di Nota 3, pag. 322. 

(2) Fame usurpate, 4 studi di V. Imbriani, seconda edizione, 
Napoli, Morano 1888. I." Il nostro grande quinto poeta (A. A.) 

(3) Fame usurpate, ed. cit. I, III, pag. 16. 


- 207 — 


verchiarlo. Il poeta si propone ili comporre un canto 
patrio e ne scrive uno sociale; il cittadino uccide il pa- 
triotta; Proudhon fa dimenticare anche pii Austriaci; il 
sentimento anticomunistico oscura il sentimento della 
patria. Sono i suoi principi sociali che lo spingono a 
descrivere come onesta e beata e a sospirar, lui pa 
tri otta, una società politicamente disgraziatissima; sono 
essi che lo spingono a limitare alla classe dei contadini 
le tristi influenze che ad ogni modo agivano su tutti i 
cittadini; sono essi che gli dettarono quella feroce, quanto 
ingiusta invettiva e gliela fanno terminare in quella ma- 
cabra, quanto inestetica, immagine dello spiccar l’in- 
sanguinato capo da le salme morte e — peggio! — ven- 
derlo ai /iridi oppressori (1). 

Nell’ indirizzar il canto all'amico V. Batti, il poeta 
scrisse: K canto inedito , e forse meriterebbe rima- 
nerci (2). Infatti, se noi la paragoniamo ad altre bellissime 
poesie dell’ Aleardi, a It comuniSmo e F. Bastia t (3). 
a La ralle della morte (4), a molti passi di Monte 
Circello (5) grandioso qua e là di immagini potenti; 
alla leggiadra e vaporosa canzonetta Le ondine (0) e 
tra gli stessi canti patrii a I tre fiumi e Tornerà , noi 
ci sentiamo quasi disposti a dar ragione al poeta, se 
non pensassimo che, per una completa costruzione della 
personalità d’uno scrittore, ò necessario conoscere di lui 
l’ottimo e il buono e anche quello che non è nè ottimo nò 
buono. 


(1) Vv. 132-134. 

(2) Nota 1 alla poesia pag. 320. 

(3) Ed. cit., pag. 245 e segg. 

(4) Pag. 210 e segg. 

(5) Pag. 77 e segg. 

(0) Pag. 213 e segg. 


- 208 — 


Tra "li scritti apologetici del giuoco della palla io 
non dubito di mettere Gli Azzurri e i Rossi di Ed- 
mondo Dc-Amicis (1). Sono essi un vero inno in prosa 
del giuoco: in prosa si, ma la prosa è così agile, alata, 
ritmica, che, pel diletto che procura, può gareggiare con 
qualsiasi poesia; e per tutto il libro scorre un senso di 
così calda e convinta ammirazione per il nobile esercizio, 
di gratitudine così manifesta per la sua virtù ricreatrice 
c una nozione così sicura della sua bellezza c utilità, 
che vi si sente l'inspirazione e vi si troverebbe il mate- 
riale per molte liriche. In verità tutti questi sentimenti 
sono spesso velati da uno scherzo bonario e urbano; 
vero sale attico che serve a variare e render più saporito 
il gusto della squisitissima vivanda imbandita. Questo 
scherzo, però non toccando mai il giuoco, non diminuisce 
la serietà della trattazione, e non fa dubitare della since- 
rità della inspirazione, quando questa gli detta quelle pa- 
gine mirabili di vera e calda eloquenza o gli suggerisce i 
tratti di quelle limpidissime descrizioni. 

Il l.° capitolo contiene 1’apologia del giuoco: le bellezze 
varie e molteplici ili questo sono rivelate mediante com- 
parazioni con le bellezze dei più svariati spettacoli della 
natura o della vita degli animali e degli uomini : no na- 
scono paragoni originali e curiosi. Le arcale descrii te 
da un pallone ballalo e ribaltato alla brava sono im- 
magini vive e distinte nella cui varietà infinita si vede 
la maestà, la forza, l'eleganza, la grazia come in linee 
d’archi di trionfo titanici, in curve d’arcobaleni, in 
traiettorie di bombe, in faglie di razzi, in voli di ron- 
dini e di saette, in contorni di montagne e d'onde di 
oceano in tempesta (2); il pallone rade il muro d’ap- 


(1) Edmondo De-Amicis, Gli Azzurri e i Rossi, Torino, Ca- 
sanova, 1897. 

(2) Loc. cit., pag. 14. 


— 209 — 


poggio e lo morde e ne sfugge e vi ribatte , rabbioso 
moie il ronzone che non si pub staccar dal vetro dorè 
dà del capo (1); la fantasia dello scrittore va dietro al 
pallone che sapeva il gioco da tetto o da basso come 
dietro l’areostato che si perde nell' azzurro n alt 'astro 
che cala dietro l* orizzonte (2) ; certe rotate lo fanno 
ribrare da capo a piedi come una nota sostenuta e 
limpidissima d’un tenore (3 ); una battuta trionfale che 
ha tenuto l'animo sollevato come una disputa di medici 
a! capezzale d' un ammalato gli allarga l’anima come un 
annunzio di salvezza (4); i diversi colpi, e i rari rim- 
balzi, scozzi, salti del pallone hanno figura e senso di 
pror orazioni, di scherni, di risposte superbe, d'audacie 
eroiche, d’insidie feline, ere. ecc. (5). 

Quale altro scrittore, prosatore o poeta, ha veduto 
così addentro nelle bellezze del giuoco e cosi bene le ha 
sviscerate e con tanta fedeltà e varietà descritte? 

E le lodi del giuoco rifulgono meglio ancora nel 
2." capitolo, dove l’autore fa l’analisi degli effetti dei 
giuoco. Egli non si dissimula la difficoltà di spiegare 
chiaramente in che questo diletto (del giuoco) consista 
e definire tutte le fonti da cui deriva (ti); ma, messosi 
all'opera, questo fa con grande conoscenza del soggetto 
e con acume sottile e diligente. 

Dire che (il diletto) nasce dal veder compiere un 
esercizio di destrezza e di forza, che noi conosciamo 
per esperienza difficile, è dire una ragione che vale 
per tulli gli esercizi fìsici. Questo ne ha moli' alt re sue 
proprie (7), avverte l’autore prima di iniziare l’enume- 


(1) Ib-, pag. 14. 

(2) II)., pag. 14. 

(3) Ib-, pag. 15. 

(4) Ib., pag. 15. 

(5) Ib., pag. 15. 

(6) Ib.. pag. 18. 

(7) Ib., pag. 18. 


14 


— 210 — 


razione (Ielle ragioni di diletto particolari al giuoco della 
palla, e ha in parte ragione. Ma solo in parte: perchè 
se noi consideriamo che, per la medesima varietà del 
giuoco, in nessun altro esercizio è possibile dimostrare 
la forza e la destrezza in condizioni cosi diverse, in casi 
cosi imprevisti, con atti e pose cosi varie come in questo, 
dovremo ammettere che quelle due doti egregiamente 
manifestate hanno in questo, più che in qualunque altro 
esercizio, valore di destare, specialmente in chi n'è buon 
conoscitore, una gioconda meraviglia e una deliziosa 
ammirazione. 

Anzi io credo che l’abilità dei giocatori non solo è 
la principale fonte del diletto, ma è la condizione neces- 
saria perchè possano coesistere quelle altre fonti di esso 
che il De-Amicis enumera. Vedere una partita giocata 
da giocatori inesperti è come veder guastare una cosa 
bella. Che curiosità potrebbe destare un pallone battuto 
da giocatori deboli o inetti (1)? E quale spettatore, al 
vederli, potrebbe dimenticarsi in tanta curiosità e so- 
spensione d’animo da acconsentire con tutto il corpo a 
tutti gli sforzi di lui (2)? E quale occhio dilettarsi nel 
mirarli ad avanzarsi e indietreggiare dopo la battuta e 
dopo la rimessa (3)? o alPaccorrere simultaneo degli uni 
e degli altri ora a destra e ora a sinistra (4)? E che 
bellezza trovare nella varietà (lenii atti, dei passi, denti 
slanci, dei salti, delle corse che presentano insieme lo 
spettacolo dell' acrobatica, della scherma e de l pagi- 
latori E come parteggiar per l’uno o per V altro 
parlilo ì 

Insomma, se i giocatori non sono e valenti e forti 
e destri, lo spettacolo non può gran cosa dilettare. E 


(1) Ib., pag. is. 

(2) lb., pag. Iti. 

(3) Ib., pag. 20. 

(4) Ib., pag. 20. 

(5) Ib., pag. 20. 


— 211 - 


ben lo sa il De-Amicis, al quale l’ ammirazione per i 
campioni del giuoco inspirò pagine magnifiche e gran- 
diose, come sono lineile dedicate a Battista da Porta- 
comaro (1) e al Bossotto (2). Leggasi la chiusura dell’en- 
comio a quest’ultimo: 

Aveva un occhio di linee, una sveltezza di cervo, 
una forza di. toro, una precisione di colpo sbalorditola; 
faceva, dette rimesse che andavano da un capo all’altro 
del giuoco , delle battute come cannonate, e un colpo di 
vento pareva, che era da per tutto ad un tempo; e fu 
uno sgomento negli avversari, uno stupore nei vecchi 
intenditori, un seguito di vittorie fulminee, salutate 
con entusiasmo crescente dalla moltitudine, per cinque 
giorni successivi ; fu un 'epopea di prodezze fa volose, 
finita la quin ta sera, che già imbrun iva, con una volata 
di battuta che sorpassò il muraglione in fondo, non 
toccato mai da alcun battitore, e che ci lasciò traso- 
gnati come un miracolo ; dopo di che l 1 2 3 4 accompagnammo 
alla stazione, come una falange di vinti affascinati, 
e lo vedemmo partire a notte chiusa — cavaliere er- 
rante del bracciale — per ignoti lidi, in cerca di più 
ardue prore e di più fulgide glorie (3). Chi ha saputo 
scrivere queste linee, sotto cui palpita tanta commossa 
ammirazione per uno dei campioni più famosi della mo- 
derna sferistica, ben capirà che nella valentia dei giocatori 
più che in qualunque altra cosa consiste il diletto degli 
spettatori. 

Degni di speciale considerazione sono ne (ìli Azzurri 
e i Itossi gli studi di psicologia individuale e collettiva; 
della folla e delle persone. Ci passano innanzi le figure 
più diverse: il pubblico di tutti i giorni (4) e quello della 


(1) Ib., pag. 78-78. 

(2) II)., pag. 79-82. 

(3) Ih., pag. 82. 

(4) Cap. VI. 


— 212 — 


domenica (1), giocatori e spettatori, gli assidui fanatici (2), 
gli scommettitori (3), i giocatori vecchi (4), gli attori e 
gli appassionati delle gare in città e di quelle in pro- 
vincia (5), ecc. Certi tipi son delineati con tanta maestria 
che si stampano nella memoria indelebilmente; altri ce 
ne ricordano di quelli che noi stessi abbiamo visto o 
spettatori di qualche gara al pallone o in consimili altre 
occasioni e sentiamo che veramente essi son fatti cosi 
e che è naturale che si comportino così. Curiosi quegli 
spettatori assidui, uomini agiati e maturi, la più parte 
rlie giocarono al pallone (piando acerano tutti i loro 
denti, come il bracciale (ti), raminganti nei varii tempi da 
un luogo all’altro per seguire lo sferisterio da un capo al- 
l’altro della città, accomunati con la gente più diversa 
dalla stessa passione del giuoco, che tutti si assorbe i 
lor più gravi pensieri (7) ! Comiche (incile signore del 
pubblico della domenica che si vanno ad annoiare allo 
sferisterio per compiacere il marito che invece vi si 
diverte un mondo (8)! Cari quei bambini che guardano 
e non vedono con il loro sguardo errante il babbo gio- 
catore, indicato dalla mamma (9)1 Divertenti quei pro- 
vinciali che càpitano allo sferisterio per conoscere i gio- 
catori il cui nome va per le gazzette (10)1 E quei vecchi 
che allo spettacolo ringalluzziscono, memori del lor bel 
tempo antico (11) ? Ma tipica sopratutto la famiglia (licer- 


li) Cap. VII. 

(2) Cap. IX. 

(3) Cap. X. 

(I) Cap. XI. 

(5) Cap. XIV. 

(6) Loc. cit., pag. 39-40. 

(7) Ib., pag. 40 e segg. 

(8) Ib., pag. 45-46. 

(9) Ib., pag. 46 

(10) Ib., pag. 46. 

(II) Ib., pag. 49. 


— 213 — 


lentissima dagli amici dei giocatori stupendamente 
ritratta, che noi sentiamo che è proprio così per averla 
conosciuta in mille circostanze (1) ! E chi può trattenere 
le risa al leggere i modi differenti con cui gli spettatori 
tentano di schivar il pallone che viene a cader su di loro, 
oppure al sentire le appassionate e sbalorditone escla- 
mazioni dei fanatici (2)? Non fi degno di storia e di poema 
il grido memorabile d’uno che, durante un palleggio 
straordinario, esce fuori a esclamare: Ma io divento 
matto (3)!? 

Dopo i fanatici i piò degni di studio sono gli scom- 
mettitori (4), che si possono dividere in due classi: i 
giocatori, d'istinto che giocano o scommettono da per 
tatto e quelli in cui il baco della scommessa non si 
sveglia che al gioco del pallone, per effetto dell’ ecci- 
tamento che dà loro lo spettacolo (5). A questi conviene 
aggiungere ancora gli scommetti tori per risentimento (0). 
Ed eccoli classificati. Questo del classificare è un pro- 
cesso logico caro al De-Amicis e frequente negli scritti 
di lui: metodo razionale per eccellenza, mediante il (piale 
l'autore, discendendo dal generale al particolare giunge 
a distinguere i tratti caratteristici della specie nel genere, 
della sottospecie nella specie, dell’individuo nella sotto- 
specie e a penetrare nella natura essenziale così delle 
classi come delle persone; la quale una volta ben cono- 
sciuta, egli poi fissa con tocchi di mirabile precisione e 
ci rivela in quegli schizzi e quadretti così veri, così vivi, 
coi (piali si dimostra eccellente conoscitore dell’anima 
della folla e degl' individui. Ma il processo logico e ar- 
tistico, di cui discorriamo, non ò solo per il De-Amicis 


(1) Ib., pagg. 49-50. 

(2) Ib., pag. 56 e segg. 

(3) Ib., pag. 57. 

(4) Ib., pag. 61. 

(5) Ib., pagg. 61-62. 

(6) Ib., pag. 62. 








— 21 4 — 

10 strumento della sua abile e fine analisi psicologica, 
ma è ancora una fonte sicura di ordine o di chiarezza; 
poiché ogni atto, ogni fatto e ogni fenomeno ò con questo 
procedimento prima considerato nel suo complesso e poi 
conosciuto nelle singole parti e quindi con la forza della 
sintesi e con la diligenza dell'analisi chiaramente e or- 
dinatamente ed efficacemente descritto. 

E le medesime qualità, il De-Amicis le dimostra pur 
come descrittore; chè psicologo e descrittore, mutato il 
campo, sono la medesima cosa, comecché esser psicologo 
significhi descriver atti e aspetti morali ed esser descrit- 
tore significhi conoscere e riprodurre la natura essen- 
ziale delle cose e dei fenomeni. 

E i saggi di descrizione che noi troviamo ne Gli 
Azzurri e i Rosai sono degni della rinomanza dell'autore. 
In poco più che due paginette, egli descrive la tattica 
del giuoco (1), nelle sue linee generali almeno, e lo fa 
intendere meglio che non lo Scaino con tutto il suo trat- 
tato. Lo sferisterio con il suo campo, solido e /orso come 

11 pavimento duina sa/a( 2), con il suo muraglione bianco 
che taglia l’azzurro del cielo come la cortina d’uno, 
fortezza ciclopica (3), con le sue reti di fil di ferro... 
che dònno l’immagine (l’ima gabbia smisurata dove 
debba roteare una famiglia di aquile { 4), ci sta dinanzi 
nella descrizione del De-Amicis, grandioso e solenne come 
per invitarci a preparar l'animo alle lotte epiche che vi 
si combatteranno e alle lodi entusiastiche che di esse 
farà l’autore. E quella folla serrata sulle scalinate noi 
sentiamo che vive e s’agita e palpita nell’aspettazione 
della partita imminente (5); e vediamo passare il pallonaio 


(1) Ib.. pagg. 29-31. 

(2) Ib., pag. 35. 

(3) Ib., pag. 35. 

(4) lb., pagg. 35-30. 

(5) Ib., pag. 36. 


f 


- 215 — 


che va a lavorar (li schizzatolo dietro la rete (1), sen- 
tiamo tossir il chiamatore gallonato che prepara le corde 
vocali a urlare i punii alle nuvole (2), assistiamo col 
cuore quasi sospeso ai preparativi d’ima partita clas 
sica (3). 

Altrettanto vivaci descrizioni sono quelle de II gioco 
del pallone a Firenze (4) caro al filologo o quelle de 
Il nuovo sferisterio di Torino caro alle spettatore 
assiduo; sgorgante dal cuore appassionato è la dichia- 
razione di preferenza al giuoco del cordino contro il vecchio 
giuoco a cacce, dichiarazione che s’espande quasi com- 
mossa nel penultimo periodo del capitolo (5), largo come 
il respiro di chi, giunto alla mèta dei suoi desideri, sod- 
disfatto, intenda riposar finalmente; squillante come un 
osanna, il canto delle memorie (/loriose (6) e delle Gior- 
nate d'oro ( 7); pungente come lo smarrimento di cosa 
preziosa e cara, il rimpianto della decadenza del gioco, 
specialmente nelle nostre regioni, ma presto confortato 
da Speranze e Propositi (8). 

Ma dove la maestria descrittiva del De-Amicis tocca 
veramente il culmine della perfezione è nel capitolo 
Fu palleggio memorabile (9). Del (piale, scrive l’autore, 
ebbi una così vira impressione che con un leggero sforzo 
me lo potei rifare nella mente < piasi intero per ri- 
petermene poi la rappresentazione a mio piacere, come 
(Vana scena ili teatro col cinematografo (10). Ed ecco 


(1) II)., pag. 3(5. 

(2) Ut., pag. 37. 

(3) Pagg. 3(5-37. 

(4) Gap. XV. 

(5) Cap. XVII, pag. 107-108. 
(fi) Gap. XXIX. 

(7) Gap. XXVII. 

(8) Gap. XXX. 

(9) Gap. XXVIII. 

(10) Gap. XXVIII, pag. 1(53. 


— 216 — 


una serie di colpi uno più sorprendente dell’altro: colpi 
abilissimi tutti, ma quale dato di punta elegante e 
fermo (1), quale contro il muro donde scozza ad angolo (2), 
quale di sopra capo giusto e vigoroso (3); l’uno di rac- 
chetta a vita rasente al muro, l’altro di sotto in su (4), 
il terzo e il quarto a tutto sbraccio (5); alcuni serrati, 
a poco più d’un’altezza d’uomo con scambio rabbioso 
di botte e di risposte ((3), un vero tic Zac di tiratori 
•li bastone, altri di piena data (7), o a braccio carico, 
o ad arco basso e crescente, difficilissimo a conoscere (8): 
una. ventina di colpi di palleggio insomma, ansando i 
giocatori, eccitati gli spettatori, crescendo l’urlo alle 
stelle (il), li finalmente, dopo altri pochi colpi altrettanto 
magistrali, libero e già appostato, riceve il pallone un 
giocatore e con una volata sovrana lo manda a perdere 
oltre la rete (10). E la descrizione procede senza gira- 
volte, a tocchi rapidi e sicuri, con gli abbondanti termini 
tecnici sbrigativi che dispensano dalle perifrasi, quasi 
per imitar la rapidità delle botte e delle risposte o quasi 
per abbreviar l’ansia che ci solleva il petto dinanzi al 
ripetersi di colpi che si fanno a mano a mano sempre 
più improbabili. È un inno questo al giuoco della palla. 
11 diletto, che in simili momenti esso può dare, non mai 
da altri fu sentito con maggiore intensità nè con maggiore 
intensità riprodotto. 

Riassumendo dunque: un senso largo della vita e 
un umorismo festevole e discreto; osservazione diligente 


(1) l’ag. 163. 

(2) Pag. UH. 

(3) Ib. 

(4) Ib. 

(5) l’ag. 165. 

(6) Pag. 166. 

(7) Pag. 167. 

(8) Pag. 167. 

(9) Pagg. 167-168. 

(10) Pag. 160. 


— 217 — 

della realtà e visione esatta di essa nel suo insieme e 
nelle sue parti; chiarezza e ordine nella disposizione e 
distribuzione della materia; precisione e sicurezza di 
disegno; stile immaginoso e caldo e pur costantemente 
sorretto dal buon gusto elegante e sobrio; ricchezza ab- 
bondante di tavolozza concessagli dalla padronanza as- 
soluta della forma ricca, varia, propria, pura, elettissima : 
queste sono le qualità invidiabili di tutta l’opera letteraria 
del De-Amicis. Ma in qualcuno dei suoi libri, specialmente 
negli ultimi comparsi, ci può parer di sentirvi un rilas- 
samento nell’inspirazione, un senso di stanchezza, per 
cui le migliori attitudini di questo scrittore paiono finire 
in una virtuosità un po’ vuota e monotona. Ne (ìli Azzurri 
r i Rossi questo non succede mai. L’amore del nobile 
giuoco è per lui una fonte perenne di inspirazione, che 
non viene ad affievolirsi mai, ma si sostiene da capo a 
fondo sempre con il medesimo émpito di vigore. E noi 
dobbiamo esser grati al De-Amicis che con questo suo 
bel libro e con il suo autorevole esempio ha saputo in- 
fondere anche in altri l’entusiasmo per questo esercizio 
e propagarne il culto salutare. E con lui ci domandiamo 
perchè non prende amore la gioventù a un esercizio 
virile che prova così gagliardamente /ulte le forze fi- 
siche a un tempo e mette in così bella evidenza le forme 
e le forze e dà soddisfazioni d’amor proprio così vive 
ed in pubblico ( 1); e perché non si curano i fautori 
dell'educazione popolare d’uno spettacolo così piacevole 
e così sano (2); e con lui speriamo di veder sorgere 
società di ('resi sapienti e munifici che facciano co- 
strame sferisteri giganteschi , pari alle antiche terme, 
divisi in vasti scompartimenti per il popolo, per la 
studentesca, per i fanciulli, dove intorno a quella sovrana 
de! pallone tutte le palestre d'educazione fìsica siano 


(1) Loc. cit., pag. 180. 

(2) Ih., pag. 180. 


— 218 - 


raccolte. Speriamo insomma che risorgano i ginnasi greci 
e le terme latine. E nel presente decadimento delle forze 
fisiche, nel progressivo esaurimento del sistema nervoso 
delle persone d’ogni classe, ma specialmente di quelli 
che s’applicano allo studio, è quanto si può augurare 
ogni buon cittadino. 




CAP ITO 1.0 V. 

Gruppo IV [La letteratura giocosa, satirica e umoristica del 
giuoco della palla). Il giuoco in Firenze e Canti Carnascia- 
leschi che ne traggono argomento (I’Ottonaio e il Lasca) 
— II Boccalini e il Ragguaglio XI II della /." Centuria. — Il 
Clasio e la favola II pallone e il bracciale. — Il Belli e il 
sonetto Er giucator de Pallone. — Il Limi e l’episodio del 
Tura nel Malmantile Riacijidatato. — Lokenzo Bellini e un 
passo della sua Bucchereide. — 11 Leopardi e il Dialogo 
d'Èrcole e di Atlante. — Il De-Amicis e l’umorismo ne Gli 
Azzurri e i Rosai. — Il Fagiuoli e un passo d’un suo capi- 
tolo. — Il Fusinato e una pallonata formidabile. 

La letteratura del giuoco della palla, della quale 
mi propongo di trattare in questo capitolo, si potrebbe 
chiamare letteratura di costume, perchè ai costumi 
essa tutta si volge o per approvarli o burlarli o bia- 
simarli; ma a differenza della poesia satirico-umoristica 
originata dal mitologico episodio di Giacinto la quale 
aveva per fondamento la parodia, essa ha, la massima 
parte almeno, per base la metafora. E come è necessario 
in siffatta poesia metaforica, nella quale coso e parole 
son trasportate a essere o a significare altro da quello 
che naturalmente sono e significano, siano ben comuni 
e note tra il popolo, affinchè il doppio senso o il motto 
arguto o l’acre punta, il riso cioè o la satira, scatti fuori 
con spontaneità e prontezza, così centro naturale di quella 
poesia doveva essere e fu Firenze, i cui cittadini, più 


- 220 — 


che quelli ili qualsiasi altra città, furono del giuoco della 
palla appassionatissimi. In Firenze infatti il giuoco fiori 
in tutte le sue forme, da quella nobile ed eroica del 
pallone col bracciale a quella più umile della palla di 
cuoio colla mano o col trespolo o col maglio e a quella 
prettamente fiorentina del calcio. E a tale punto giunse 
l'amore di quei cittadini per il loro giuoco prediletto, 
che, neppur nei tempi più calamitosi della città, smettevan 
l’uso del piacevole trattenimento; così che il Varchi at- 
testa che durante il memorabile assedio che fini con la 
morte della libertà fiorentina la città era piena di al- 
legro coraggio , tanto che nel Camerale non vollero fosse 
ammesso l’antico gioco del Calcio, del gitale diedero un 
simulacro, com'era usanza, sulla piazza di S. Croce, che 
fu salutato, ma senza danno, dalle artiglierie nemiche (1 ). 

Data quindi la grande frequenza del giuoco in Firenze 
e l’amor dei cittadini per esso, non fa stupire il vederlo 
spesso passare, nella maggior parte (.Ielle sue forme gaia- 
mente atteggiate, in quel copioso e vario e sollazzevole 
cinematografo della vita fiorentina che sono i Canti Car- 
nascialeschi {2): nella maggior parte, ma non in tutte, 
chè la più nobile, quella col pallone al bracciale non vi 
figura, poiché, rinata tardi coll’ultimo Rinascimento e 
rimasta piuttosto esercizio particolare delle classi più 
agiate, non poteva trovar posto tra le più umili conso- 
sorelle nei canti carnascialeschi, che sono la riprodu- 
zione di caratteri, di usanze, di professioni, di passatempi 
tutt'alfatto popolari. Quattro di questi traggono argo- 


(1) Benedetto Varchi, Storia Fiorentina, Società tipografica 
milanese dei Classici Italiani, voi. IV, libro XI, pag. 37. Cfr. pure 
Gino Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Firenze, Bar- 
bèra, 1875, v. II, libro VI, cap. IX, pag. 139 e F. D. Guerrazzi, 
L’assedio di Firenze. 

(2) Canti Carnascialeschi, Carri e Mascherate, secondo l’edi- 
zione del Bracci, con prefazione di O. Guerrini, Milano, Son- 
zogno, 1883. 


— 221 — 


mento dal giuoco : due sono di Battista dell’ Ottonaio, 
due di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca. 

Il primo dell'Ottonaio è intitolato Canto dal calcio (1), 
del giuoco cioè più particolare di Firenze. Comincia con 
un invito a giocarvi: 

Al prato, al calcio, su giovani assai 

Or che le palle balzan più che mai! (2) 

e continua con le lodi del giuoco (3) e con istruzioni intorno 
a esso (4), alla disposizione dei giocatori (5), al tempo 
da scegliersi (6), ai vari modi di comportarsi (7), ecc. ecc. 
Parrebbe insomma una semplice e minuta descrizione 
del giuoco. Ma questo e i particolari anche minimi di 
esso hanno tutti una significazione metaforica : la quale 
è riferita a cose così laide, con un’insistenza così continua, 
che se ne ingenera un’insoffribile stucchevolezza. Nè 
maggior finezza nè maggior varietà ha l'altro Canio dalla 
palla col trespolo ; del quale ncmmen l’ultima parte, che è 
diretta a donne, non è esente dalle allusioni salaci e dagli 
equivoci grassocci. Onde, per quanto si voglia pensare 
che questi sono canti carnascialeschi, canti cioè che 
erano detti o cantati in un tempo in cui par che fosse 
di prammatica ogni maggior tolleranza, e che son tutti 
d’indole meramente popolari, anzi composti per la mi 
nata plebe, pur tuttavia non può non stupire e nauseare 
tanto triviale e sfacciato turpiloquio, indice tristo della 
corruzione della Firenze medicea, nella quale, spento il 
sentimento della libertà, sembra si fosse spento pure 


(1) Ed. cit.. pag. 222. 

(2) Vv. 1-2. 

(3) Vv. 3-6. 

(4) Vv. 8-10. 

(5) Vv. 11 e segg. 

(6) Vv. 10 e segg. 

(7) Vv. 25 e segg. 


ogni sentimento di moralità (1). E tutta questa indecenza 
non è neppur resa nell’Ottonaio meno tediosa dai pregi 
dell’arte, la quale spesso ò rozza e grossolana, affaticata 
(piasi sempre nella ricerca dell' allusione e del doppio 
senso. 

Più linda facile e scorrevole, se non più pulita, ò 
l’arte del Lasca; chè, non mancano in essa le trivialità 
nè l’ambiguità oscene, queste anzi sono egualmente sozze 
e intollerabili ; ma per essere meno continue, sono meno 
monotone. Il Canto dei giocatori di patta al maglio (2), 
dopo la notizia della provenienza del giuoco da Napoli, 
dalla quale città si diffuse poi fra la gente (3), dà i re- 
quisiti di un buon giocatore: giovinezza , robustezza , 
buona vista ( 4); poi le norme intorno al ben giocare (5) 
e alla scelta del tempo ((1) c dell’abbigliamento (7); ter- 
mina con le lodi del giuoco (8) e con un invito a eser- 
citarvisi (9). 

Nel Canto dei Pallai (10) i fabbricanti di palle e palloni, 
elio dovevano essere numerosi in una città che aveva 
tanta passione per questo giuoco, vantano l’utilità e l’ec- 
cellenza del lor mestiere: 


(1) Vedi Prefazione di O. Guerrini all’edizione Sonzogno, 
pagg. 13-16. 

(2) Ed. cit. pagg. 271-272; e inoltre Le rime burlesche edite 
ed inedite di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, per cura 
di Carlo Yerzone nella Raccolta di opere inedite o rare d'ogni 
secolo della Letteratura, Firenze, Sansoni, 1882, canto Vili a 
pagg. 175-177. Per la bibliografia di questo e del canto sottocitato, 
vedi Prefazione del Ver zone. 

(3) Vv. 4-7. 

(4) Vv. 11-17. 

(ó) Vv. 18-31. 

(6) Vv. 32-38. 

(7) Vv. 311-46 

(8) Vv. 47-50. 

(9) Vv. 51-55. 

(10) Ed. Sonzogno, pagg. 286-287: ed. Sansoni, pagg. 196-197. 


— 223 — 




I)i far palle e palloni 
Noi siam tutti maestri eletti e buoni (1). 

E si fingono stranieri venuti in Firenze per inse- 
gnar la loro arte (2), e si dicono espertissimi non nel 
far palle lesine e bonciane (3) cioè di cuoio ripiene 
di materia diversa e ben salde, ma quelle a vento (4), 
che si giocati col bracciale (5) e con le quali si fa il giuoco 
del calcio (6). A proposito del quale fa il poeta un’allu- 
sione a una costumanza degna di menzione, che il Varchi 
descrive diffusamente nelle sue storie. Narra questo scrit- 
tore che era anticamente usanza in Firenze che 

Fanno ne' giorni di carnevale, per interrompere i con- 
tinui ragionamenti delle faccende mercantili e l'assiduo 

lavorar degli artefici che i giovani, e massimamente 

i nobili, uscissero fuori travestiti con un gran pallone 
gonfiato innanzi, e venissero in mercato vecchio e in 
tutti quei luoghi dove sono le botteghe e i traffici dei 
mercatanti e degli artefici, e quindi dando a quel pal- 
lone, e mescolandosi con gli altri cittadini, e Intendo 
loro addosso il pallone, e cercando di metterlo per le 
botteghe le facessero cessare e finire in quella maniera 
le faccende per quei pochi giorni. Quest'usanza dei 
Fiorentini... cominciò... a peggiorare e, dove (piasti tra- 
vestiti non facevano altro che dare col pallone a chimi- 
che eglino trovavano per le vie e per le piazze, e me- 
scolarsi cogli altri senza far oltraggio alcuno alle 

persone cominciarono di poi a uscir fuori quando 

pioveva e che i rigagnoli correvano, e le rie erano 
piene di fango e di mola, e gittandosi per l'acqua e per 


(1) Vv. 2-3. 

(2) Vv. 4-1 0. 

(3) Vv. 11-14. 

(4) Vv. 15-17. 

(5) Vv. 18-1!). 

(6) Vv. 20-24. 


— 224 


la broda . non solamente dar col pallone a cui eglino 
trovavano, ma ancora con i stracci e panni tuffati nel- 
l'acqua, nel fango, e in ogni altra bruttura... e mandar 
sottosopra, e guastare tutte quelle robe delle botteghe, 
cli’ei trovavano fuori e massimamente erbaggi e altre 
robe degli ortolani. Onde ancor oggi dura quest’usanza 
che, l’anno per carnevale, e massimamente il giorno 
dopo desinare, perciocché il più delle volte il pallone 
esce fuori intorno alle ventidue ore, le botteghe non 
s’ aprono se non a sportello, e acciocché gli uomini 
siano a tempo a serrarle del tutto , poco innanzi che 7 
pallone esca fuori, vanno i trombetti sonandole trom- 
be (1) per piazza, per mercato nuovo, per mercato 


(0 Da questo passo del Varchi parrebbe che le trombe siano 
venute in uso solo quando il giuoco cosi degenerò da esser necessario 
il suono di esse per avvertire i cittadini dell’avviciriarsi del pallone, 
come d’un pericolo. Ma da una Descrizione del giuoco de I calcio 
di Bruscaccio ua Rovf.zzano tratta da un codice dei primi anni 
del secolo XV (Il giuoco del calcio descritto da Uruscaccio da 
Rovkzzano tratto dal Codice Mnrucelliano (’, 7 e pubblicato in- 
sieme con due altre poesie del medesimo autore da L’ietko 1' an- 
fani nel suo giornale II Borghi ni, anno I, 1 863, pagg. 52-57) 
risulta che a quel tempo le trombe già sonavano per avvisare 
i cittadini che il giuoco incominciava e invitarli ad assistervi. 
L’autore infatti, uscito dal suo scrittoio e messosi in ria per 
Spassarsi (vv. 6-7), sente le trombe del calcio e s’avvia anche lui 
al giuoco. E quando questo sta per cominciare, 

Duo trombe pel quartieri hanno a suonare 
E dua pel prato a quattro, e paion cento; 

Era grida e suon questo giuoco comincia 
Che par che triemi tutta la provincia (vv. 77-80). 

Il Bruscaccio descrive il giuoco notando atti, movimenti, lotte, 
gesti di ben 30 giocatori: nella descrizione v’è quindi grande 
monotonia e confusione e sciatteria. La poesia vale come testo 
di lingua e come documento storico; come opera d'arte, niente. 
Del resto, quanti poeti, preso a trattar del giuoco, troppo s’in- 
dugiarono a darne le regole o a descriverne le vicende, tutti, 
chi più chi meno, riuscirono noiosi. Noioso la sua parte ù il 
Taruffi, dove con troppa abbondanza rileva i particolari del 




— 225 — 

vecchio e per tutti quei luoghi ore sono le botteghe 
e i mercati, perciocché qui ri il pallone farebbe pii' 
danno che altrove, se le trovassero aperte; e in tanto 
crebbe questa barbara e sporca usanza, che non solo 
questi travestiti imbrattavano qualunque egli trovavano 
per le vie e per le piazze, ma cominciarono ancora a 
persegui/are e imbrattare in fin per le chiese, e appresso 
gli altari coloro che gli erano fuggiti per {scampare 
da quel bestiai furore del pallone ( 1 ). 

Quello che racconta il Varchi in più pagine, il Lasca 

10 condensa in cinque versi, pur riuscendo in sì breve 
giro di parole a rappresentarci il fatto in modo abba- 
stanza compiuto e particolareggiato, sicché noi sentiamo 
che ci faremmo di esso un’idea adeguata, anche se non 
conoscessimo la descrizione del Varchi. 

Con queste il Carnovale 

Al calcio si fan zuffe e gran rumori : 

Con queste s’esce fuori 

quand’è piovuto a ’nfangar la gente, 

che ciascun grida: serra, ecco il pallone. 

Ci son dunque in questi pochi tratti e le zuffe e i cla- 
mori, che destatali con il lor pallone quelle compagnie 
festanti, e la brutta usanza d* imbrattar la gente, che 

11 Varchi severamente biasima, e facilmente da questi 
pochi versi s’immagina il danno che potevasi recare alle 
botteghe ed ai mercatanti, e la fretta del chiudere, be- 
nissimo espressa da quel: serra, ecco il pallone. Tal 
quale è la descrizione del Varchi, e ci verrebbe voglia 
di pensare che uno scrittore dall’altro deriva, se non 
sapessimo che essi erano contemporanei e chissà quante 


giuoco ; noioso il Lasca nei suoi capitoli in lode del Calcio e in 
lode del Maglio, come vedremo: noiosissimo Giovanni Fresco- 
Bai.di nella sua Palla al Calcio (cfr. V. Rossi, II Quattrocento, 
pag. 261). 

(1) Varchi, Storia Fiorentina, ed. cit-, voi. V, libro XIII, 
pagg. 20-22. 


15 








— 226 — 

volte avran visto ripetersi il fatto; la somiglianza quindi 
dello loro descrizioni nasce dalla identità delle loro im- 
pressioni. 

Finalmente dopo due strofe (1), ambigue al solito, il 
Lasca ha un’allusione politica: 

Fur sempre mai con gloria e reverenza 
Le palle celebrate ; 

E non pure in Fiorenza 

Ma in tutta Italia e nel mondo onorate; 

Or più che mai beate 

Splendono in terra con eterna luce 

Sola mercè del vostro invitto duce (2). 

Ma a proposito della politica nei canti carnascialeschi, 
nota bene il Guerrini: Tuttavia, queste scorse del Cauto 
carnascialesco nel dominio della politica o piuttosto 
queste allusioni ai fatti del giorno , sono l’eccezione (3). 
E così è difatti. In una poesia promossa e favorita dal 
Principe (4) per addormentare gli animi dei cittadini e 
distoglierne l’attenzione dalla pubblica cosa, la politica 
non ci poteva aver molta parte; e quando ci fa la sua com- 
parsa, o si vela come nel Canto dei diavoli (5) e nel 
Canto degli spiriti beati (0) del Macchiavelli; o sta sulle 
generali come nel Trionfo della compagnia del Bron- 
cone nella renata di Papa Lione (7) e nel Trionfo della 
Fama e della Gloria (8) di Jacopo Nardi, nel Trionfo della 
Dea Minerva (9) di M. A. Dovizio da Bibbiena, nel Trionfo 
delta Pace (10) di Lodovico di Lorenzo Martelli ; oppure 


(1) Vv. 25-38. 

(2) Vv. 39-45. 

(3) Prelazione citata, pag. 16. 

(4) Prelazione citata, pag. 12 in principio e pag. 14. 

(5) Ed. cit., pag. 124, e specialmente, versi 4-7. 

(6) Ib., pag. 126. 

(7) lb., pag. 92. 

(8) lb., pag. 93. 

(9) lb., pag. 95. 

(10) lb., pag. 96. 


— 227 — 


adula come in questa chiusa del Canto dei Pallai e in 
genere in tutti i passi che alludono alla famiglia dei Me- 
dici o alle palle che ne erano l’onorata insegna. Il Canto 
delle palle, per esempio, si svolge tutto su di questo solo 
concetto: Firenze già afflitta durante l’esilio del suo Si- 
gnore, gioisce ora ch’ei è ritornato. Quindi 

Puossi Fiorenza or dir beato regno 

Semiosi colle palle ricongiunta, 

Che stata è senza lor più che defunta (1). 

In questo canto d'incerto iiutore la politica persiste più 
a lungo che in qualsiasi altro: ma anche l’adulazione 
è in esso più smaccata che in qualsiasi altro. Del 
resto, salvo queste e altre poche digressioncelle, i canti 
carnascialeschi si rassomigliano tutti come i ciottoli dello 
stesso torrente: struttura su per giù eguale: due o tre 
versi di presentazione; una serie di strofette di sei o 
sette o otto endecasillabi misti a settenari in cui è de- 
scritta la professione o l’occupazione qualsiasi nella sua 
realtà ed essenza; questa poi e i suoi accessori e gli 
strumenti del lavoro e quanto può alla professione ri- 
ferirsi, costretti, con una persistenza degna di miglior 
causa, al significato metaforico osceno; finalmente pa- 
role, motti, frasi, perifrasi, motivi che si ripetono in tutti 
i componimenti. Con questo sistematico processo tecnico, 
nessuna originalità è più possibile: gli autori perdon la 
loro fisonomia individuale, anche quelli che altrove di- 
mostrano d’averne una propria. 

11 Lasca, per esempio, è scrittore vario, fecondo e 
originale: ma nel capitolo che ha In lode del Maglio (2) 
non fa che ripetere quello che di esso già aveva detto 
nel canto carnascialesco dei Giuocatori di palle a maglio, 
salvo qualche chiaccberata di più, concessa dal genere 
diverso del componimento. C'è di nuovo l’origine napo- 


(1) Ih., pagg. 336-337, vv. 26-28. 

(2) VftKZONE, Le rime, eco., pag. 538-511. 


— 228 — 


litana del giuoco (1); v’è descritto il sito in cui si devo 
fare (2); stabilito il tempo che dev'essere asciutto (3) ; 
la stagione che può esser qualsiasi (4) ; vi si dicon le 
lodi del giuoco (5); i requisiti dei giocatori che sono anche 
qui giovinezza, gagliardia, ecc. (6), e finisce questa come 
l’altra poesia con un invito a giocare (7); non manca 
naturalmente neppure qui, seliben vi sia forse in minor 
misura, l’equivoco lubrico. 

Così pure il capitolo del medesimo autore A M. 1 ico 
Salvelti in lode della Palla al Calcio (8) rassomiglia, 
nei concetti e nel frasario e in generale nel movimento, 
al Canto del Calcio dell’Ottonaio, come apparirebbe da 
un breve raffronto; e più forse gli rassomiglia nell'in- 
sistente compiacersi delle oscenità. A dare tanta unifor- 
mità a tutti questi componimenti, concorse certo l'identità 
dell’argomento e l’indirizzar sempre il lor canto a una 
classe particolare di cittadini e l’uso tradizionale di si- 
mili canti, che certo già aveva fatto cristallizzare e frasi e 
forme e concetti e finalità e metro, ecc., ecc. Ma io credo 
che più d’ogni altra cosa influì a render queste poesie 
così uniformi la ricerca assidua dell’equivoco o del doppio 
senso, la quale, costringendo il poeta a sceglier solo 
date cose e queste ancora a veder sotto un dato aspetto 
e a dibattersi sempre tra i medesimi concetti e a lottar 
con un sistematico modo di composizione, gli tarpa le 
ali dell’inspirazione, gli fiacca le forze dell’ingegno e 


(1) Cap. vv. 10-12 - canto vv. 4-7. 

(2) Cap. vv. 22-27 - canto vv. 35-38. 

(3) Cap. vv. 28-36 - canto vv. 32-34. 

(4) Cap. vv. 37-39 - canto vv. 48. 

(5) Cap. vv. 40-53 - canto v. 49. 

(6) Cap. vv. 57-68 - canto vv. 11-17. 

(7) Cap. vv. 89-95 - canto vv. 53-56. 

(8) Vurzone. Raccolta citata, pag. 529-534. Questo capitolo 
in lode del Calcio e quello pure In lode del Maglio compaiono 
alla luce per la prima volta in questa raccolta del Verzone, tratti 
dal codice del Museo Britannico di Sloane. 


— 229 — 


toglie quindi all'arte sua ogni fisonomia e originalità. 
La qual ricerca forse nei primi tempi si faceva per ri- 
coprir d’un velo decente le oscenità, che il pudore ancor 
sensibile ilei poeta e del pubblico mal avrebbe sopportato; 
ma a poco a poco essa divenne una maniera poetica con- 
venzionale: e in tutti i canti carnascialeschi, e in generale 
nei componimenti che lor si possono avvicinare, si ricorse 
al senso traslato perchè era di moda far così, perchè 
più che altro occorreva far dello spirito e destar le risa 
colle arguzie e coi lazzi. E in verità, ai tempi del Lasca, 
nè la coscienza dei poeti era così delicata nè gli animi 
dei contemporanei cosi pudibondi che potessero arrossire 
gli uni a dire e gli altri ad ascoltar le trivialità più impu- 
diche. E tanto è vero questo che nel Lasca, nell’Ottonaio 
e negli altri talora il velo metaforico è cosi sottile e 
trasparente, che tanto varrebbe aver chiamato le cose 
col loro nome proprio: il Lasca anzi, nel capitolo del 
Calcio, abbandonato a un tratto ogni riserbo, spiattella 
apertamente, senza sottintesi e senza un riguardo al 
mondo, le sue oscenità; le quali, per colmo, sono di tal 
natura, che, per solo averle dette e per il modo con cui 
son dette (1), Dante non avrebbe esitato a mandar l’autore 
a tener compagnia a ser Brunetto. 

Se la metafora però contribuiva assai a dare uni- 
formità alla tecnica e al frasario, è innegabile che, trat- 
tata con arte discreta e con spirito assai arguto dal Lasca 
e dagli altri, serviva purearendcrne più accette le poesie, 
le quali, per esser troppo grassocce, a lungo andare 
avrebbero potuto nauseare anche un pubblico in gazzarra 
carnevalesca; precisamente come certe salse piccanti e 
certe droghe aromatiche rendono i cibi, che son troppo 
unti, più saporiti e digeribili. 

11 canto carnascialesco ha sempre uno svolgimento 
serrato, materiato tutto di concetti intrinseci all’argo- 


(1) Canio del Calcio, vv. 139-147. 


— 230 — 


mento, frettoloso quasi d’arrivare alla line; non fa quindi 
nft digressioni nè soste: il capitolo è invece loquace; 
ama indugiarsi per via, per far due chiacchere o qualche 
paragone o qualche osservazione e magari per scorrazzar 
in campi vicini e anche in campi lontani, per esempio 
nei tempi antichi. Nei due capitoli del Lasca, non son rare 
le reminiscenze dantesche e gli accenni classici. Dante 
è fatto ricordare, non solo da frasi spiccicate e solitarie, 
come il faticoso calle (1) e Dal basso centro al bel retino 
stellato (2), occ. eco., ma dal colorito generale dello stile, 
dalla tornitura della strofa, dal ritmo del verso. 1 ricordi 
classici si mostrano nella invocazione, anche se latta 
alV amico Salvetti in cambio che a Febo (3) e nel vantar 
che dinanzi alla bellezza del giuoco devon tacere e Greci 
e Latini, 

perchè non vide giammai Atene e Koma 
spettacoli si belli e peregrini (4); 

e ancora nelle lodi sperticate del giocatore che abbia le 
qualità del poeta enumerate; il quale allora 

morta maggior lode 
Ch’Achilie in Grecia o in Francia Carlo Mano (5); 

e in quelle anche maggiori di Bracalone per cui Doma 
teste trionfa e gode e a cui dan più vanto le persone 

Che non ebbe al suo tempo, Cincinnato 
Cesar, Fabrizio, Orazio e Scipione (6). 

Ma son poi fatte sul serio queste scorrerie nel campo 
dell’erudizione classica? o non sono esse piuttosto can- 
zonature fatte per mettere in ridicolo l’antichità e i suoi 
ammiratori? Il carattere del poeta che fastidiva ogni 


(1) In lode del Calcio, v. 8. 

(2) I b . , v. 18. 

(3) Ib„ v. 8. 

(4) lb., vv. 52-54. 

(5) In lode del Maglio, vv. 75-77. 

(6) lb., vv. 80-82. 


— 231 — 


accademismo e ogni posa o corte piccole, ma comiche, 
sfumature elio ci costringono ad abbozzare un sorriso 
a fior di labbra, come il verso solenne Achille in Grecia 
o in Fi-ancia Carlo Mano, il nome stesso di Bracalone c 
quello stipar, in -poco più (l'un verso, tanti nomi illustri 
il cui splendore pur deve impallidire dinanzi a quel del 
famoso giocatore, ce lo lasciano, e in verità con ragione, 
supporre. Ci sarebbe dunque qui una leggera punta di 
satira contro l’esagerata ammirazione delle cose antiche: 
ma così tenue, che non è nemmeno il caso di parlarne. 
Satira vera non c'è nè in questi capitoli nè nei canti 
carnascialeschi, nei quali ultimi poi sarebbe stata addi- 
rittura fuor di proposito. 


Altri scrittori invece, pure usando della metafora 
come gli autori dei canti carnascialeschi e dei capitoli 
esaminati, cioè traendo a senso traslato le usanze o gli 
strumenti ola terminologia o altri particolari del giuoco, 
ne ricavarono satire appropriate contro i costumi o contro 
certi vizi in astratto o contro personaggi e fatti politici, ecc. 
E primo ci si presenta Traiano Boccalini, il quale, dal 
medesimo campo che i canti carnascialeschi, raccolse la 
materia d’un suo gustosissimo ragguaglio, in cui fa una 
satira indovinatissima del cortigiano (1). Il ragguaglio è 
il XLIII della 1." Centuria e ha questa intestazione: 

La nailon Fiorentina rappresenta il giuoco dei Cal- 
cio , nel quale harendo ammesso un mollo forbito cor- 
tigiano forestiere , egli ottiene il premio del Giuoco (2). 
Il giuoco avviene naturalmente in Parnaso e l’autore, 
secondo la sua finzione, c’ informa coni' esso s' è pas- 
sato. La nobilissima natipn Fiorentina Giovedì passalo 


(1) Traiano Boccauno. Ragguagli di Parnaso, 1.“ Centuria, 
Venezia, P. Ferri, 1612: 2." Centuria, Venezia, Guerigli, 162-t. 

(2) Ed. cit., pag. 105. 


— 232 — 


nel lindo Febeo rappresentò il suo diletterai Giuoco del 
Calcio , al quale concorsero i Letterati lutti di Pai • 
naso (1). Ingaggiatasi dunque la partita, il forbito cor- 
ligian forestiere si pose il pallone sotto il braccio e 
con le braccia, con le spalle , col capo e con tutta la per- 
sona cos) francamente investiva ogn’uno che da qualsi- 
voglia si faceva f<u • largo (2). Di modo che egli, avendo 
superato ogni contrasto, senza che alcun glie lo impe- 
disse, gettò il pallone oltre lo steccato e riportò il pre- 
mio del giuoco (3). Di che i Fiorentini talmente rimasero 
storditi che solennemente giurarono di non ammettere 
più cortigiano alcuno al gioco loro, come quelli che 
nel corso han Vali ai piedi e nel dar gli urloni e le 
stomacate alle persone per farle stare indietro, hanno 
i gomiti foderati di ferro, nel farsi far largo nelle 
folle , nell’ aprirsi /estrude patenti nelle più folte calche 
dei concorrenti, nell'arte di non mai più lasciarsi ca- 
dere il pallone, che una volta sia capitato nelle numi 
e nell' artifizio di saper far la cianchetta agli emuli loro 
per far loro dare in terra crepacci cos) vergognosi 
che mai più possono risorgere, più tosto erano diavoli 
che uomini. 

Nel descrivere le arti e gli atti del suo protagonista, 
aveva il Boccalini dinanzi alla sua niente uno o più per- 
sonaggi veri oppure copiava solo il tipo astratto del 
cortigiano? La verità ed evidenza della descrizione e 
quell’insistere più volte sopra l’origine forestiera, fareb- 
bero supporre che gente straniera — poca o tanta, non 
importa — venuta in Italia, sapesse cosi bene destreg- 
giarsi nelle corti da dare colle lor maniere intriganti lo 
scaccomatto agli altri cortigiani e farli scadere dall’animo 
del principe. E avremmo qui una manifestazione di quello 


(1) Ed. cit., png. 195. 

(2) III., pagg. 196-197. 

(3) Ib., pag. 198. 


— 233 - 


spirito antispagnuolo (•"animava tutte le opere del Boc- 
calini. E se cosi fosse, anche questo ragguaglio dovette 
avere pei contemporanei dell’autore, storditi e magari 
irritati dai successi di codesti intrusi, un sapor più pie 
caute e soddisfacente che non per noi. Ma non si può 
dir nulla di positivo su di ciò; ad ogni modo, copiata 
dal vero o immaginata, il Boccalini ha saputo percepire 
ed esprimere la natura vera e immutabile del cortigiano 
e ha creato un tipo che, proprio del suo tempo, è anche 
proprio di tutti i tempi, perchè noi riconosciamo in esso 
la fisonomia e i comportamenti essenziali del cortigiano 
che fu e sarà sempre cosi, finché ve ne sarà uno sulla 
faccia della terra. Il personaggio poi vive e s'agita di- 
nanzi a noi : e noi lo vediamo arrabbattarsi e spingere 
e dar gomitate e dar lo sgambetto per farsi far largo 
e salire. 

Per salire il cortigiano che voglia assicurarsi il suc- 
cesso deve aver l’occhio a due cose: farsi innanzi lui 
e tirar gli altri indietro: cattivarsi ranimo del principe 
e toglier da esso i concorrenti che vi avesser preso posto. 
11 cortigiano del Boccalini, che sa il fatto suo, fa una 
cosa e l’altra: ha fati ai piedi per arrivare primo: ma 
ha anche i gomiti foderati di ferro per dar gli urloni 
e le stomacale alle persone per farle stare indietro ; 
sa farsi largo nelle fotte e aprirsi le strade patenti 
nelle più folte calche dei concorrenti, ma conosce pur 
l’arte di non mai più lasciarsi cadere o ritorre il 
pallone che una sol colta gli sia capitato nette mani , 
cioè di conservare il favore del suo signore una volta 
acquistatolo e di più di far/lar vergognosi crepacci in 
terra a chi desse sospetto di volerglielo ritorre. E si noti 
con quanta sapienza d’arte è contemperato il linguaggio 
proprio col figurato: chè le citate son tutte frasi che i 
indicano altrettanti atti del giuoco e insieme arti del cor- 
tigiano. Un buon giocatore di calcio deve infatti fare nel 
senso proprio, precisamente come il cortigiano nel figu- 
rato: deve concorrere lui e fare stare indietro gli altri, e 


aprirsi la via tra la calca degli avversari e tenere il pal- 
lone una volta preso e mandar gli altri per terra, quando 
glie lo vorrebbero disputare. Gli altri per le terre, e a lui 
la vittoria del giuoco o il favore del principe. 

# 

* # 

Ogni scrittore, secondo la naturale inclinazione del pro- 
prio ingegno e del proprio animo e secondo la disposizione 
acquistata dall’esercizio, trae dalle cose osservate inspi- 
razione e materia pel genero letterario, da lui di pre- 
ferenza coltivato. Dal giuoco della palla il Cbiabrera 
toglie motivo e contenuto per le sue liriche che vogliono 
essere pindariche e il Leopardi per una sua che è di 
queste più pindarica senza volerlo essere; S. Agostino 
trae da esso occasione per fare una nuova rinuncia alle 
gioie della vita e i canti carnascialeschi se ne servono 
per affermare il diritto di tutti a -esse, magari nella 
loro forma più libera e sciolta; l’Aleardi parte dal giuoco 
per arrivare a brontolare contro Proudhon e le teorie 
comuniste e il Belli ne fa uno strumento di critica acerba 
al governo papale; il Marino lo accetta dall’Anguillara 
come mezzo di svolgimento d’uno degli episodi che for- 
mano il mosaico del suo Adone e il Bracciolini lo acco- 
glie per ridere del medesimo episodio e di tutta la mi- 
tologia: il l)e-Amicis, innamorato del giuoco, ne fa la 
glorificazione in uno dei suoi più bei libri e Luigi Clasio, 
abate e favolista, ci trova la materia d’una favola e ue ri- 
cava una morale. La l'avola ha per titolo 11 Pallone ed 
il Bracciale (1). Con essa dunque noi ci troviamo ancora 
nella metafora; chè la favola è allegoria e il fondamento 
dell’allegoria è la metafora. Ma non son più gli atti 
singoli del giuoco o le norme e la terminologia di esso 
che son trasportati al senso traslato; ma si gli strumenti 


(1) Lorenzo Lignotti e Luigi Ci.asio, Favole, Milano, Sonzo- 
gno, 1879, pag. 285, fav. XXXII. 


— 235 — 


stessi, il pallone e il bracciale, personificati, rappresen- 
tano l’azione. Il pallone si lamenta col bracciale (Tesser 
respinto da tutti: Se vado da una parte, dice, son ricac- 
ciato con forti colpi all’altra, dove trovo sorte eguale (1), 
finché, sgonfiato, sono abbandonato con trascuranza in 
terra (2). E domanda sospirando al bracciale: Perchè tan- 
t’odio contro di me, che non faccio male a nessuno?(3). Gli 
risponde l’interrogato: Perchè sei pieno di cento (4). È 
questa l’idea fondamentale del piccolo componimento; il 
pallone pieno di vento suggerisce all’autore l’idea degli 
uomini fatui, che gonfiano il cervello di rana albagìa (5), 
i quali subito gli appaiono ben meritevoli d’osser bia- 
simati e ammoniti con satira urbana; l’idea materiale 
del pallone tira con sé l’idea materiale del bracciale, che 
entra come personaggio necessario nello sviluppo del- 
l'azione, e la favola è fatta. 

Però, se noi esaminiamo le altre favole del Clasio, 
troviamo che l’idea propria e la traslata in generale 
hanno tra loro stretta analogia e numerosi nessi di re- 
lazione: onde dalla natura intrinseca del fatto e dalla 
omogeneità dei caratteri finti e reali la verità enunciata 
a morale ammaestramento, sia che premessa attenda da 
quello o da quelli la sua dimostrazione sia che ne debba 
derivare come logica conseguenza, scaturisce fuori spon- 
tanea, limpida, ricca di molta virtù persuasiva. 

Per citar qualche esempio, che il beneficio è reso vile 
se da esso si vuol trar mercede, è ben dimostrato dal 
cespuglio che dal difeso capretto strappa molti bei fiocchi 
dal lanoso vello , prima di lasciarlo uscir fuori del troppo 
avviluppato ostello (6): il fumo, che si vanta di esser figlio 


(1) XXXII, vv. 5-8. 

(2) 11)., vv. 13-16. 

(3) XXXII, vv. 17-22. 

(4) Ib. , vv. 30. 

(5) Ib., v. 34. 

(6) Ed. cit., fav. I, pag. 245. 


del fuoco e nipote del sole ed ò mortificato dalla nuvo- 
letta, è un esempio appropriato per chi si gloria di gran- 
d’avi e lor non somiglia (1); l'uccello, che ragiona che Pah- 
fiondante panico sparso d’inverno pel campo può rac- 
chiudere qualche insidia, ammonisce opportunamente 
di non fidarci dei patti troppo grassi (2); il gelsomino, 
il quale è abbandonato per aver celato sotto una vipera 
e si lamenta del vuoto fatto intorno a sè, istruisce assai 
bene dei danni delle cattive compagnie (il); la testardag- 
gine del noce, che non vuol concedere i suoi frutti, è di 
sano e chiaro ammonimento (4). E così via di tante e 
tante, di quasi tutte le favole del Clasio. Ma nella favola 
Il Pallone e il Bracciale il pallone c i vanitosi, fuor di 
essere entrambi pieni di vento, non hanno altra somi- 
glianza: anzi hanno quasi contraria natura; chè quello 
che è difetto dell’uno è pregio dell’altro; e se i vanitosi 
si vorrebbero più sgonfi e che rimanessero più terra 
terra, il pallone allora va, quando è ben gonfiato e vola 
volentieri per aria. E se la gente l’uno e gli altri da sò re- 
spinge, questo fa con sentimenti, in circostanze e per fini 
ben diversi. Onde l’autore stesso, quando fu sul punto 
di far l’applicazione della sua favola, s’avvide che pallone 
e vanitosi non eran precisamente la stessa cosa; anzi che 
l'uno ò stimabile appunto per quella ragione per la quale 
gli altri sono biasimevoli e sentì il bisogno di rettificare: 

11 detto del bracciale 

Per lo pallon non vale: 

Ma se taluno v’è 

Che di vana albagia gonfi il cervello, 

A lui ben quadra quello 

Che fu detto del pallone (5). 


(1) lb., fav. II, pag. 246. 

(2) Ib., fav. XIV, pag. 261. 

(3) Ib., fav. XXXIII, pag. 286. 

(4) Ib., fav. XL1II, pag. 301. 

(5) XXXII, vv. 31-38. 


— 237 — 


Una ritrattazione, come si vede, in piena regola (1). E 
(•piando è cosi, quando cioè dalla favola l’autore stesso 
confessa di non poter conchiudere direttamente, come 
vorrebbe, ogni efficacia dimostrativa è perduta. 


La metafora regna ancora nel sonetto di G. G. Belli 
Er giucator de Pallone (2); e si divide pacificamente il 
suo regno con la satira : anzi Luna e l’altra si dan la 
mano con grande concordia e dalla loro alleanza sca- 
turisce la massima potenza. Il sonetto infatti, vuoi per 
l’arte sapiente con cui è adoperata la metafora vuoi per 
la satira pungente e spiritosa, appare, come tanti altri 
del Belli, di squisita ed efficace fattura. Esso appartiene 
alla serie, assai numerosa, dei sonetti in opposizione al 
governo pontificio : anzi mi pare che' l’opposizione in esso 
sia particolarmente accentuata: e sebbene l’autore stesso 
dichiari nella sua Introduzione che egli ha solo deli- 
berato di lasciare un monumento di quello che oggi t> 
la glebe di Poma (3) e che egli intende presentare nelle 
sue carte i popolari discorsi svolti nella sua poesia (4) e 
che il popolo è questo e questo egli ricopia non per pro- 
porre un modello, mas) per dare una immagine fedele 


(1) Del resto la narrazione già era cominciata a sbiadire, 
quando il bracciale risponde al pallone: 

... se dir degg’io, 

Amico, il pensiero mio, 

Forse ognun ti discaccia... 

Ma che forsel F.ra per quello o non era? Si sente che l’autore 
a questo punto già dubitava di far torto al pallone. E allora? 

(2j / sonetti romaneschi di G. G. Bkl.li, pubblicati dal nipote 
Giacomo a cura di L. Morandi, Città di Castello, S. Lapi editore, 
1889, v. II, pag. 400-402. 

(3) Ed. cit., v. I, pag. 289. 

(4) Ib., pagg. 290-291. 




— 238 — 

di cosa già esistente e, pia, abbandonata senza migliorò- 
mento (1), sebbene cioè si proponga ex professo di voler 
unicamente riprodurre t'anima, della plebe di Roma, quale 
essa si manifestava ne’ discorsi colti a volo per le vie 
e nei pubblici ritrovi, tuttavia io non credo che si possa 
scindere la persona del poeta dalla sua opera letteraria 
e ebe questa sia potuta essere cosi oggettiva da non 
rispecchiare affatto le idee e le convinzioni soggettive 
del suo autore : basta a persuadercene la preferenza data 
a’ discorsi die sonavano acerba critica al governo co- 
stituito. E non si può negare clic scegliere questi e 
divulgarli coi suoi sonetti, a malgrado dell’ombrosa dif- 
fidenza del governo e sotto l’occhiuta vigilanza della cen- 
sura, è un bell’atto di coraggio civile. Se poi si pensa 
che il dimostrarsi ostile al governo del papa, il più illi- 
berale forse di quel tempo e il più nemico dell Italia, 
era anche un bell’atto di vero patriottismo, non si può 
fare a meno di dare ragione al Morandi, il quale con 
convincenti parole scagiona il Belli dalla taccia di essersi 
disinteressato della patria (2). 

Ma ecco il sonetto, anzi la sonettessa : 

Ar Bervede’ cc’è ppoco. F.r Papa vola, 

Clie ppe’ vvolate manco Ggentiloni ! 

Ma in partita è ttareffe, e ffa cciriola, 

Chè li falli so’ assai più de li bboni. 

Che sserve che nuoi poveri cojjoni 
le seggnammo le cacce 1 A cquella scola 
De maiinà sempre a sguincio li palloni, 

Si ll’impatti, è pper Dio grasso che ccola : 

Ggiucchi a ppassa-e-rripassa, o ccòr cordino, 

Dà lui solo l’inviti e le risposte, 

E wo’ stà ssempre lui sur trappolino 


(1) Ib., pàg. 291. 

(2) Cfr., nella citata edizione, la Prefazione di L. Morandi, 
pag. 242 e segg. 


— 239 — 


Cuann’è all’onore poi, là ccerte poste, 

Scerte finte, ch’a èss’io Tuzzoloncino, 
le darebbe er bracciale in de le coste. 

Xe le partite toste 

0 nne le mossce s’ingegna, er bon prete, 

Cor vadi e vvienghi e cquale la volete. 

Tira sempre a la rete 
Cuann’è in battuta e nriun là mmai un arzo 
0 rribatti de primo o dde risbarzo. 

Ar cliiamà, cchiama làrzo ; 

E ssi er quinisci pènne da la tua, 

Procura de tornà sempre a le dua. 

Ha una regola sua 
Ogni tanto de dà flora una messa, 

Pe’ flatte aridoppià la tu’ scommessa 

Ecco' sta jjoja lessa, 
Qualunque cosa er cacciarolo canti, 

Sce gonfia li palloni a ttutti cuanti. 

Per l’intelligenza dei termini dialettali mando al glos- 
sario del Morandi e alle chiose del medesimo al sonetto 
trascritto. Io mi limito a qualche interpretazione neces- 
saria per capire la metafora e l’allusione. 

Il sonetto è tutta una requisitoria contro il Governo 
papale: non contro fatti singoli o avvenimenti politici 
speciali, ma contro il sistema generale di esso. Il concetto 
fondamentale è: Il Papa ci dà sempre buone parole : ma 
in realtà ci gabba tutti quanti nei modi più diversi. E 
questi modi diversi di ingannare il popolo, sono espressi 
come si vede, per mezzo delle operazioni proprie del giuoco 
e con la terminologia tecnica che le indica. 

Comincia a trarre un'immagine dal luogo stesso dove 
a Roma si giocava al pallone, che era il Belvedere sotto 
il Museo Vaticano, per dire che i tristi effetti del governo 
papale sono evidenti: Ar Bei'vedè cc’d ppoco (1). Poi: Er 


(i) V. 1- 


— 240 — 


Papa vola, cioè fa larghe promesse, come son soliti farle 
quelli che non pensano ili mantenerle: ma poi è falso e 
se l’intende cogli avversari per ingannarci meglio e le 
sue promesse (falli) son sempre più che i fatti (boni) (1). 
Noi stiamo bensì all’erta (segnamo le cacce) e vigiliamo: 
ma che giova? con le furberie cho usa è tanto se non 
ci succede di peggio (2), chè in tutti gli atti del suo 
governo, in tutte le relazioni ch’egli ha con noi, egli 
ha il coltello pel manico e vuol sempre cho la sua 
vaila (E vvò sta ssempre lui sur trappolino) (3). Ma al 
vedersi cosi turlupinato, il poeta perde finalmente la 
pazienza; in modo che a un tratto esce a dire: se si 
fosse veramente tra giocatori, vi sarebbe chi le darebbe 
er bracciale in de le coste (4). La coda del sonetto con- 
tinua renumerazione dei torti del governo con lo stesso 
gergo pallonesco, quasi ancor più marcato. Sanguinosa 
perchè verissima e per spietata crudezza d'espressione, è 
l’allusione a uno dei metodi del governo del Papa: il 
celebrar di quando in quando qualche grande solennità 
religiosa, dalla quale il popolino usciva colla testa piena 
e intontita e non pensava più ai disagi e agli altri mali: 

Ila una regola tutta sua 
Oggni tanto de da ITora una messa, 

Pe’ ITatte arridoppià la tua scommessa (5); 

dove quella messa a doppio senso parte sibilando coinè 
una saetta a colpire giusto e profondo. E che il poeta 
la scocchi ben diritto mirando, e con voglia di ferire, 
appare dai versi che seguono: 

E eco sta ,i,ioja fessa 
Qualunqne cosa er cacciarolo canti, 

Sce gonfia li palloni a ttutti cuanti (6). 


(1) Vv. 2-4. 

(2) Vv. 5-8. 

(3) Vv. 9-11. 

(4) Vv. 12-14. 

(5) Vv. 21-26. 

(6) Vv. 27-29. 


— 241 - 


Questa della messa, è forse l’unica allusione a un 
fatto concreto che ci sia in tutto il sonetto. In questo 
anzi il Belli si allontana dal Boccalini, perchè, mentre 
la metafora di quest’ultimo accenna sempre a fatti e 
atti concreti che nel senso proprio sono del giocatore, 
come si disse, e nel traslato del cortigiano, quella invece 
del poeta romano sta sempre sulle generali, più diretta 
a colpire un dato sistema di governo che le singole 
manifestazioni di esso. 

Pur cosi com’è, si sente nel sonetto l'ira mal repressa 
d’una condizione di cose, a sopportar la quale nessuna 
.pazienza è più valevole. E l’ultimo verso ne fa fede. 


* * 

Nato su quel medesimo suolo di Parione (1), sul quale, 
sotto l’impulso della gran passione del popolo di Firenze 
per il giuoco della palla, sbocciò o dal quale fu altrove 
trapiantata tutta quanta la letteratura satirica e giocosa 
ch'ebbe dal pallone sua origine, trova qui il suo posto 


(1) Parione era la strada, dove in Firenze si giocava alla 
pillotta. Di essa la nota del Fortirklli dà parecchie etimologie: dal 
marmo Fario, perchè in essa un tempo v’eran le botteghe degli 
scalpellini : ripae regio = ripe rione, poiché tale strada sbocca 
sul passaggio di lung’Arno ; pars regionis — parte ili rione (Nota 
alla strofa 47 del Vili canto, pag. 417). V’è una poesia di Giulio 
Dati intitolata appunto II lamento eli Parione, ma io non la potei 
vedere. 

Del resto, sia riguardo a Parione, sia riguardo a Pillotta 
vedi le Usanze Fiorentine (lei sec. XVII del K in ceri ni che sopra 
abbiamo analizzato. Nelle citate note del Fortirelli la Pillotta è 
definita: Una specie di giuoco che si fa con una palla piccola, pure 
ripiena di cento, e se le dii con un mestolo di legno, i Nota alla 
strofa 34 del Cantare VI, pag. 203) La Pillotta derivò a noi dalla 
Pelota, giuoco spagnuolo assai usato ancora nella l.inguadoca e 
nei Pirenei. Ne ha una bellissima e particolareggiata descrizione 
Pierre Loti in Kamuntcho (Dixième édition, Paris, Calmami Lévy, 
éditeur, 1807. pagg. 54-65). 

tu 


naturale uno dei più bizzarri episodi di quel bizzarro 
poema che è II Malmantile riacquistato ( 1). Come ap- 
partenente a un poema eroicomico che fa la satira dei 
poemi seri, l'episodio è ancb'esso satirico; ma Tarma 
della sua satira non è più la metafora, come negli scrittori 
testé esaminati, ma bensì la parodia e la caricatura. 
Esso invero non trae direttamente argomento dal giuoco; 
ma questo, naturalmente introdottovi dalla qualità stessa 
del protagonista, diventa il mezzo essenziale dello svol- 
gimento della narrazione e quindi uno degli elementi 
principali di essa. I, 'episodio è questo: 

Un tale cognominato il Tura, 

Cile in Parimi gonfiava le pillotto (2), 

Era in bellezza un mostro di natura 
Sicché tutte le donne n’eran cotte (3). 

Non cli’ei ne desse loro occasione, 

Come qualche Narciso inzibettato (4), 

Anzi è un di quei che al mondo sta a pigione, 

A bioscio nel vestire e sciamannato, 

Ch’addosso i panni ognor tutti a minestra 
Tirati gli parean dalla finestra (5), 

ovverosia trascurato di sé e degli altri, sporchi e disor- 
dinati i panni e colla zazzera avviluppata e lorda. Ma 
le donne era» capone (6); e solo quando furon chiarite 
di quel suo cuor di smalto (7), fecero come la volpe coll'uva 


(1) Il Malmantile riacquistato di Perlone Zipoli con note 
di vari, scelte da L. Fortirelli, Milano, Società Tipografica di 
classici Italiani, 1867. 

(2) Cantare, Vili, strofa 47, vv. 3-4. 

(3) lb., strofa 47, vv. 56. Si noti il mostro di natura, frase bella 
per quella ambiguità, che vedemmo lodata da Quintilliano. 

(4) Ib., strofa 48, vv. 1-2. 

(5) Ib., strofa 48, vv. 5-8. 

(6) Ib., strofa 49, v. 1. 

(7) Ib., strofa 49, v. 2. 


— 243 — 


e lo lasciarono in pace (1). Ma tra le altre una ve n’era 
stata, detta Martinazza, una strega venuta in aiuto di 
quei di Malmantile (2), la quale, tra i molti altri suoi 
amori, anche del Tura s’era incapricciata, e, vistasi da 
lui trascurata, ne trasse le sue vendette (3). Fattigli tosare 
quei capelli, 

ch’un tempo aveva chiamati 

Del suo lascio mortai funi e ritorte 

Le bionde chiome, oh Dio! quei crini amati... (4), 

fece con essi 

una potentissima magia, 

Che registrata in Dite a protocollo 
In un lupo rapace trasformollo (5). 

Cosi il Tura, diventato lupo e cacciatosi nelle foreste, 
devastava le regioni vicine. A liberarlo da tal flagello 
e. rotto l’incantesimo di Martinazza, trarre il poveraccio 
dal corpo del lupo e rimandarlo alle sue pillotto e agli 
schizzatoi, si fa innanzi Paride Gannii, per incarico di 
certe Naiadi del canale di un mulino. Era Paride un 
corpulento capitano elio, al seguito di Baldone, marciava 
contro Malmantile : ma colto da fiero mal di pancia, s’era 
ricoverato in un casolare di campagna (6). Guaritone e 
ubbriacatosi del vino dei contadini, aveva sentito ri- 
nascere in sè gli spiriti guerreschi e, avviatosi per 
raggiungere il campo, era rotolato per le terre e s’era 
imbrattato tutto di mota. Avvicinatosi quindi a un canale 
per ripulirsi, v’era caduto dentro. E vi sarebbe perito, 
se le Naiadi del fiume non lo soccorrevano (7). Salvatolo, 


(1) lb., strofa 49. 

(2) Cantare, III, strofa 68 e segg. 

(3) Cantare, Vili, strofa 50. 

(4) lb., strofa 51, vv. 1-4. E si noti la parodia dello stile dei 
Petrarchisti. 

(5) lb., strofa 52, vv. 6-8. 

(6) Cantare, III, strofe 10-25. 

(7) Cantare, VII, strofe 6-26. 


— 244 — 


esse lo fanno asciugare, lo rivestono, lo armano, lo fatano 
per renderlo invulnerabile, gli dànno un certo libric- 
ciuolo che lo istruisca nell’impresa e lo mandano a rom- 
pere l’incantesimo e a liberar il Tura. Ed eccolo dunque 
in cammino (1). Gira e rigira trova finalmente colla scorta 
del libro la selva, dove il Tura-lupo è rimpiattato (2). 
Legge allora il libro e 

Cosi leggendo, sente darsi norma: 

Di quanto debba fare, in questa forma : 

Vicino al boschereccio scannatoio, 

Mentre fuoco di stipa vi riluca 
l’allon grosso, bracciali, schizzatoio 
Co’ giocatori a palleggiar conduca : 

Al rimbombar del suo diletto cuoio 
Tosto vedrà, che il gocciolone sbuca, 

Quei ricchi arnesi vago ili mirare 
Che già in Firenze lo facean gonfiare (3). 

Paride eseguisce gli ordini a puntino: il lupo infatti 
sbuca dal bosco; ma trattenuto dal fuoco, dà tempo al 
Garani di metter tutti gli arnesi da giuoco, bracciali, palle, 
schizzatoio, in un sacco c d’avviarsi alla città; lo segue 
la bestia annusando (4). Giunti alla città, Paride fa serrar 
le porte e ordina ai birri di prender il lupo. Ma come 
nessun di loro gli dà retta (5), tolti i due guanti a un 
caporale, sopra il dorso della bestia a guisa di bisacce 
li depone (0); ma por quanto putiscano di caporale, il 
fragor ancora non è tale da romper l'incantesimo : poiché 


(1) Cantare, Vili, strofe 6-59. 

(2) Cantare, X, strofe 33-39. 

(3) Cantare, X, strofa 39, vv. 7-8 e strofa 40. Notisi il doppio 
senso delle frasi lo faceca n gonfiare che si può intendere : tace- 
ri an ch’ei gonfiasse i palloni e lo lacerano insuperbire. Felice motto 
anche questo da mettersi con il mostro di natura. 

(4) Ih., strofe 41-44. 

(5) lb., strofa 46. 

(6) lb., strofa 47, vv. 1-4. 


— 245 - 


Dice Turpino (e par cli’ei dica bene) 

Ch’essendo questa si crudel malia 
Non erano a disfarla mai bastanti 
Gli odor birreschi semplici dei guanti (1). 

1 quali però riescono a far sì che 

La bestia fece subito due facce, 

Oh 1 2 3 4 5 6 una di lupo e l’altra d'uomo sembra (2), 

rimanendo tuttavia le due bestie, il Tura e il lupo, an- 
cora uniti pel groppone. Paride allora fa venir la sega 
che li divida ; e, cacciato il diavolo che aveva corpo nel 
lupo con il gettargli contro una manata di terra e di 

pietre, libera il Tura e poi va all’ osteria (3). E al 

popolo che riconoscente lo vorrebbe regalare, Paride 
null’altro chiede, se non che alla regione dal lupo infe- 
stata le si dia il nome di Montelupo (4). Cosi l’episodio 
diventa una piccola parodia dei racconti epici narranti 
di città c’han tratto origine da fatti leggendari. Ma di 
che cosa non è spiritosa parodia e satira amena il breve 
episodio di Paride Gannii e del Tura ? C’è la parodia 
della mitologia con quelle Naiadi del fiume d’un mulino, 
che il poeta non sa se sian sirene o lasche o cazzuole, 
ma ce^rto non son bestie da dozzina (5), e col fatare che 
le Naiadi fanno del corpo di Paride Gannii, da cima a 
fondo, tranne la basetta sinistra (6). E c’ò anche quella 
della mitologia contemporanea cioè delle fatazioni, degli 
incantesimi, delle fattuccherie, delle stregonerie e altre 
simili divolerie, c dei pregiudizi che a proposito di essi 
correvano tra il popolino credenzone, e della letteratura 
che traeva da essi il suo meraviglioso, nel carattere di 


(1) Ib-, strofa 48, vv. 5 8. 

(2) Ib., strofa 47, vv. 6-7. 

(3) Contare, X, strofe 32-56. 

(4) Cantare, XII, strofe 5-6. 

(5) Cantare, VII, strofe 22-24. 

(6) Cantare, VII, strofa 45. 


— 246 — 


Martinazza, che viene in aiuto di Malmantile coi suoi 
scongiuri e coi suoi esorcismi (1) e con la sua calata 
all’infèrno (2), e, nel nostro episodio particolare, in quella 
stregoneria gettata addosso al povero Tura e così co- 
micamente sciolta con quella originalissima trovata del 
f rag or birresco, del taglio con la sega, della manciata 
di terra che fuga il diavolo. 

La satira poi contro i costumi o ridicoli o corrotti 
non risparmia nessuna classe di persone. Colpisce la 
medicina e i medici empirici e ignoranti il ritratto di 
Ser Lion Magin da Ravignano, che rifiuta di visitare 
l’ammalato perchè intento a scrivere una commedia e 
la visita che in sua vece fa al Garani il medicastro suo 
sostituto (3); sferza i soldati ubbriaconi e predatori il 
racconto delle gesta di Paride guarito del suo mal di 
ventre (4); deride le accademie coi loro gabinetti e musei 
e gallerie e colle loro biblioteche male scelte la descri- 
zione del palazzo incantato in cui le Naiadi introducono 
il Garani salvato dal canale del molino (5); s’appunta 
contro la sbirraglia sporca, pusillanime, fannullona la 
chiusa dell'episodio dove il Tura è liberato dalla sua 
stregoneria (6) ; dimostra l’inefficacia delle scuole d'allora 
l’ignoranza di Paride Garani. semi-analfabeta sebbene 
scolaro per parecchi anni di Prete Pero (7). Anzi, con 


(1) Cantare, V, strofe 6-26. 

(2) Cantare, VI, strofe 8189. 

(3) Cantare, III, strofe 12-24. 

(4) Cantare, VII, strofe 13-21. 

(5) Cantare, VITI, strofe 21-37. Il poeta anzi non risparmia 
nemmen se stesso, quando immagina che nella biblioteca del 
palazzo incantato liguri anche 

... un certo Malmantil, che se e’ va fuora 
Ecco subito bell’e messe in rotta 
Ce Dee col Bombi che l’ha chiesto e vuole 
Fareall’acciughe tante camiciuole (Ib., strofa 27, vv. 5-8). 

(6) X, strofe 45-47. 

(7) Vili, strofe 57-58. 


— 247 — 


l’insegnamento e i maestri del suo tempo ce l’ha in 
particolar modo il Lippi, ingegno ribelle e originale, 
cresciuto l'uor d’ogni scuola e disciplina, insofferente a 
ragione dei metodi allora in uso di far ripetere a memoria 
salmi e salmi, appena dopo imparato l’abbici (1); irritato 
giustamente contro i mezzi disciplinari, a base di nerbate, 
adoperati per infondere negli animi giovanili l’amor dello 
studio. Questi mezzi egli ha nel suo pensier così fissi, 
che ne trae anche spesso delle similitudini. Martinazza 
ingelosita è 

Or bigia, or gialla, or rossa, or paonazza 
Or più rossa del cui d’uno scolare, 

Dopo ch’egli ha toccata una spogliazza (2), 

cioè ebbe calate le brache. E la stessa Martinazza osserva 
che 

In oggi questa par comune usanza : 

Stanno i fanciulli un po’ con osservanza 

Mentre il maestro o il padre gli bastona (3). 

E il povero Baldone, cattivo medico intorno a Berti- 
n ella, non resta peggio alle smanie di lei dello scolaro 
che si guasta belando la bocca 

Quando il maestro col baslon lo chiocca (4). 

Questo scagliarsi con tanta insistenza contro maestri 
e scuole e insegnamento, questo condannare come inutile 
e barbaro tutto il sistema didattico e pedagogico in vigore 
al suo tempo, potrebbe indurre qualcuno a credere che il 
Lippi seppe intuire e si propose di caldeggiare una riforma 
dell’istruzione fondata su principi più larghi, più razionali, 
più efficaci, più umani. Ma non è così. Agli spiriti della 


(1) Vili, strofa 57, v. 2. 

(2) V, strofa 51, vv. 4-6. 

(3) VI, strofa 66, vv. 1-3-4, 

(4) IX, strofa 61 vv. 7-8. 


— 248 — 


natura ili quello del Lippi è riserbata una parte nega- 
tiva: essi cercano di demolire senza darsi pensiero del 
riedificare; sono quasi medici a metà, che san Care 
la diagnosi esatta e scoprire e rivelare il male, ma non 
si curano d’indicarne il rimedio. Sopra il . male anzi, messo 
bene a nudo, magari ci fan su una buona risata, come 
realmente mostra di fare il Lippi sopra maestri e allievi, 
da quello spirito bizzarro ch’egli è. 

Del resto, a giusta regola, non si può neppure at- 
tribuire a lui l’onore di aver scoperto, in tempi bassi e 
tenebrosi, la piaga delle pessime scuole e dei pessimi 
maestri. Egli, nel colpir questi o quelle, forse ubbidì, 
più che ad altro, a una moda letteraria, la quale du- 
rava da lunghissimo tempo. Per tutto il ’òOO e per gran 
parte del ’GOO ancora, le satire contro i ‘pedanti e contro 
la vanità della loro scienza e contro il loro tristissimo 
insegnamento furono frequentissime (1). E la loro ragion 
di essere non va ricercata tanto nel bisogno che sen- 
tissero gli uomini del XVI e XVII secolo di altra scienza 
e di altra istruzione, quanto nel risentimento che le 
povere vittime di metodi barbari e balordi portavano con 
sò nella vita contro coloro che quei metodi applicavano 
e nel ridicolo che soleva accompagnar quasi sempre la 
persona allampanata, contrafatta e sucida del pedante (2), 
le sue abitudini singolari ed eccentriche, la sua dottrina 
arida, presuntuosa e fastidiosa (3). 

L'episodio generale del Tura cangiato in lupo ò poi 
una parodia di quanti episodi nei poemi eroici e caval- 
lereschi narrano di Circi, di Alcine, di Armide e simili 
donne solite a mutare i loro amanti in bestie o in altro. 


(1) CTr. lo studio del Graf / Pedanti nel Attraverso il Cin- 
rjueeenio, Torino, Loescher, 1888, pag. 172 e segg. e più spe- 
cialmente pagg. 211-213. 

(2) Graf, loc. cit., pagg. 172-173. 

(3) lb., pag. 175 e segg. e pag. 189 e segg. 


— 249 — 


E da certe circostanze ilei poema mi par che si possa 
anche ricercare come sia nata nella mente dell’autore 
l'idea di farne protagonista il buon diavolo del Tura. 11 
Lippi ci rappresenta se stesso nel suo poema, sotto il 
personaggio di Pedone, come un incorreggibile gioca- 
tore (1), e se non ci dice che giocava alla palla, si sa 
che ogni giocatore ha passione per ogni sorta di giuoco, 
perchè tutti i giuochi hanno comuni due elementi della 
loro attrattiva: l’allettamento del contrasto tra le parti 
e la seduzione di quel non so che di misterioso e di 
maraviglioso che hanno in sè le sorprese della sorte. 
Pedone o il Lippi, che avrebbe giocato sui pettini da 
lino, è presumibile che bazzicasse spesso in Pacione, dove 
conobbe il Tura (2), che, così bello da parere un mostro 
ili natura e a Moscio nel vestire e sciamannato e col suo 
cuor di smalto trascuratissimo del bel sesso, gli parve 
la parodia vivente di (pici Narcisi inzibettati che fanno 
girare, o credono, la testa a tutte le donne: degnissimo 
quindi di diventar l’eroe del comico episodio. Il mestici 1 2 
suo poi di gonfiatoi' di pillotto trascinò con sè l’idea della 
partita e degli istrumenti del giuoco come mezzi di ade- 
scamento e così ancora una volta il piacevole passatempo 
divenne elemento d’arte d’una piacevole e lepida nar- 
razione. 


* 

• * 


Nel cantar scherzevolmente i pregi sorprendenti di 
quella terra odorosa delle Americhe, colla quale si fa- 
ce vali certi vasi avidamente ricercati nel '600, si proponeva 
Lorenzo Bellini di satireggiare la esagerata frenesia di 


(1) IV, strofe 11-12. 

(2) Ognuno sa die sotto i nomi anagrammati e sotto i ca- 
ratteri esagerati o contraffatti del poema del Lippi si nascondono 
personaggi reali. Così, p. es., Paride Garani è Andrea Parigi, 
capitano rinomato. 


— 250 — 


possederli che occupava gli animi dei contemporanei con 
quella sua cicalata, che dal nome Bucchero dato a quei 
vasi egli chiamò La Bucchereide (1)? Per quanto l'indole 
del poemetto permetta di crederlo, non lo si può dir con 
certezza, perchè anzitutto l’opera non è fluita (2), e non 
si sa qual ne sarebbe stata la conclusione; poi se satira 
vi doveva essere nell’intenzione dell’autore, essa v'è cosi 
blanda, cftsì dissimulata, così avviluppata negli intrighi 
delle chiacchere senza fini', che non appare visibile. 
Poiché il Bellini non è altro se non un chiaccherone che 
si fa ascoltar volentieri : egli possiede in sommo grado 
l’arte del parlar bene, con brio e vivacità di forma, in 
una lingua ricca, pura, tutta viva, schiettamente to- 
scana: e conoscendo questo suo segreto, egli ne usa e 
ne abusa; una volta preso l’aire non la finisce più: si 
intrattiene di mille nonnulla e di mille frivolezze: s'in- 
terna nei meandri di infinite digressioni, procedendo 
senza norma o ragione, senza proposito nè mèta, solo 
guidato dalla inesauribile sua loquacità. E quando questa 
lo ha trascinato troppo lontano dal suo principio, sor- 
preso egli stesso d’essorsi tanto dilungato, s’arresta allora 
e, come fanno tutti i veri e propri chiaecheroni, si do- 
manda: Oh! che volerò dire ? e ritorna indietro a ri- 
prendersi da capo. 

Mentre così chiaccherando tesseva l'elogio delle tante 
virtù della terra, sovvenutogli che i Giganti eran stati 
dagli antichi chiamati appunto figli della terra, eccolo 
a parlar di loro: e il periodo che ne esce, così lungo che, 
a leggerlo d'un fiato, c’è da perderne i polmoni, è così 


(1) La Bucchereide del Dottor Lorenzo Bellini, in Firenze 
MDCCXXIX, nella stamperia di Sua Altezza Beale, appresso 
Gio. Gaetano Tortini e Santi Franchi, con licenza dei superiori. 

(2) Il poemetto fu pubblicato incompiuto 25 anni dopo la 
morte dell'autore. Contiene l.° Dna cicalata in [irosa di servir 
di prefazione (pag. 1-20); 2. u Un primo proemio al conte Lorenzo 
Magalotti (pag. 21-69) ; 3." Un secondo proemio al cav. G.B. D’Am- 
bra (pag. 71-260). 


— 251 — 


architettato: voleva dire che gli antichi, visti i giganti, 
gli vollero nominare; ma sopravvenuta l'idea nuova dei 
giganti, il loquace poeta ne resta adescato e si pone a 
parlar di essi per non meno di 60 versi, endecasillabi, 
settenari, quinari, per finalmente ritornare a dire che 

Gli chiamaron cosi 

Con queste tre parole scusse scusse : 

« Figliuoli della terra » (1). 

Parlando dunque di 

Quegli sgangherati bacchettoni 
Ch’or si chiaman Giganti 


Miglia e miglia lungacci (2), 

per dare un esempio delle loro prodezze, dice che eran 
«l’una forza 

Che volendo giocare al pallone 
Per palla prendevan Montefiascone 
E non col bracciale, ma col nudo braccio, 

Stando un sul Caucaso e l’altro in sul Testaccio, 

Il facevano andar di volata si in alto 
Ch’ei sorpassava la luna e le sfere 
E tal risplendente laceasi vedere 
Ch’ei di qui in terra pareva un pianeta, 

Ma in verità poi gli era la cometa (3). 

Qui certo 

Questi cosacci 
De’ Gigantacci (4) 

sono posti in caricatura : ma non è da pensare che l’autore 
abbia voluto cosi parodiarli per far la satira d’un mito 
e quindi della mitologia in generale e più in generale 
ancora di tutto un sistema complesso di principi etici 


(1) Op. cit., pagg. 228-229. 

(2) Op. cit., pag. 228. 

(3) Op. cit., pag. 229. 

(4) Op. cit., pag. 229. 




— 252 — 

ed estetici che la reazione condannava e sopratutto del- 
l'uso delle favole antiche come amminicoli letterari, come 
avevan fatto il Bracciolini e il Lippi stesso e fors’anche 
il Fagiuoli, negli scritti sopra citati. Ohibò! L’autore sa 
che un tempo i giganti accatastarono monti a monti, come 
fosser ciottoli: il giuoco del pallone gli è cosi familiare alla 
mente per vederlo tutti i giorni per le vie della sua città na- 
tiva dove pur vive e fa i suoi versi : perchè non dovrebbe 
farli fare la più originale e ridicola partita ? La parodia 
è dunque lì perchè se ne rida : altro non si deve cercare. 
Non li compone egli così i suoi versi come vengono ven- 
gono, alla buona e come per caso? Prendeteli dunque 
come sono : leggeteli, esilaratevi e non domandate altro. 
Se però non vi parranno troppo noiosi. 


* 

* * 

Somiglianza con questa del Bellini ha l’ invenzione 
della partita a palla che con la terra fanno Atlante ed 
Ercole nel dialogo del Leopardi, che da loro appunto si 
intitola (1). In questo almeno s’assomigliano le due par- 
tite, che i giocatori d’entrambe sono personaggi mitolo- 
gici; ma se la parodia del mito c’è nel Bellini ed è messa 
in evidenza da quegli epiteti irreverenti di cui regala 
i Giganti e dallo scegliere per palla Montefiascone e dal 
porre i giocatori un sul Caucaso e l’altro sul Testaccio e 
dal far che essi, battendo, mandino il monte su tra le stelle 
si che s’assomigli a un pianeta , che poi è la cometa, ecc., 
nel Leopardi non si può asserire assolutamente che 
essa ci sia. Certo quella di due eroi che giocano alla 
palla con la terra è una situazione bizzarra ; ma nè l’eroe 
Titanico nè quello delle Dodici Fatiche non ci scapitano 


(1) Le prose morali di Giacomo Leopardi, commentate da 
Ildebrando Della Giovanna, 2." ed., Firenze, Sansoni, 1903, 
pagg. 21-27. 




— 253 — 

nella comica avventura ; neppur per un momento lo 
scherzo va su di loro, essi ne escono perfettamente 
immuni. 

Anzitutto essi sono nel loro carattere, quale la leg- 
genda mitica è venuta loro foggiando. Atlante sempre, 
Ercole una volta resse la terra, quando questa era quanto 
pesante! E ora ch’ella s’è fatta così leggera che non 
peso più del mantello del Titano, e che questi, se non 
fosse condannato a tenerla sulla schiena, se la porrebbe 
sotto l’ascella o in tasca o se l’attaccherebbe ciondolone 
a un pelo della barba e se n’andrebbe per le sue fac- 
cende (1), perché non possono fare con essa a palla? 
È colpa loro se essi son rimasti così forti e possenti 
come una volta ed essa, poverina, s’è fatta leggera e 
piena sol del vento delle illusioni, sì da parer tutta a 
un pallone gonfiato e suggerir loro di far la partita, 
precisamente come al Clasio il pallone da giuoco sug- 
gerì l’idea della gente leggera e sol ripiena del vento 
della loro vanità? Son qui colpiti dalla parodia essi, i 
due eroi antichi, che si dispongono ora a un'impresa 
tanto più facile al confronto di quelle già un tempo ope- 
rate, o non piuttosto la terra, gravo una volta di so- 
stanza onorevole e degna e or così diversa e vana ? 
Buffi dunque nella scherzosa caricatura non sono essi, 
ma buffi gli uomini ridotti in così ridicolo stato. Ma il 
Giapetico Titano e il figlio di Giove e di Alcmena, che 
si mettono a giocare come due giovinoti i e scherzano 
e fan dello spirito, scadono della loro semi-olimpica 
dignità. No, neppur questo. Atlante saluta bensì l’amico 
sopraggiunto con un caro Ercolino (2), lepidissimo su 
quelle sue grandi labbra; e la terra, divenuta leggera, 
se la vorrebbe mettere sotto l’ascella o in tasca o ap- 
penderla a un pelo della barba (3), che son tutti modi 


(1) Dial. cit-, pag. 22, Un. 6-11. 

(2) Dial. cit., pag. 22. Un. 5. 

(3) Dial. cit., pag. 22, Un. 9-10. 


- 254 

ridicolissimi ; e comico egli è quando, creduta morta la 
terra, se ne sta in pensiero del come e del luogo del 
seppellirla e dell’epitaffio da porle (1). E ancor più in 
vena di scherzare 6 l’altro eroe con la sua cosmografia 
studiata per fare quella grandissima spedizione degli 
Argonauti (2); con l'umoristica applicazione della favola 
di Ermotimo alla terra (3); e con quei frizzi pungenti 
contro Fetonte, che ci diviene uno scioperato zerbi- 
notto intento a civettar con le Ore che gli tennero il 
montatoio quando sai) sul carro (4) e ad acquistare 
opinione di buon cocchiere con Andromeda o ('al listo 
o colle altre costellazioni , alle quali voce che ne! 
passare venisse gettando massolini di raggi e pallot- 
toline di luce confettate (5) e a fare una bella mostra 
di sè tra gli altri Dei nel passeggio di quel giorno, 
che era di festa (6), con quella sua aria un po’ spavalda 
ma non intempestiva, con la quale si vanta della benevo- 
lenza paterna (7); con l’atteggiamento così originale 
dato alla figura di Orazio che, ammesso in Olimpo ad 
istanza di Augusto , che era stato deificato da (Duce 
per considerazione che si dovette avere alla potenza 
dei Romani, va canticchiando certe sue canzonette (8). 

Pur tuttavia i due eroi non sono ridicoli, ma degne 
di riso le cose ch’essi fanno e dicono, ridicola la terra e 
l'altro, contro cui quello son dirette. Anzi di più: essi sono 
in vena di tanto buon umore, perchè bau tra mano una cosa 
ridicola; non è torto loro se, trovando la terra in condi- 
zioni cosi diverse da quelle che le conobbero un tempo e 


(1) Loc. cit., pag. 23, limi. 17-18. 

(2) Loc. cit., pag. 23, limi. 1-2. 

(3) Loc. cit., pag. 24, linn. 5-13. 

(4) Loc. cit., pag. 25, lina. 16-20. 

(5) Loc. cit., pag. 25, liun. 20-23. 

(6) Loc. cit., pag. 25, linn. 24-25. 

(7) Loc. cit-, pag. 25, linn. 10-10. 

(8) Loc. cit., pag. 26, linn. 7-11. 


— 255 — 


così leggera e vana e piena di vento e sonnolenta e 
senza sostanza di quelle azioni, gravi, serie e nobili che 
per l' addietro su di essa si compivano, si sentono esi- 
larati e disposti allo scherzo. t 

Ma Ercole e Atlante sono il Leopardi stesso ; è lui 
che ride e scherza e si balocca con questa ridicola pal- 
lottola ; è anzi il suo terribile pessimismo giunto al cul- 
mine: il genere umano è scaduto in tale stato di miseria 
e di abbiezione clic non merita più il silo sdegno nè 
le sue rampogne nè il suo disprezzo : merita il riso. E 
il riso infatti pervade tutto il dialogo e si manifesta in 
generale nella invenzione, nel contenuto, nello svolgimento, 
come nei minimi particolari dello stile e della forma. 

E questo il dialogo dove il riso è più continuo e più 
abbondante e dove, anche, esso è forse meno amaro e 
sarcastico. E pur tuttavia esso ci appare come un’espres- 
sione non meno dolorosa del pessimismo leopardiano: 
quasi sentiamo che l’indifferenza ha ucciso nell'animo 
dell’autore l’amore e la pietà del genere umano : e che, 
spezzati questi vincoli, l’autore può riderne senza che 
tra il riso faccia capolino il pianto (1). E ne ride infatti 
Ercole ancora nelle ultime sue parole che son quasi le 
estreme del dialogo. Crederi), dice, che oggi tulli gii 
uomini siero giusti perché il mondo i> caduto e ninno 
più s'è mosso (2). Nè il sarcasmo di Atlante Chi dubita 
della giustizia degli uomini ? (3), vale a spegnere l’onda 
della vasta risata d’Èrcole. Povero genere umano degno 
di tanto riso!! Contro gli uomini dunque e non contro 
gli attori del dialogo s’appunta il riso del Leopardi; non 
altrimenti che nel dialogò La scommessa di Prometeo (A) 


(1) Cfr. Dialogo di Tristano e. d’un amico, ed. cit., pag. 267. 
Dove filosofando sulla felicità umana, scrive : e così tra la me- 
raciglia e lo sdegno c il riso passai molto tempo (lin. 13) ; il riso 
dunque 6 l’ultimo stadio del pessimismo leopardiano. 

(2) Loc. cit., pag. 27, lin. 12-U. 

(3) Il>., lin. 15. 

(!) Ed. cit., pagg. 63-75. 


— 256 — 


il vino, l’olio necessario alle unzioni delle quali (jli Dei 
fanno quotidianamente uso dopo il bagno (1) e la pen- 
tola di rame, detta economica, che serve a cuocere che 
che sia con piccolo fuoco e speditamente (2), spregevoli 
cose che pur saggiamente sono dagli Dei anteposte al 
genere umano, non gettano il ridicolo o il dileggio sopra 
gli Dei, ma sugli uomini stessi, trovati poi da Momo e 
dal loro stesso fabbricante Prometeo assai più di quelle 
spregevoli. 

Per questo che ho detto, mi par che si possa escludere 
che nel Dialogo d'Èrcole e di Aliante il Leopardi, met- 
tendo i due eroi nella comica situazione che s’ò visto 
e atteggiando al riso i loro detti e fatti, ne abbia voluto 
colla parodia e collo scherzo fare la satira; mi par quindi 
che si debba anche escludere quel che dal dialogo vorrebbe 
concludere il Della Giovanna, cioè che la satira in esso con- 
tenuta va a colpire indirettamente gii Dei e cheha ragione 
il Weiss quando vi sente il soffio di (\wo\Y audace scuola 
boreale cotanto avversa alla mitologia (3). Il Leopardi 
romantico fu la sua parte e in che consista e dove 
il suo romanticismo, ha egregiamente dimostrato il 
Graf nel suo bellissimo studio Classicismo e Romanti- 
cismo del Leopardi (i). Sono elementi romantici in lui 
il sentimento della natura più settentrionale che meri- 
dionale e quindi più romantico che classico (5), la mi- 
santropia (6), la sentimentalità vaga e diffusa e la ma- 
linconia dolce e il rimpianto della giovinezza e la noia (7), 


(1) Loc. cit., pag. 65, linn. 8-9. 

(2) II)., linn. 10-11. 

(3) Cfr. Dia. la Giovanna, Cenni riassuntici e critici premessi 
al « Dialoi/o d'Èrcole e d' Atlante ». Ed. cit., pagg. 21-22. 

(4) Graf, Foscolo, Manzoni , Leopardi, ed. cit., pag. 311-347 
e per quel che riguarda il Romanticismo, pag. 317 e segg. 

(5) Graf, loc. cit., pagg. 321-322. 

(6) Ib., pagg. 322-327. 

(7) Ih., pagg. 327-331. 


I 


— 257 — 

il senso dell’indefinito e dell’infinito (1), ecc., l’idea della 
letteratura civile (2) e certe sue opinioni sulla questione 
della lingua (3), eco. ecc.; ma l’avversione alla mitologia, 
che fu uno dei capisaldi della scuola romantica, egli 
assolutamente non l’ebbe. E come avrebbe potuto averla 
il poeta del canto Alla primavera o delle favole an- 
tiche (4)? 

È vero che il Leopardi fa della mitologia un ano di- 
verso da quello dei classicisti ortodossi (5) i quali / rat 
Inno la mitologia come cosa vera e presente ; vira non 
già solo nella loro memoria e latra! piò nel sentimento 
ma ancora nella credenza (6), mentre invece egli con- 
sidera il mito come cosa irreparabilmente perdala (7); 
ma nessuno più di lui rimpiange le belle e dolci fantasie 
per la cui virtù parve vivere la natura e conversare 
con l’uomo (8), e nessuno meglio di lui inteso l’universa 
significazione e il perpetuo valore del mito (9), e ancora 
la duttilità sua, la quale lo pone in grado di ricevere, 
mutando i tempi e la civiltà, nuova forma e spirilo 
nuovo (10). E in questo stesso dialogo d’Èrcole e di 
Atlante noi abbiamo un esempio dell’uso del mito come 
simbolo o significazione d’yna condizione ideale che Fau- 
tore vagheggia; in esso il vecchio Titano e il giovine 
oi-oe rappresentano un’età infinitamente piu bella in con- 
fronto della tristissima presente (11): essi quindi in questo 


(1) Ib., pag. 332. 

(2) lb., pagg. 3315-337. 

(3) Ib., pagg. 338-339. 

(4) I canti di G. Leopardi. Ed. cit. del Piergili, pagg. 60-67. 

(5) Graf. loc. cit., pag. 318. 

(6) lb. 

(7) II). 

(8) Ib. 

(9) II)., pag. 320. 

(10) II)., pag. 320. 

(11) Cfr. Dialogo di Tristano e di un amico. Ed. cit., pag. 2I3S, 
finn. 17-23. 


» 


— 258 — 


senso, come tipi scomparsi d’ima schiatta migliore, non 
che non esser bersaglio della satira d’un nemico della 
mitologia, sono oggetto dell’ammirazione e del rimpianto 
d’uno spirito innamorato delle belle favole antiche 

cui la sciagura e l’atra 

Face del ver consunse 
Innanzi tempo (1). 

Quell’Èrcole poi, cosi gagliardo e cosi sicuro e baldo e 
giocondo nella coscienza della sua forza, ha grande ana- 
logia col rincitor nel pallone della canzone dello stesso 
Leopardi. Nel dialogo l’umanità è morta o dorme o è 
tutta giusta si che neppur i colpi e la scossa ricevuta 
nel giuoco e nella caduta hanno servito di risvegliarla : 
la patria è morta nella canzone nè l’energie naturali 
della stirpe e le virtù rinnovate dagli esercizi fìsici gio- 
veranno a farla rivivere. Il giuoco quindi, tanto nel dia- 
logo quanto nella canzone, non ha più benefica efficacia 
per altri, se non per gli stessi giocatori: ne trae l’eroe 
un diletto presente: il giovine, vincitore per se stesso 
al polo erge la mente , cioè si prepara coll’esercizio a 
procurarsi una vita securae beata. Cosi entrambi si disin- 
teressano infine dall’umanità o dalla patria, alle quali in 
principio pur sembrava voler l’autore ch’ossi volgessero 
le loro cure o almeno la loro attenzione. 

* 

« * 


Trattando de Gli Azzurri e i Rossi ho accennato 
allo scherzo fine e piacevole, del quale il De-Amicis si vale 
per variare una materia che a lungo andare sarebbe 
potuta divenire alquanto monotona. L’autore però sa 
usare dello scherzo con grande discrezione e con tatto 
finissimo : Io fa scaturire da parti diverse; da fatti e da 


(1) Leopardi, Canto alla Primavera, vv. 12-14. 


— 259 — 

cose, dagli spettatori, dai giocatori inesperti, dagli scom- 
mettitori, da se stesso anche, da mille nonnulla estranei 
al giuoco : ma da questo mai. No, il giuoco è troppo 
hello e gli è troppo caro; è cosa sacra, cui adombrar 
collo scherzo sarebbe profanazione. E in questo il De- 
Amicis s’ allontana dal Chiabrera (1) e dal Leopardi 
stesso (2), che, almeno per un momento, mostrano di du- 
bitar dell’importanza del giuoco e del loro argomento, 
e s'accosta allo Scaino, il quale come s’è veduto, tratta 
del giuoco con la più genuina serietà aristotelica e sco- 
lastica; e se inai egli ha dubbio alcuno, questo è di non 
aver òmeri capaci di tanto argomento. 

Del. resto lo scherzo de Gli Azzurri e i Rossi è una 
nuova manifestazione di queH’umorismo che il De-Amicis 
introduce in quasi tutte le sue opere per romper la mo- 
notonia delle ponderose trattazioni; umorismo discreto, 
fine, aristocratico, originale, senza fiele però; sorriso 
arguto e bonario di uomo che sa che in questo mondo 
assai più si deve compatire che biasimare. Lo scherzo 
quindi non solo è sempre blando e senza malizia, ma 
anche fuggevole, a colpi e guizzi improvvisi, che subito 
si spengono inoffensivi. Una sol volta l'autore si indugia 
un po’ a scherzare: ed è quando vede sciuparsi il suo 
giuoco diletto da giocatori inesperti ; allora persiste un 
po’ di più a ridere, ma il suo è riso di amichevole e 
pietoso ammonimento, non di scherno. I principianti, in 
i special modo, avverte egli stesso, offrono uno spettacolo 

comico e compassionevole Pare che non essi pio- 

chino col pallone, ma questo con /oro (3). E Wan Dyck 
della penna per la potenza descrittiva e Creso per la 
ricchezza della lingua, egli ottiene effetti di spontanea 
e impensata comicità nella sola rappresentazione dei 


(1) LXl, vv. 53-54. 

(2) V, vv. 27-33. 

(3) Gli Azzurri e i Rossi., XVIII, pag. 109. 


— 260 — 

rapporti tra il pallone e i principianti: Non si puh im- 
maginare come gì' inganna, come li beffa, come li fa 
sgambettare capriole, annaspare e ansimar senza frutto 
passando sopra il loro capo quando credono che ca- 
schi loro sul bracciale, schizzando a destra quando 
lo cercano a sinistra, sforzandoli a correre aranti 
e indietro e a girare a naso ritto intorno ad essi 
come cacciatori di farfalle. Oliranno incontro come di- 
sperati, e nel buon punto non lo vedono più; è » 
itilo come una botta di sapone;, lo aspettano di pie ’ 
fermo con un'impostatura tragica ; ma impauriti al- 
l’ultimo momento, si scansano come da una sassata, 
o gli fanno una riverenza come a un uccello sacro, 
o lo fuggono guardandolo come uno sparviero che gli 
insegua, o gli tirano un colpo incerto e se lo pigliano 
nel braccio, o gli roti ano le spalle e son bollati nella 
schiena, o si cacciano avanti a capo basso per pren- 
derlo di contrattempo, picchiano nei vuoto e ranno 
a gambe levate, o anche gli allungano un colpo alla 
cieca, per difendersi, e rimangono comicamente stupe- 
fatti, aprendogli occhi, di vederlo volare { 1). L’umorismo 
si sprigiona dal contenuto e dalla forma, da ogni atto e 
gesto del giocatore come da ogni proposizione o frase 
clic ce lo rappresenti. Sghignazzano i quattro spettatori 
con la bocca fessa da un orecchio all'altro (2) alla vista 
del giocator novellino ; ma ridiamo anche noi a (loi di 
labbra dinanzi a tanto spirito di comicità. E il caso d un 
dilettante che ritenti il giuoco per la prima volta dopo 
gran tempo, e crede ancora d’aver l’occhio antico e non 
l’ha più o tratta con familiarità il pallone che più non 
lo riconosce, non è meno comico. A un tratto il pal- 
lone gli dice brutalmente con un picchio nel petto : 1 a 
ria, vecchio cucco : non si scherza più con me a cin- 


(1) Loc. cit-, pagg. 109-111. 

(2) Loc. cit., pag. 111. 


- 261 - 


quant’anni (1). Con questo capitolo dei giocatori, che pei* 
esser novellini o disavvezzi sono inesperti, il De-Amicis 
ci dà una prova di quanto son ridicole le partite di 
pallone giocate alla peggio, specialmente se chi giuoca 
ostenta una valentìa che non ha. 

« 

# # 

11 Fagiuoli descrive una di queste partite comiche 
per l'imperizia dei giocatori in un capitolo, nel quale, 
di comandamento del Serenissimo e Reverendissimo Si- 
gnor Principe Cardinale dei Medici , ragguaglia V Illu- 
strissimo Signor Conte Lorenzo Magalotti d'una festa 
fatta nella villa di Cappeggi (2). 

Quivi dunque, levate le mense 

Una partita dopo si trovò 
Di palloncino, e ognun dei giocatori, 

Desto di mano, la mestola pigliò. 

Lesti di mano a prender la racchetta, si; ma poi, quanto 
mal destri a giocare quei signori ! 

Dietro alla palla or quà or là correvano 

Gridando: Mia! mia! e non le davano; 

Il che avventa, perchè non la coglievano. 

Mia! mia! ò il grido convenzionale con cui un gio- 
catore domanda che la palla sia lasciata a lui; e tosi 
sente per lo più ripetuto dai soli giocatori poco pratici 
che non si san distribuire le parti o, distribuite, non le 
san mantenere; e corron tutti insieme contro la palla 
e tutti le voglion dare, guastandosi il colpo a vicenda. 
E cosi facevano appunto i giocatori che il Fagiuoli 
mette in scena: dietro la palla or qua or là correvano e, 


(1) Loc. cit., pag. 113. 

(2) Rime piacevoli di G. B. Fagiuoli. Edizione cit., parte II, 
c.ap. XXX, pag. 247. 


— 262 — 


dopo molto gridare e affannarsi, sbagliavano il colpo: 
non per altro però se non per nn motivo semplissimo : 
perchè non la coglievano. Ma la semplicità, anzi l'in- 
genuità della spiegazione è solo apparente: ossa è invece 
di grande effetto comico e contiene una punta di ben 
diretta satira, perchè mette in tutta evidenza ed espone 
bene al ridicolo di tutti l'imperizia dei buffi giocatori, 
che non ne azzeccavano una. Del resto il ridicolo scaturisce 
ancora dal contrapporre che fa l’autore la smania che 
ogni giocatore aveva di fare lui il colpo e lo sbaglio 
sicuro che ne seguiva: anzi questo dell’antitesi è uno 
dei mezzi più frequenti che il Fagiuoli usa per provo- 
care il riso. Quei giocatori così dappoco e cosi degni di 
fischi e di risate a pia poter si trafelarano e non eran 
ritenuti nè da timor nè da disagio perchè fìssa la gloria 
in cor portavano ; dove la contrapposizione tra l'alto 
concetto che i giocatori avevan di sè e della lor partita 
e la inabilità da loro dimostrata è quanto mai comica. 
Finalmente 

Con si bel partitone al palloncino 

termina la festa e il capitolo. L’antitesi qui è, puramente 
formale e consiste nel trovarsi sapientemente accoppiato 
un diminutivo con un accrescitivo: quel palloncino infatti 
dà risalto al partitone e lo accresce smisuratamente nel 
concetto dei presuntuosi giocatori e nel ridicolo degli 
altri. 


Le persone non sono ridicole se non quando vogliono 
parere o essere ciò che non sono, avverte saggiamente 
il Leopardi (1). Se ci muovono a riso i giocatori ine- 
sperti del De-Amicis e del Fagiuoli, perchè dimostrano 
un’abilità troppo impari alla nobile arte del giuoco nel 


(1) Pensieri, IC, in principio. 


- 263 — 


primo, e troppo al disotto della lor presunzione nel se- 
condo, noi non ridiamo dell’imperizia di Arnaldo Fusinato, 
il quale, tanto più buon poeta quanto più cattivo gio- 
catore, non seppe giocando difendersi dal pallone e ne 
ebbe un dente rotto e una mascella mezzo fracassata; 
e non ne ridiamo, non perchè il caso abbastanza grave 
comincia a esser pietoso, ma perchè il primo a riderne 
è il poeta stesso. 

Egli infatti racconta questa sua disgrazia con tanta 
gioviale lepidezza, con tanto arguto e squisito umorismo 
che noi ci sentiam costretti a sorridere con lui e delle 
botte e del dente rotto e delle mascelle guaste e del 
dolore che ne soffri e della malattia che ne segui e che 
lo inchiodò per nove giorni nel letto. Il caso occorse al 
poeta nell'estate del 1846 ed egli lo narra nella poesia 
Un’impressione autunnale (1), che è una specie d’epi- 
stola in sestine diretta al suo amico Guglielmo Stefani, 
redattore del Caffè Pedi-occhi di Verona, il quale gli 
aveva domandato le sue ciutunncil i i oiprcssioìii, L’autore 
risponde subito scherzando : 

Ebben, ti scriverò d’un’impressione, 

Clie m’ha lasciata un colpo di pallone (2): 

e nessuno può negare che un’impressione simile dovette 
essere la piu profonda e duratura tra quante il poeta 
n’ebbe in tutto quell’autunno. Cosi cominciato a scher- 
zare, continua sullo stesso tono : 

Tre mesi or sono nella natal mia Schio 
Noi giocavamo a «piel terribil gioco; 

Il fatai globo era per aria, ed io, 

Che di pallone me ne intendo poco, 

Gli vo incontro correndo, in arco il braccio, 

F, paff! nella mascella me lo caccio (3). 


(1) Poesie di Arnaldo Fusi nato. Ultima edizione con aggiunte. 
Palermo, a spese dell'editore, 1868, v. l, pagg. 34-39. 

(2) lb., vv. 5-6. 

(3) Ih., vv. 7-14. 


— 264 — 

Le frasi terribil (fioco e fatai globo, comicamente 
solenni e ironiche, dipingono assai bene .1 incordo pau- 
roso che il poeta conserva del fatto; ne ride, e\eio, 
vuol c’ al tri ne rida con lui; ma si h certi che agiocare 
al pallone nessun l’avrà visto più. Cosi pure è eunuca 
la fiducia, colla quale egli crede di poter trattare con 
il pallone, e comico l’atteggiamento sicuro e d'sinvo t 
con cui si dispone a riceverlo, ma piu comico ancora 
quel subito castigo, indicato con l’onomatopeica e lepida 
interiezione di Pafl'H 

Nella descrizione degli effetti della terribile pallonata 
sempre in giuoco la persona dell’autore bersaglia a 
in tutti i sensi, da frecciate innumerevoli di argu 
spiritose e innocue, abilmente dirette or contro nonio 
or contro il poeta. A quella botta il povero colpito vede 
lutti gli astri del firmamento senza cannocchiale ( 1) 
e sente cadérgli in terra un dente 

Senza bisogno della chiave inglese (2) 
e il giorno dopo il triste avvenimento s’accorge che la 
gola s’era enfiata si 

Che il pallon ci pareva restato dentro (3) 

ed è costretto a rimanere nove giorni in letto. Non che 
il letto gli dispiaccia (4), ma gli sta a cuore di non poter 
mangiare, con tutto il suo appetito, altro che un po _ 
nan bollito (5). Anzi questa del mangiare è la nota piu 
insistente della poesia. Guarito del colpo ricevuto, come si 
duole egli del dente perduto? Nonio ne soffersi, soggiunse. 

Ma la perdita sugli altri ricadè 

Che han l'atto tutto ciò ch’ànno potuto 

Per compensarmi del fratei perduto (6). 


(1) lb., vv. 13-14. 

(2) lb., vv. 17-13. 

(3) lb., v. 34. 

(4) lb., vv. 37-38. 
(6) lb., vv. 39-42. 
(6) lb., vv. 52-54. 


— 265 — 

E con che slancio di gioia riconoscente ricorda i 


Cortesi abitator del Rovereto 

Che di cene lautissime e di pranzi 

Per otto giorni lo rendevan lieto (1) '• • 


e con qual sentimento di profonda soddisfazione esclama: 

Ditelo voi se fecero a dovere 
I superstiti denti il lor mestiere • 


Ma la faccenda del mangiare gli permette anche di get- 
tare una pietra nell’orto dei poeti. Quando, colpito dal 
fatai globo, egli raggia siccome un matto; 


Eh non è niente, ripetean gli astanti, 

Si dia coraggio, non è niente adatto! (3); 

alle quali conforte voli parole comicamente egli tìnge di 
stizzirsi e con ironia maliziosetta fa osservare: 

Ma guardate che razza d’ignoranti! 

Credon forse che sia una bagattella 
Un poeta colpito alla mascella? (4); 


Ch’ei resti tocco al cervello, ho inteso 
Esser casi che nascon di frequente, 

Ed un poeta col cervello offeso 
Son d’accordo anch’io non sarà niente; 
Ma se per caso ei perde la mascella 
Perduto egli ha la sua virtù più bella (5). 


Qui il ritratto del poeta, come volgarmente viene 
raffigurato, di persona cioè che ha sempre d ceive ou 
processione e il ventre in lotta colla fame, sicché dov 
capita è un diluvio, capovolto, è riuscitissimo Con lo 
stesso spirito di gioviale umorismo il poeta continua po 


(1) Ih., vv. 59-60. 

(2) Ih., vv. 20-21- 

(3) Ib., vv. 22-24. 

(4) Ib., vv. 25-30. 

(5) Ib., vv. 56-58. 


— 266 — 


narrando un altro suo malanno che lo colpi e rese in- 
dispensabile una piccola operazione chirurgica. Anche 
di questa ride come della pallonata. Ma la pallonata gli 
rimase più profondamente scolpita nella memoria e in 
bocca. Onde, terminando la sua poesia all’amico, tra gli 
auguri che gli fa, questo soggiunge : 

Pregherò il ciel con tutta divozione 
Che ti tenga lontano dal pallone (1). 

E non aveva torto il povero poeta!! 


(1) Ih., ultimi versi. 


INDICE 


Png. 

Prefazione v 

PARTE PRIMA. 

Il giuoco della palla 

nella vita e nella letteratura dei popoli classici. 

- Capitolo I. 

Diversi periodi nella storia della ginnastica presso i Greci o 
forme maggiori e minori di essa. — Carattere del giuoco 
dello palla, sue funzioni e suo sviluppo. — Le notizie più 
antiche del giuoco (Odissea, VI), origine di esso, i tratta- 
tisti (Ateneo, Erodoto, Plinio e Saverio Quadrio; Caristio 
Pergamene). — Le varie forme del giuoco: la feninda e 
Varpasto (Ateneo, Polluce, Marziale, e Antonio Scoino; 
Luciano, Ovidio e Properzio); V Urania (Odissea, Vili e 
Polluce); V Aporrassi (Polluce e Platone); le palle variopinte 
( Odissea , Antillo, Platone e Ovidio) 3 

Capitolo II. 

Le varie forme di giuoco presso i Romani: il trilione; alcune 
usanze di «mesta e di altre forme di giuoco (Marziale, Ma- 
crobio e Diogene); il folle e il follicolo (Marziale, Antillo, 
Svetonio, Plauto); la paganica e alcune frasi tecniche del 
giuoco (Marziale, Vairone, Novio, Plauto); congetture in- 
torno all’ interpretazione di queste frasi ; P opinione «lei 
Quadrio; significato del vocabolo Pilicrepns (Seneca, una 
iscrizione antica); una multa originale al vinto . . 26 


— 268 — 


Capitolo III. 


Pag- 


Luoghi dove gli nut iclii giocavano alla palla e personaggi storici 
giocatori di palla. — Il giuoco nella letteratura: le immagini 
tratte da esso (Platone, Aristotile, Cicerone, Quintiliano, 
Seneca, Plutarco, Clemente, Alessandrino); letteratura di 
costumi (Petronio Arbitro, Plinio, Orazio, Ovidio); il poe- 
metto Ciri » attribuito a Virgilio 31) 


Capitolo IV. 

Ultime vicende della ginnastica nella decadenza greca e romana. 

— Carattere terapeutico del giuoco della palla; medici che 
lo consigliarono (Antillo presso Oribasio, Galeno, _ Paulo 
Egineta, Celio Aureliano, Areteo, Avicenna, ecc.) . . 67 


PARTE SECONDA. 

Il j/iuoco della palla nella letteratura italiana. 

Capitolo I. 

Vicende del giuoco della palla nel Medio Evo e sue relazioni col 
sentimento religioso e la disciplina ecclesiastica (San Ago- 
stino, S. Carlo, il Petrarca). — Le più antiche notizie del 
giuoco e diffusione crescente di esso. — Il giuoco della 
palla e l’educazione della gioventù nel Rinascimento (Vit- 
torino da Feltro, Leon liattisla Alberti, Baldassar de Ca- 
stiglion, Erasmo di Valvason, Rabelais) . . . .75 

Capitolo II. 

Divisione in gruppi dei componimenti che han per soggetto il 
giuoco della palla. — Gruppo I [La letteratura dei trattati). 
Antonio Scaino, Francesco Saverio Quadrio, Tommaso lli- 
nuccini 92 


Capitolo III. 

Gruppo II [La letteratura mitologica del giuoco della palla de- 
rivata dall’episodio ovidiano di Giacinto tradotto «la Gian 
Andrea Dell’Anguillaia]. Il mito di Giacinto in Ovidio e 
nell’Anguillaia; Ovidio e le condizioni letterarie del secolo 
XVII ; partigiani e avversari della mitologia (Marino e Brac- 
ciolini). — Il Marino, il Preti e l’Obizzi. — Il Fagiuoli 103 


— 269 — 


Capitolo IV. 


P»g- 


Gruppo III [Ln letteratura d’imitazione Pindarica ed encomia- 
stica ilei giuoco della palla]. Gabriello Cliiabrera e le sue 
tre liriche del giuoco ; Pindaro c i Secentisti; l’imitazione 
di Pindaro e l’arte nelle liriche del Chiabrern. — Jacopo 
Tarulli e La Montagnola di Bologna. — Il Leopardi e la 
canzone A un vincitore del pallone ; il contenuto di questa 
poesia e il pessimismo leopardiano. — Alenrdo Aleardi e 
la poesia Per un giuoco della palla nella ralle di Fiumane; 
l’arte di essa e le idee politico-sociali elio l’informano. — 
Edmondo De-Amicis e fili Azzurri e i /tositi; pregi di questo 
libro apologetico del giuoco della palla .... 140 


Capitolo V. 


Gruppo IV [La letteratura giocosa, satirica e umoristica del 
giuoco della palla]. Il giuoco in Firenze e Canti Carnascia- 
leschi che no traggono argomento (l’Ottonaio e il Lasca). 

— Il •alini c il Ragguaglio XIII della prima Centuria. 

— Il Clasio e la favola II pallone e il bracciale. — Il Belli 
e il sonetto JSr giucator de Pallone. — Il I.ippi e l’episodio 
del 'Pura nel Malmantiie Riacquistato. — Lorenzo Bellini 
e un passo della sua Bucchereide. — Il Leopardi e il Dia- 
logo d'Èrcole e di Atlante. — Il I)e-Amicis e l’umorismo ne 
Oli Azzurri e i Rossi. — Il Fagiuoli e un passo d’un suo 
capitolo. — Il Fusiuuto e una pallonata formidabile 219 




ALBA 


STABILI MUNTO TIPOGRAFICO SINF.O